Mineo: Profugo eritreo Morto, vittima dell’Accordo di Dublino e del pessimo sistema di accoglienza in Italia
Aveva
21 anni ed era sbarcato in Sicilia lo scorso 5 aprile. Si chiamava Mulue Ghirmay,
veniva da Keren, in Eritrea. Scappava da un regime militare tra i più duri e
sanguinari del mondo. Ha affrontato il Sahara, la Libia. Si è imbarcato
rischiando la morte nel Mediterraneo. È sopravvissuto a tutto questo. Ma non
all’Italia. Non ha trovato ad attenderlo la morte nel deserto o nel mare: l’ha
trovata nelle ex case per i militari della base americana diventate oggi il
Cara di Mineo, un lager più che un centro assistenza per i richiedenti asilo,
isolati da tutto e da tutti, lontani dalla città. Perché, evidentemente, devono
essere e restare “ invisibili”: nascosti alla vista e, dunque, all’attenzione e
a qualsiasi intervento di aiuto concreto. Quasi neanche esistessero. Eppure lo
chiamano villaggio della solidarietà.
Non
sono ancora stati chiariti i dettagli del decesso. Il giovane è stato
rinvenuto impiccato con una tenda. Sulla tragedia la Procura di Caltagirone ha
aperto un’inchiesta. Le uniche notizie certe sul suo conto per ora sono quelle
fornite dalle sorelle, che vivono nel Nord Europa. Quanto alle motivazioni che
hanno indotto il giovane a togliersi la vita, si sospetta che sia stato
determinante il fatto di aver dovuto “registrare” le sue impronte digitali: che
si sentisse, insomma, “schedato” e ormai nell’impossibilità di raggiungere i
familiari che lo hanno preceduto nella fuga dall’Eritrea. E’ un sospetto che
chiama pesantemente in causa l’Italia, la quale si è assunta le responsabilità del
suo caso di “richiedente asilo politico”, ma poi lo ha costretto a restare a
Mineo per 8 mesi, in condizioni di vita indegne e privo di una prospettive per il
futuro. Praticamente abbandonato a se stesso, Mulue vedeva solo buio nella sua domani,
perché per i profughi come lui il “sistema Italia”, dopo mesi, a volte più di
un anno di isolamento, ti dà un pezzo di carta chiamato permesso di soggiorno, ti
accompagna alla stazione caricandoti su un treno, senza un euro in tasca, e poi
ti dice: ‘Vai dove vuoi’. Così la “pratica” è chiusa ma, di fatto, sei stato
destinato ad essere un barbone consegnato alla strada. Ecco, con ogni
probabilità, che cosa tormentava questo ragazzo. A rubargli il futuro è stata
l’Italia. Quel futuro che lui sperava di vivere con le sorelle nel Nord Europa.
Avrebbe potuto scegliere tra la Svizzera e la Norvegia, i due paesi europei
dove è emigrata la sua famiglia e invece ha chiuso tragicamente la sua vita a
Mineo, dopo aver atteso per ben 8 mesi di essere chiamato dalla commissione
territoriale incaricata di esaminare la sua richiesta di asilo, per di più col
timore di ottenere, come unico risultato, quello di essere abbandonato alla
stazione di Catania.
Ecco
cosa ha ucciso Mulue: l’assoluta incertezza del futuro e i tempi di attesa così
lunghi, trascorsi in un luogo affollato da più di 4 mila persone provenienti da
54 nazioni diverse, in un clima
quotidiano di tensione altissima e ogni giorno in lotta per sopravvivere, guardato
a vista da militari come un criminale. Questo raccontava alle sue sorelle: la
vita invivibile nel centro, le condizioni umilianti, l’attesa logorante per un
risultato finale che si profilava deludente. E questo probabilmente lo ha
sconfitto: dopo aver superato pericoli enormi, dal momento della fuga dalla
dittatura fino alla traversata nel Mediterraneo, guidato da un grande sogno di libertà,
diritti e dignità, si è ritrovato prigioniero di un sistema assurdo che ha
spento, ucciso quel suo sogno. Senza quel sogno Mulue non se la sentiva di
vivere, così ha scelto di ribellarsi con l’unica arma che gli era rimasta: la
sua stessa vita. Di ribellarsi e porre sotto accusa chi voleva decidere al
posto suo, chi lo voleva gettare in uno dei tanti palazzi fatiscenti dove
vivono migliaia di profughi eritrei come lui, “condannati” dal sistema politico
italiano e da accordi europei come il “Dublino III” a
diventare invisibili,
ricattabili, “non persone” senza diritti, forza lavoro da sfruttare. La scelta
dolorosa di Mulue è una fuga da questa sistema indegno che costringe migliaia
di profughi a vivere in condizione disumane nella “civile Italia”, non nel
terzo mondo: in Italia, stato membro dell’Unione Europea e del G7 eppure
incapace di dotarsi di una legge organica sul diritto di asilo, di un sistema nazionale
capace di garantire un’accoglienza dignitosa, attraverso progetti di inclusione
sociale, economica e culturale dei profughi, accolti sulla carta, ma poi
abbandonati a se stessi.
