lunedì 16 dicembre 2013

Profugo eritreo vittima dell’Accordo di Dublino e del pessimo sistema di accoglienza in Italia

Mineo: Profugo eritreo Morto, vittima dell’Accordo di Dublino e del pessimo sistema di accoglienza in Italia



Aveva 21 anni ed era sbarcato in Sicilia lo scorso 5 aprile. Si chiamava Mulue Ghirmay, veniva da Keren, in Eritrea. Scappava da un regime militare tra i più duri e sanguinari del mondo. Ha affrontato il Sahara, la Libia. Si è imbarcato rischiando la morte nel Mediterraneo. È sopravvissuto a tutto questo. Ma non all’Italia. Non ha trovato ad attenderlo la morte nel deserto o nel mare: l’ha trovata nelle ex case per i militari della base americana diventate oggi il Cara di Mineo, un lager più che un centro assistenza per i richiedenti asilo, isolati da tutto e da tutti, lontani dalla città. Perché, evidentemente, devono essere e restare “ invisibili”: nascosti alla vista e, dunque, all’attenzione e a qualsiasi intervento di aiuto concreto. Quasi neanche esistessero. Eppure lo chiamano villaggio della solidarietà.
Non sono ancora stati chiariti i dettagli del decesso. Il  giovane è stato rinvenuto impiccato con una tenda. Sulla tragedia la Procura di Caltagirone ha aperto un’inchiesta. Le uniche notizie certe sul suo conto per ora sono quelle fornite dalle sorelle, che vivono nel Nord Europa. Quanto alle motivazioni che hanno indotto il giovane a togliersi la vita, si sospetta che sia stato determinante il fatto di aver dovuto “registrare” le sue impronte digitali: che si sentisse, insomma, “schedato” e ormai nell’impossibilità di raggiungere i familiari che lo hanno preceduto nella fuga dall’Eritrea. E’ un sospetto che chiama pesantemente in causa l’Italia, la quale si è assunta le responsabilità del suo caso di “richiedente asilo politico”, ma poi lo ha costretto a restare a Mineo per 8 mesi, in condizioni di vita indegne e privo di una prospettive per il futuro. Praticamente abbandonato a se stesso, Mulue vedeva solo buio nella sua domani, perché per i profughi come lui il “sistema Italia”, dopo mesi, a volte più di un anno di isolamento, ti dà un pezzo di  carta chiamato permesso di soggiorno, ti accompagna alla stazione caricandoti su un treno, senza un euro in tasca, e poi ti dice: ‘Vai dove vuoi’. Così la “pratica” è chiusa ma, di fatto, sei stato destinato ad essere un barbone consegnato alla strada. Ecco, con ogni probabilità, che cosa tormentava questo ragazzo. A rubargli il futuro è stata l’Italia. Quel futuro che lui sperava di vivere con le sorelle nel Nord Europa. Avrebbe potuto scegliere tra la Svizzera e la Norvegia, i due paesi europei dove è emigrata la sua famiglia e invece ha chiuso tragicamente la sua vita a Mineo, dopo aver atteso per ben 8 mesi di essere chiamato dalla commissione territoriale incaricata di esaminare la sua richiesta di asilo, per di più col timore di ottenere, come unico risultato, quello di essere abbandonato alla stazione di Catania.
Ecco cosa ha ucciso Mulue: l’assoluta incertezza del futuro e i tempi di attesa così lunghi, trascorsi in un luogo affollato da più di 4 mila persone provenienti da 54 nazioni diverse, in  un clima quotidiano di tensione altissima e ogni giorno in lotta per sopravvivere, guardato a vista da militari come un criminale. Questo raccontava alle sue sorelle: la vita invivibile nel centro, le condizioni umilianti, l’attesa logorante per un risultato finale che si profilava deludente. E questo probabilmente lo ha sconfitto: dopo aver superato pericoli enormi, dal momento della fuga dalla dittatura fino alla traversata nel Mediterraneo, guidato da un grande sogno di libertà, diritti e dignità, si è ritrovato prigioniero di un sistema assurdo che ha spento, ucciso quel suo sogno. Senza quel sogno Mulue non se la sentiva di vivere, così ha scelto di ribellarsi con l’unica arma che gli era rimasta: la sua stessa vita. Di ribellarsi e porre sotto accusa chi voleva decidere al posto suo, chi lo voleva gettare in uno dei tanti palazzi fatiscenti dove vivono migliaia di profughi eritrei come lui, “condannati” dal sistema politico italiano e da accordi europei come il “Dublino III” a diventare invisibili, ricattabili, “non persone” senza diritti, forza lavoro da sfruttare. La scelta dolorosa di Mulue è una fuga da questa sistema indegno che costringe migliaia di profughi a vivere in condizione disumane nella “civile Italia”, non nel terzo mondo: in Italia, stato membro dell’Unione Europea e del G7 eppure incapace di dotarsi di una legge organica sul diritto di asilo, di un sistema nazionale capace di garantire un’accoglienza dignitosa, attraverso progetti di inclusione sociale, economica e culturale dei profughi, accolti sulla carta, ma poi abbandonati a se stessi.
