di Emilio Drudi
Il ministro
dell’interno Angelino Alfano stava parlando alla Camera sul video-choc che ha
documentato il trattamento inumano riservato ai profughi nel centro accoglienza
di Lampedusa, quando è esplosa la notizia della terribile protesta attuata
proprio a Roma, a meno di dieci chilometri dai palazzi del potere, da otto
migranti ospiti del Cie di Ponte Galeria: otto disperati che si sono cuciti la
bocca per urlare la impossibilità di farsi ascoltare contro l’indifferenza che
in Italia circonda la tragedia di tanti giovani come loro. Quel grido di dolore
ha squassato l’ipocrisia che stavano dimostrando il Governo e la politica anche
di fronte all'umiliazione e al tormento dei giovani rifugiati africani che, in
una struttura dello Stato, nudi e costretti in fila all'aperto, venivano
spruzzati con un liquido anti scabbia. Una routine sconvolgente, che sarebbe
rimasta nascosta senza le immagini “rubate” con il suo cellulare da uno dei
profughi, un ragazzo siriano.
Nel suo intervento
in Parlamento, Alfano non è andato al di là delle solite promesse e
rassicurazioni generiche. L’unico provvedimento concreto è stata la revoca del
contratto alla cooperativa che finora ha gestito il campo di Lampedusa. Meno
del minimo. Niente, anzi, di fronte allo sbando nel quale sono precipitate da
anni tutte le strutture destinate ad ospitare fuggiaschi e migranti: i centri
di prima accoglienza (Cpa); i centri di assistenza per i richiedenti asilo
(Cara); i centri di identificazione ed espulsione (Cie), vere e proprie
carceri, questi ultimi, in cui si può restare rinchiusi per mesi, senza aver
commesso alcun reato e senza processo. Alfano, a nome del Governo, ha glissato
ancora una volta. Su tutto. Non ci ha pensato neanche un attimo a mettere in
discussione il sistema di accoglienza in vigore nel nostro Paese, una vera e
propria fabbrica di sofferenze, che trasforma i profughi in non persone, prive
di ogni diritto, “invisibili” consegnati allo sfruttamento e al lavoro nero e
costretti a vivere a migliaia in rifugi di fortuna come, a Roma, il palazzone
abbandonato della Romanina (oltre 1.500 ospiti), un altro edificio in disuso
nella periferia del Collatino (più di mille “inquilini”), la baraccopoli
sull’argine dell’Aniene (tra i 150 e i 200 accampati) a Ponte Mammolo.
Il solito silenzio
assoluto. Eppure, proprio in concomitanza con il filmato del Tg-2 in
discussione alla Camera, sono scoppiati numerosi altri casi a denunciare come
il trattamento inumano documentato a Lampedusa sia in realtà la regola in tutta
Italia, in strutture concepite come prigioni, vecchie, inadeguate e sempre così
sovraffollate che le condizioni di vita diventano di per sé impossibili, spesso
aggravate anche dalla insensibilità di chi ha il delicato compito della gestione,
dalle lungaggini della burocrazia, dalle continue “non risposte”. In una
parola, dall’insensibilità di uno Stato che accoglie migliaia di disperati come
profughi, ma poi li abbandona al proprio destino. E’ una tragedia che si
consuma giorno per giorno, ma nascosta sotto una coltre pesante di
“silenziamento”: ai tempi del ministro leghista Roberto Maroni agli interni, si
è persino arrivati alla vera e propria censura, con il divieto ai giornalisti
di accedere ai centri di accoglienza di tutti i tipi: Cpa, Cara e Cie.
La protesta
sconvolgente di Ponte Galeria ha voluto denunciare questo muro di omertà che
copre i ritardi, l’indifferenza, gli abusi. Gli otto maghrebini, quattro
marocchini e quattro tunisini, che si sono cucite le labbra con un ago ricavato
dalla parte metallica di un accendino da due soldi e il filo strappato a una
coperta, hanno fatto capire di essere decisi a portare avanti la loro azione ad
oltranza, rifiutando anche il cibo: accettano solo un po’ d’acqua, che bevono
con una cannuccia. A loro, domenica mattina, si sono uniti altri due migranti,
sempre maghrebini, anch’essi cucendosi la bocca e iniziando lo sciopero della
fame. Una contestazione estrema, come estrema è la disperazione e la condizione
dei migranti nei Cie.
Uno sciopero della
fame è in corso da quattro giorni anche al centro di prima accoglienza di
Cagliari. Fa seguito alla sommossa scoppiata tra gli eritrei trasferiti da
Lampedusa dopo lo scandalo del filmato e sedata a fatica dalla polizia. Si
tratta di circa 80 giovani, in maggioranza uomini ma anche numerose donne, di
cui cinque in stato di gravidanza. Pensavano che, dopo i mesi trascorsi come
confinati, la loro odissea fosse finalmente terminata. Invece si sono ritrovati
ad Elmas, in un altro campo simile a quello che avevano appena lasciato. Anzi,
ancora più militarizzato, perché è adiacente all’aeroporto. Da qui la rivolta.
