mercoledì 6 febbraio 2013

Libia: ancora violenze sui profughi ma l’Italia non mette in discussione il patto bilaterale sull’emigrazione


di Emilio Drudi

L’hanno pestata così duramente che ha perso il bambino che portava in grembo da quattro mesi. Poi ha continuato a sanguinare a lungo. Un’emorragia grave. Avrebbe dovuto essere portata in ospedale, ma nessuno l’ha soccorsa. E’ rimasta stesa, quasi esanime, su una tavola, in un container, fino a è stata trasferita insieme al marito  nel carcere di Kuhefia, vicino a Bengasi. E’ accaduto nel centro di accoglienza di Ala Lamayr, in Libia. Ormai quella dei profughi appare un’emergenza senza fine. Con l’apertura di fronti sempre nuovi. E’ di una settimana fa quello denunciato al Palazzo delle Nazioni di Ginevra, da parte del Commissariato Onu per i rifugiati, sulla tragedia del campo di Shagarab, nel Sudan orientale, dove decine, centinaia di giovani continuano misteriosamente a sparire, quasi certamente rapiti o comunque finiti nelle mani dei mercanti di schiavi. Ora riesplode la questione libica. Proprio questa, anzi, si è rivelata negli ultimi mesi l’emergenza più grave. Il silenzio che l’ha avvolta da qualche tempo non è dovuto a un miglioramento. Al contrario. E’ soltanto accaduto che l’attenzione si sia concentrata su altri drammatici casi venuti alla luce nel frattempo. Come quello sudanese, appunto. O come l’accelerazione della politica delle espulsioni dei profughi da parte di Israele. Ora una serie di rapporti arrivati da Tripoli all’agenzia Habeshia riporta la Libia in primo piano.
Al centro delle denunce, ancora una volta, i centri di detenzione dove sono rinchiusi migliaia di profughi e migranti, giovani intercettati alla frontiera meridionale dopo aver attraversato il Sahara oppure bloccati sulle coste mentre tentavano di trovare un imbarco clandestino per Lampedusa e la Sicilia. In quali condizioni si viva in quelle prigioni è ormai noto. L’ipocrisia dei governi europei, a cominciare da quello italiano, le chiama campi di accoglienza. In realtà si tratta di autentici lager nei quali i detenuti sono in balia della polizia e dei miliziani islamisti che li custodiscono. E’ un calvario quotidiano, nel quale viene negato ogni diritto. Maltrattamenti, violenze fisiche e psicologiche, torture, sono la norma. In particolare per le giovani donne. Don Mussie Zerai, presidente di Habeshia, nell’ottobre scorso ha presentato un eloquente dossier alle Commissioni europee per i diritti umani e per gli affari interni: un atto d’accusa contro tutto il sistema schiavistico a cui in Libia sono costretti a sottostare i richiedenti asilo e gli immigrati. Ma è un’accusa pesante anche contro le cancellerie occidentali, che fanno finta di non vedere e continuano a non considerare che Tripoli non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati. 
Quanto è stato segnalato negli ultimi giorni ha costretto ad aggiornare con altri episodi gravissimi quel già gravissimo primo rapporto alla Ue. Questa integrazione, che riguarda almeno quattro dei 22 centri di detenzione, verrà inviata alle commissioni europee e ai vari governi nazionali. E’ la cronaca di torture e soprusi infiniti a Ghanfuda, Ala Lamayr, Hums e Kuhefia.
A Gianfuda, tra gli altri reclusi, ci sono trenta giovani, 20 eritrei e 10 etiopi, che da circa otto mesi sono stati come “dimenticati”. Dopo l’arresto avrebbero dovuto subire un processo o comunque comparire di fronte a un magistrato. Invece sono finiti in fondo a una cella in balia della polizia, senza poter contattare alcun rappresentante delle organizzazioni umanitarie che assistono i profughi. Habeshia è riuscita a mettersi fortunosamente in comunicazione con un ragazzo. Era disperato: “Siamo trattati come criminali pur non avendo commesso alcun reato – ha detto – Restiamo rinchiusi per giorni e giorni, senza uscire alla luce del sole. Ci è impedito ogni rapporto con l’esterno: vediamo solo i militari libici di guardia. La nostra libertà, la nostra stessa dignità sono calpestate. Fino a qualche settimana fa qui con noi c’erano anche dei somali. Li hanno portati via. Prima nel centro di Ala Lamayr e poi da qualche altra parte. Non sappiamo dove. Sono spariti. Forse rimpatriati, forse spediti in qualche altro carcere. Si dice a Sebha. Abbiamo paura che prima o poi ci tocchi la stessa sorte”.