So
già che la magistratura chiuderà il caso di Mulue come un suicidio dalle
motivazioni non chiare. Ma io resto convinto che il motivo vero sia fin troppo
chiaro: questo ragazzo è vittima di un sistema di accoglienza incapace di
rispettare la dignità della persona e di offrire un futuro che non sia quello
di essere gettati per strada, come un rifiuto; e, insieme, è vittima degli
accordi europei che gli ha impedito di andare a vivere dalle sue sorelle, dove
poteva essere supportato e accompagnato da loro per ricominciare a vivere, dopo
le traversie della fuga e dell’esilio.
La
morte di questo ragazzo di 21 anni spero almeno che faccia riflettere i “potenti”
che hanno il potere decisionale, dal governo fino a chi ha responsabilità di
gestione dei centri come quello di Mineo: spero che comprendano finalmente che
hanno a che fare con degli esseri umani, che si tratta di persone e non di
numeri, che dentro ogni “fascicolo” c’è un uomo o una donna, venuti a cercare protezione,
libertà, diritti e dignità e non certo per essere sfruttati o trasformati in
mendicanti condannati a dipendere dalle mense di enti “benefattori”. Bisogna cambiare, umanizzare questi centri di
accoglienza. Se la capienza è di 1.200 è inconcepibile ammassarvi un numero
addirittura tre volte superiore di ospiti. Già questo sovraffollamento rende di
per sé la vita un inferno. I servizi predisposti per 1.200 non possono
rispondere alle esigenze di 4 mila: è ovvio che ne nascano tensioni e disagi. L’unica
cosa positiva fatta dalla legge Bossi-Fini è quella di aver introdotto le 7
commissioni territoriali per le richieste di asilo, ma pare che oggi ne siano
operative soltanto 4, oltre alla vecchia commissione centrale di Roma. Secondo
gli impegni, questi organismi avrebbero dovuto rispondere alle domande in tempi
accettabili, senza costringere il richiedente alla tortura di tempi di attesa
lunghi e logoranti sul piano psicologico, famigliare e sociale. Si registra,
invece, una media di 14 mesi di attesa, dall’arrivo fino alla risposta finale.
E questa attesa, già di per sé difficile, si fa insopportabile in strutture
sovraffollate, come quella di Mineo, per persone che hanno già dovuto superare
tanti pericoli per arrivare in Italia, dove speravano di trovare amicizia e
solidarietà e si sono ritrovati invece quasi in un lager.
C’è
da chiedersi come mai l’Italia non sia in grado
di rispettare i diritti e la dignità di queste persone. La risposta
forse va ricercata nel fatto che sia i legislatori che molti “professionisti
della solidarietà” finora non hanno avuto la mentalità e la volontà di
progettare un sistema di accoglienza partendo dal bisogno dei rifugiati. Si è
tenuto conto dei bisogni della politica e di quelli delle organizzazioni di
assistenza. Il rifugiato è l’ultimo pensiero: anziché essere al centro del
problema, si deve adattare al quello che viene offerto. Non mancano i fondi: quello che manca è una
coscienza retta, che veda nel rifugiato una persona con diritti e doveri e alla
quale si deve rispetto. Viene da pensare al comandamento: “Non fare quello che
a te non vuoi che venga fatto, ma fai e spera quello che tu vuoi che gli altri
facciano a te o per te”.
L’Italia
il prossimo anno è attesa da un importante turno di presidenza all’Unione
Europea. Può, deve essere una grande occasione per chiedere la rinegoziazione
dell’accordo Dublino III, perché non si può costringere un uomo o una donna a
chiedere asilo in un paese dove non vogliono vivere. Come accade nel caso
dell’Italia, dove sono sempre di meno i profughi che desiderano restare, perché
non vi trovano le condizioni per una accoglienza dignitosa, con un futuro di
lavoro, una casa, gli strumenti per rifarsi una vita. Proprio per questo non ha
senso che l’Italia continui a prendere le impronte digitali e a “schedare” i
profughi che bussano alla sua porta: è una pratica che serve soltanto ad
ingrossare la fila dei poveri nelle mense e la massa di disperati nelle città.
don
Mussie Zerai
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