Una decina hanno anche tentato la fuga, gettandosi in mare: due hanno rischiato
di annegare e sono stati ripresi, di otto si è persa ogni traccia. Gli altri, appena
arrivati nella struttura d’accoglienza, allestita come una caserma o un
carcere, hanno deciso tutti insieme di rifiutare acqua e cibo. “Perché – hanno
urlato – ci avete messo in questa specie di prigione? Dopo tutto quello che
abbiamo sofferto nel deserto, in Libia e in mare, ora ci rinchiudete in una
base militare. Qual è la nostra colpa, forse quella di aver cercato la
libertà?...”. Questo sogno di libertà lo stanno inseguendo non da noi ma in
altri stati europei, dove hanno familiari e parenti pronti ad accoglierli e ad
aiutarli. Così rifiutano di registrarsi e di rilasciare le proprie impronte
digitali, per non essere poi costretti a restare in Italia, come prevede il
trattato di Dublino, che vincola i rifugiati al paese nel quale hanno chiesto
asilo. Ricordano che un loro compagno, Mulue Ghirmay, si è suicidato nel Cara
di Mineo, nel Catanese, proprio per questo: voleva raggiungere una delle sue
sorelle in Svizzera o in Norvegia, ma si è trovato di fronte la barriera
invalicabile eretta dalle cancellerie europee e dalla ottusa burocrazia
italiana.
Anche il Cara di
Mineo è in rivolta. Proprio sulla scia della scelta estrema di Mulue Ghirmay,
che si è impiccato a 21 anni, stroncato da otto mesi consumati nella vana
attesa di essere ascoltato dalla commissione territoriale alla quale aveva
inoltrato la richiesta di asilo. Otto mesi d’inferno e con davanti nessuna
prospettiva di futuro. Otto mesi trascorsi come in prigione, in una struttura
invivibile, attrezzata per un massimo di 1.200 posti ma dove, in un clima di
prepotenze e abusi, vivono attualmente oltre 4 mila disperati provenienti da
ben 54 nazioni diverse. Ecco perché è esplosa la rabbia dei suoi compagni di
sventura che, esasperati, hanno abbandonato il centro, una ex base militare americana,
dando vita a una serie di blocchi stradali e di scontri con la polizia. Come
già diverse altre volte in passato. Mulue, infatti, non è la sola vittima
registrata in questo complesso, isolato in mezzo alla campagna, lontano da
tutto e da tutti. Secondo le ripetute denunce dell’agenzia Habeshia, ci
sarebbero stati almeno altri quattro morti per i disagi e le scarse cure
mediche. L’ultimo, nel gennaio scorso, è una ragazza eritrea di 28 anni,
incinta di 4 mesi, sofferente di aneurisma all’aorta eppure costretta a
rimanere nel caos del Cara. Prima di lei, per varie patologie, un giovane
pakistano, un maliano e un ghaniano. Da sempre, del resto, la Ong Medici per i
diritti umani denuncia che, in tutte le strutture che ospitano profughi e
migranti, l’assistenza sanitaria è del tutto inadeguata, spesso solo teorica.
Ma questi appelli sono rimasti inascoltati. Così come le richieste di prevedere
anche ambulatori di psicologi, per occuparsi almeno dei casi più vulnerabili,
dei “malati dentro”.
Non c’è ormai un
solo centro d’accoglienza dove la tensione non sia al massimo. Lo denuncia
anche il deputato del Pd Khalid Chaouki, di origine marocchina, che domenica si
è rinchiuso nel complesso di Lampedusa, deciso a restarci – ha dichiarato –
“fino a quando le cose non cambieranno”. “Non mi muoverò da qui – ha spiegato –
finché il ragazzo siriano che ha girato il video e i naufraghi del tre ottobre
illegittimamente trattenuti da oltre due mesi, non saranno trasferiti. La mia è
una protesta forte. Sono venuto più di una volta a Lampedusa, ma nessuno
agisce. Invito tutti i miei colleghi e i sindaci a occuparsi dei centri che
hanno vicini alle loro città e ad andare a vedere come funzionano le cose”.
Ecco il punto. Il
Governo, le istituzioni, la politica hanno sempre rimosso questo problema
enorme, seppellendolo sotto un’ipocrita immagine di buonismo, che esalta i
salvataggi dei naufraghi ma tace sul trattamento poi riservato ai profughi
tratti in salvo. Tace sui respingimenti indiscriminati in mare, che continuano
nonostante gli impegni presi con l’Europa. Tace sull’affidamento di migliaia di
uomini, donne e persino bambini alle carceri libiche – autentici lager dove accade
di tutto: abusi, maltrattamenti, pestaggi, lavoro forzato, torture, stupri,
ricatti – grazie agli accordi bilaterali che delegano a Tripoli il ruolo di
“gendarme del Mediterraneo” contro l’emigrazione, addestrandone la polizia e
rifornendolo anche di mezzi navali, auto militari speciali, armi.
Il discorso del
ministro Alfano in Parlamento non si è discostato da questa ipocrisia. Le urla
di protesta dolorose che arrivano da tutta Italia si sono incaricate di
smentirlo prima ancora che nell’aula di Montecitorio cessasse l’eco delle sue
parole.
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