Ad Ala Lamayr, la prima tappa dei somali portati via da Gianfuda, sono detenuti oltre 200 giovani, quasi tutti eritrei ed etiopi. “Questo centro – rileva don Zerai – dovrebbe essere gestito dalla Mezzaluna Rossa. Pare invece che il vero responsabile sia in realtà un agente dei servizi libici, con uomini armati che fanno quello che vogliono: maltrattamenti, prepotenze, abusi di ogni tipo. Nei giorni scorsi, in particolare, è toccato a due giovani donne, entrambe in stato di gravidanza. Una è quella che ha perso il bambino. Tutti gli ospiti vivono nel terrore. I miliziani li minacciano di fargli fare la stessa fine dei somali spediti a Sebha, un centro destinato a persone malate non gradite in Libia. E si moltiplica il rischio di essere deportati in Eritrea o in Etiopia, il paese da cui quei profughi sono scappati per chiedere la protezione internazionale. Ma, specie in Eritrea, al momento stesso del rientro quei ragazzi rischiano la galera o anche peggio, perché l’espatrio clandestino è equiparato in pratica alla diserzione dai ranghi dell’esercito”.
Poi Hums, vicino a Tripoli, uno dei campi più grandi. Nei suoi cameroni e nelle sue celle vivono ammassati centinaia di rifugiati, in maggioranza eritrei, etiopi e somali ma anche di altri paesi africani. Uomini, donne e anche bambini ammassati in locali sporchi, senza un’areazione adeguata, spesso con pochissima acqua. “La sorte peggiore tocca come sempre alle ragazze, non di rado vittime di violenze e abusi sessuali – rileva il dossier di Habeshia – Ma tutti sono a rischio. I militari, soprattutto la sera, si divertono a sparare contro le stanze dove sono rinchiusi i profughi. Spesso ubriachi, ne prendono uno a caso e lo pestano a sangue senza ragione o inventandosi un pretesto qualsiasi. Per una sorta di sadico passatempo. E’ diffuso l’uso delle pistole elettriche, per piegare la resistenza dei prigionieri. Specie delle donne, quando cercano di opporsi agli stupri. Ma appena arrivano gli ispettori del Commissariato Onu o di qualche Ong internazionale, quegli strumenti di tortura sono fatti sparire”. Condizioni simili vengono denunciate nel carcere di Kuhefia: anche qui i prigionieri sono centinaia, tagliati fuori dal mondo.
“E’ la storia di sempre – denuncia don Zerai – La Libia fa il lavoro sporco per conto dell’Europa e l’Europa fa finta di non vedere. Ma di tutta questa sofferenza inflitta a centinaia di persone qualcuno dovrà rispondere. Gli accordi sul controllo dell’emigrazione nel Mediterraneo riguardano diversi paesi della sponda sud, ma è in Libia che hanno assunto il volto peggiore. Accadeva già ai tempi di Gheddafi. E’ cambiato il governo ma per i profughi niente è cambiato. Continuano i maltrattamenti, gli abusi, le torture. Continua la pratica di usare i profughi come forza lavoro gratuita, cioè come schiavi. Continua il mercato dei miliziani: chi paga ha buone probabilità di essere liberato da quei lager, salvo ad essere quasi sempre catturato di nuovo nel giro di poche settimane e a ricominciare il calvario in un altro carcere. La Comunità Europea ha una responsabilità enorme in tutto questo. Per la sua inerzia, per la sua indifferenza, per la scelta di sbarrare i suoi confini. Anzi, di ‘esternalizzarli’, questi confini, fino alla Libia, perché i profughi non arrivino neanche in vista delle sue coste. Relegati lontano perché nessuno possa vedere e sentire. Perché su tutto cada il silenzio. Ecco, la complicità europea nella tragedia dei profughi si concretizza in questo silenzio assordante: sulle vittime in mare e nelle carceri, sulle torture, sugli stupri, sulle violenze. In questo silenzio e nei patti bilaterali firmati tra singoli Stati dell’Unione e alcuni governi del Nord Africa”.

L’Italia è uno degli Stati che si sono affidati a questi patti bilaterali. Con la Libia. Lo ha fatto Berlusconi con Gheddafi. Lo ha ripetuto Monti con il nuovo governo. Nell’indifferenza generale e di fatto con il consenso di tutte le forze politiche: non c’è stato un solo partito che abbia chiesto di revocare, ad esempio, l’accordo specifico sul controllo dell’emigrazione siglato dal ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri con il suo omologo di Tripoli. Bersani, nella visita ufficiale in Libia in dicembre, non ha speso una parola per questo problema: nulla sulla necessità di revocare o almeno rivedere l’intesa bilaterale, nulla sui centri di detenzione, nulla sulle condizioni di schiavitù in cui sono relegati centinaia di richiedenti asilo e migranti. Non a caso, del resto, alcune istituzioni internazionali hanno denunciato che nell’agenda politica degli schieramenti in corsa per Palazzo Chigi non c’è traccia o quasi dei diritti umani. Tanto che il Commissariato Onu, anche a costo di essere imputato di “ingerenza indebita”, ha ritenuto di dover sollecitare tutti i leader a considerare una priorità l’emergenza rifugiati, finora assente dal dibattito elettorale e dagli interessi del futuro governo. Amnesty è andata anche oltre, lanciando una petizione popolare, rivolta a tutti i partiti, sul rispetto reale, quotidiano dei diritti più elementari degli ultimi e degli “esclusi”: per ascoltare “il gemito degli oppressi e dei discriminati”. Risposte concrete finora non ne sono arrivate. Né dalla sinistra, né tantomeno dalla destra.

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