So già che la magistratura chiuderà il caso di Mulue come un suicidio dalle motivazioni non chiare. Ma io resto convinto che il motivo vero sia fin troppo chiaro: questo ragazzo è vittima di un sistema di accoglienza incapace di rispettare la dignità della persona e di offrire un futuro che non sia quello di essere gettati per strada, come un rifiuto; e, insieme, è vittima degli accordi europei che gli ha impedito di andare a vivere dalle sue sorelle, dove poteva essere supportato e accompagnato da loro per ricominciare a vivere, dopo le traversie della fuga e dell’esilio.
La morte di questo ragazzo di 21 anni spero almeno che faccia riflettere i “potenti” che hanno il potere decisionale, dal governo fino a chi ha responsabilità di gestione dei centri come quello di Mineo: spero che comprendano finalmente che hanno a che fare con degli esseri umani, che si tratta di persone e non di numeri, che dentro ogni “fascicolo” c’è un uomo o una donna, venuti a cercare protezione, libertà, diritti e dignità e non certo per essere sfruttati o trasformati in mendicanti condannati a dipendere dalle mense di enti “benefattori”.  Bisogna cambiare, umanizzare questi centri di accoglienza. Se la capienza è di 1.200 è inconcepibile ammassarvi un numero addirittura tre volte superiore di ospiti. Già questo sovraffollamento rende di per sé la vita un inferno. I servizi predisposti per 1.200 non possono rispondere alle esigenze di 4 mila: è ovvio che ne nascano tensioni e disagi. L’unica cosa positiva fatta dalla legge Bossi-Fini è quella di aver introdotto le 7 commissioni territoriali per le richieste di asilo, ma pare che oggi ne siano operative soltanto 4, oltre alla vecchia commissione centrale di Roma. Secondo gli impegni, questi organismi avrebbero dovuto rispondere alle domande in tempi accettabili, senza costringere il richiedente alla tortura di tempi di attesa lunghi e logoranti sul piano psicologico, famigliare e sociale. Si registra, invece, una media di 14 mesi di attesa, dall’arrivo fino alla risposta finale. E questa attesa, già di per sé difficile, si fa insopportabile in strutture sovraffollate, come quella di Mineo, per persone che hanno già dovuto superare tanti pericoli per arrivare in Italia, dove speravano di trovare amicizia e solidarietà e si sono ritrovati invece quasi in un lager.
C’è da chiedersi come mai l’Italia non sia in grado  di rispettare i diritti e la dignità di queste persone. La risposta forse va ricercata nel fatto che sia i legislatori che molti “professionisti della solidarietà” finora non hanno avuto la mentalità e la volontà di progettare un sistema di accoglienza partendo dal bisogno dei rifugiati. Si è tenuto conto dei bisogni della politica e di quelli delle organizzazioni di assistenza. Il rifugiato è l’ultimo pensiero: anziché essere al centro del problema, si deve adattare al quello che viene offerto.  Non mancano i fondi: quello che manca è una coscienza retta, che veda nel rifugiato una persona con diritti e doveri e alla quale si deve rispetto. Viene da pensare al comandamento: “Non fare quello che a te non vuoi che venga fatto, ma fai e spera quello che tu vuoi che gli altri facciano a te o per te”.
L’Italia il prossimo anno è attesa da un importante turno di presidenza all’Unione Europea. Può, deve essere una grande occasione per chiedere la rinegoziazione dell’accordo Dublino III, perché non si può costringere un uomo o una donna a chiedere asilo in un paese dove non vogliono vivere. Come accade nel caso dell’Italia, dove sono sempre di meno i profughi che desiderano restare, perché non vi trovano le condizioni per una accoglienza dignitosa, con un futuro di lavoro, una casa, gli strumenti per rifarsi una vita. Proprio per questo non ha senso che l’Italia continui a prendere le impronte digitali e a “schedare” i profughi che bussano alla sua porta: è una pratica che serve soltanto ad ingrossare la fila dei poveri nelle mense e la massa di disperati nelle città.

don Mussie Zerai

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