di Emilio Drudi
L’hanno pestata così
duramente che ha perso il bambino che portava in grembo da quattro mesi. Poi ha
continuato a sanguinare a lungo. Un’emorragia grave. Avrebbe dovuto essere
portata in ospedale, ma nessuno l’ha soccorsa. E’ rimasta stesa, quasi esanime,
su una tavola, in un container, fino a è stata trasferita insieme al
marito nel carcere di Kuhefia, vicino a
Bengasi. E’ accaduto nel centro di accoglienza di Ala Lamayr, in Libia. Ormai quella
dei profughi appare un’emergenza senza fine. Con l’apertura di fronti sempre
nuovi. E’ di una settimana fa quello denunciato al Palazzo delle Nazioni di
Ginevra, da parte del Commissariato Onu per i rifugiati, sulla tragedia del
campo di Shagarab, nel Sudan orientale, dove decine, centinaia di giovani
continuano misteriosamente a sparire, quasi certamente rapiti o comunque finiti
nelle mani dei mercanti di schiavi. Ora riesplode la questione libica. Proprio
questa, anzi, si è rivelata negli ultimi mesi l’emergenza più grave. Il
silenzio che l’ha avvolta da qualche tempo non è dovuto a un miglioramento. Al
contrario. E’ soltanto accaduto che l’attenzione si sia concentrata su altri
drammatici casi venuti alla luce nel frattempo. Come quello sudanese, appunto.
O come l’accelerazione della politica delle espulsioni dei profughi da parte di
Israele. Ora una serie di rapporti arrivati da Tripoli all’agenzia Habeshia riporta
la Libia in primo piano.
Al centro delle
denunce, ancora una volta, i centri di detenzione dove sono rinchiusi migliaia
di profughi e migranti, giovani intercettati alla frontiera meridionale dopo
aver attraversato il Sahara oppure bloccati sulle coste mentre tentavano di
trovare un imbarco clandestino per Lampedusa e la Sicilia. In quali condizioni
si viva in quelle prigioni è ormai noto. L’ipocrisia dei governi europei, a
cominciare da quello italiano, le chiama campi di accoglienza. In realtà si
tratta di autentici lager nei quali i detenuti sono in balia della polizia e
dei miliziani islamisti che li custodiscono. E’ un calvario quotidiano, nel
quale viene negato ogni diritto. Maltrattamenti, violenze fisiche e
psicologiche, torture, sono la norma. In particolare per le giovani donne. Don
Mussie Zerai, presidente di Habeshia, nell’ottobre scorso ha presentato un
eloquente dossier alle Commissioni europee per i diritti umani e per gli affari
interni: un atto d’accusa contro tutto il sistema schiavistico a cui in Libia sono
costretti a sottostare i richiedenti asilo e gli immigrati. Ma è un’accusa
pesante anche contro le cancellerie occidentali, che fanno finta di non vedere
e continuano a non considerare che Tripoli non ha mai firmato la convenzione di
Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati.
Quanto è stato
segnalato negli ultimi giorni ha costretto ad aggiornare con altri episodi
gravissimi quel già gravissimo primo rapporto alla Ue. Questa integrazione, che
riguarda almeno quattro dei 22 centri di detenzione, verrà inviata alle
commissioni europee e ai vari governi nazionali. E’ la cronaca di torture e
soprusi infiniti a Ghanfuda, Ala Lamayr, Hums e Kuhefia.
A Gianfuda, tra gli
altri reclusi, ci sono trenta giovani, 20 eritrei e 10 etiopi, che da circa
otto mesi sono stati come “dimenticati”. Dopo l’arresto avrebbero dovuto subire
un processo o comunque comparire di fronte a un magistrato. Invece sono finiti
in fondo a una cella in balia della polizia, senza poter contattare alcun
rappresentante delle organizzazioni umanitarie che assistono i profughi.
Habeshia è riuscita a mettersi fortunosamente in comunicazione con un ragazzo.
Era disperato: “Siamo trattati come criminali pur non avendo commesso alcun
reato – ha detto – Restiamo rinchiusi per giorni e giorni, senza uscire alla
luce del sole. Ci è impedito ogni rapporto con l’esterno: vediamo solo i
militari libici di guardia. La nostra libertà, la nostra stessa dignità sono
calpestate. Fino a qualche settimana fa qui con noi c’erano anche dei somali.
Li hanno portati via. Prima nel centro di Ala Lamayr e poi da qualche altra
parte. Non sappiamo dove. Sono spariti. Forse rimpatriati, forse spediti in qualche
altro carcere. Si dice a Sebha. Abbiamo paura che prima o poi ci tocchi la
stessa sorte”.
Ad Ala Lamayr, la
prima tappa dei somali portati via da Gianfuda, sono detenuti oltre 200
giovani, quasi tutti eritrei ed etiopi. “Questo centro – rileva don Zerai –
dovrebbe essere gestito dalla Mezzaluna Rossa. Pare invece che il vero
responsabile sia in realtà un agente dei servizi libici, con uomini armati che
fanno quello che vogliono: maltrattamenti, prepotenze, abusi di ogni tipo. Nei
giorni scorsi, in particolare, è toccato a due giovani donne, entrambe in stato
di gravidanza. Una è quella che ha perso il bambino. Tutti gli ospiti vivono
nel terrore. I miliziani li minacciano di fargli fare la stessa fine dei somali
spediti a Sebha, un centro destinato a persone malate non gradite in Libia. E
si moltiplica il rischio di essere deportati in Eritrea o in Etiopia, il paese
da cui quei profughi sono scappati per chiedere la protezione internazionale. Ma,
specie in Eritrea, al momento stesso del rientro quei ragazzi rischiano la
galera o anche peggio, perché l’espatrio clandestino è equiparato in pratica
alla diserzione dai ranghi dell’esercito”.
Poi Hums, vicino a
Tripoli, uno dei campi più grandi. Nei suoi cameroni e nelle sue celle vivono
ammassati centinaia di rifugiati, in maggioranza eritrei, etiopi e somali ma
anche di altri paesi africani. Uomini, donne e anche bambini ammassati in
locali sporchi, senza un’areazione adeguata, spesso con pochissima acqua. “La
sorte peggiore tocca come sempre alle ragazze, non di rado vittime di violenze
e abusi sessuali – rileva il dossier di Habeshia – Ma tutti sono a rischio. I
militari, soprattutto la sera, si divertono a sparare contro le stanze dove
sono rinchiusi i profughi. Spesso ubriachi, ne prendono uno a caso e lo pestano
a sangue senza ragione o inventandosi un pretesto qualsiasi. Per una sorta di
sadico passatempo. E’ diffuso l’uso delle pistole elettriche, per piegare la
resistenza dei prigionieri. Specie delle donne, quando cercano di opporsi agli
stupri. Ma appena arrivano gli ispettori del Commissariato Onu o di qualche Ong
internazionale, quegli strumenti di tortura sono fatti sparire”. Condizioni
simili vengono denunciate nel carcere di Kuhefia: anche qui i prigionieri sono
centinaia, tagliati fuori dal mondo.
“E’ la storia di
sempre – denuncia don Zerai – La Libia fa il lavoro sporco per conto
dell’Europa e l’Europa fa finta di non vedere. Ma di tutta questa sofferenza
inflitta a centinaia di persone qualcuno dovrà rispondere. Gli accordi sul
controllo dell’emigrazione nel Mediterraneo riguardano diversi paesi della
sponda sud, ma è in Libia che hanno assunto il volto peggiore. Accadeva già ai
tempi di Gheddafi. E’ cambiato il governo ma per i profughi niente è cambiato.
Continuano i maltrattamenti, gli abusi, le torture. Continua la pratica di
usare i profughi come forza lavoro gratuita, cioè come schiavi. Continua il
mercato dei miliziani: chi paga ha buone probabilità di essere liberato da quei
lager, salvo ad essere quasi sempre catturato di nuovo nel giro di poche
settimane e a ricominciare il calvario in un altro carcere. La Comunità Europea
ha una responsabilità enorme in tutto questo. Per la sua inerzia, per la sua
indifferenza, per la scelta di sbarrare i suoi confini. Anzi, di
‘esternalizzarli’, questi confini, fino alla Libia, perché i profughi non
arrivino neanche in vista delle sue coste. Relegati lontano perché nessuno
possa vedere e sentire. Perché su tutto cada il silenzio. Ecco, la complicità
europea nella tragedia dei profughi si concretizza in questo silenzio
assordante: sulle vittime in mare e nelle carceri, sulle torture, sugli stupri,
sulle violenze. In questo silenzio e nei patti bilaterali firmati tra singoli Stati
dell’Unione e alcuni governi del Nord Africa”.
L’Italia è uno degli
Stati che si sono affidati a questi patti bilaterali. Con la Libia. Lo ha fatto
Berlusconi con Gheddafi. Lo ha ripetuto Monti con il nuovo governo.
Nell’indifferenza generale e di fatto con il consenso di tutte le forze
politiche: non c’è stato un solo partito che abbia chiesto di revocare, ad
esempio, l’accordo specifico sul controllo dell’emigrazione siglato dal
ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri con il suo omologo di Tripoli.
Bersani, nella visita ufficiale in Libia in dicembre, non ha speso una parola
per questo problema: nulla sulla necessità di revocare o almeno rivedere
l’intesa bilaterale, nulla sui centri di detenzione, nulla sulle condizioni di
schiavitù in cui sono relegati centinaia di richiedenti asilo e migranti. Non a
caso, del resto, alcune istituzioni internazionali hanno denunciato che
nell’agenda politica degli schieramenti in corsa per Palazzo Chigi non c’è
traccia o quasi dei diritti umani. Tanto che il Commissariato Onu, anche a
costo di essere imputato di “ingerenza indebita”, ha ritenuto di dover
sollecitare tutti i leader a considerare una priorità l’emergenza rifugiati,
finora assente dal dibattito elettorale e dagli interessi del futuro governo. Amnesty
è andata anche oltre, lanciando una petizione popolare, rivolta a tutti i partiti,
sul rispetto reale, quotidiano dei diritti più elementari degli ultimi e degli “esclusi”:
per ascoltare “il gemito degli oppressi e dei discriminati”. Risposte concrete
finora non ne sono arrivate. Né dalla sinistra, né tantomeno dalla destra.
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