di Emilio Drudi
Ha un volto il
dossier sul traffico internazionale di esseri umani presentato giorni fa a
Roma, alla Camera. E’ quello di Berham, un diciottenne eritreo, di corporatura
smilza e dallo sguardo carico di sofferenza. Una foto lo ritrae a Lampedusa sul
sentiero che scende verso la Spiaggia dei Conigli, proprio di fronte a quel
tratto di mare dove all’alba del 3 ottobre, ad appena 800 metri dalla riva, è
affondato il barcone con a bordo, stipati all’inverosimile, quasi 500 profughi.
Lui è uno dei pochi superstiti della sciagura che ha commosso il mondo intero,
accendendo per qualche giorno i riflettori sulla tragedia dei rifugiati che a
migliaia, ogni anno, sono costretti a lasciare il proprio paese per fuggire da
guerre e persecuzioni. Cessata l’emozione e spenti i “riflettori”, però, già
oggi, a poco più di due mesi di distanza, il ricordo si è affievolito. Anzi,
rischia di essere seppellito del tutto. Come la vita di mille e mille altri
Berham, ingoiati dal Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere l’Europa,
morti di sete e di stenti nella traversata del deserto verso le sponde del Nord
Africa o il confine di Israele nel Sinai, uccisi dalle fucilate delle guardie
di cento frontiere, spariti nel girone infernale dei trafficanti di uomini.
Proprio per questo è
stato elaborato quel dossier, illustrato prima a Bruxelles, all’Unione Europea,
e poi a Roma, tappa di un giro tra varie capitali: Londra, Washington, Tel Aviv,
il Cairo, Addis Abeba. Per non dimenticare e per scuotere le coscienze. Per
spingere a farsi carico di questa tragedia l’Onu, la Ue, le cancellerie dei più
importanti Stati del Nord del mondo. I “potenti della terra”, come li ha
chiamati proprio a Lampedusa papa Francesco. Che non a caso per il primo
viaggio pastorale del suo pontificato rivoluzionario ha voluto scegliere la
piccola isola nel cuore del Mediterraneo, diventata faro di speranza per un
numero infinito di fuggiaschi, gli ultimi tra gli ultimi. Non è stato facile
mettere insieme quel documento: ci sono voluti anni di ricerche condotte da due
professori dell’università di Tilburg, Miriam van Reisen e Conny Rijken,
insieme a Meron Estefanos, una giornalista eritrea esule a Stoccolma, e con la
collaborazione di organizzazioni umanitarie e operatori che vivono ogni giorno
il dramma dei rifugiati, come don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia
Habeshia. Il risultato è esplosivo.
La storia di Berham
è emblematica di tutto quanto emerge dall’inchiesta. Il suo calvario è durato
tre anni. Ne aveva solo 15 quando ha lasciato l’Eritrea per non essere
condannato a trascorrere tutta la vita sotto le armi, al servizio del dittatore
Isaias Afewerki. Dopo dodici mesi si è ritrovato schiavo in una delle “case di
tortura” dei predoni del Sinai che danno la caccia ai profughi come lui per
chiederne il riscatto. Gli hanno gettato plastica fusa sulla pelle nuda, lo
hanno tormentato con scariche elettriche e ferri roventi, picchiato
sistematicamente. Un trattamento al quale spesso veniva sottoposto mentre era
costretto a telefonare ai familiari, perché ne ascoltassero le urla di dolore e
si piegassero a pagare 38 mila dollari per liberarlo da quell’inferno. Era in
un gruppo di dodici: ne sono sopravvissuti soltanto sei. E, una volta
rilasciato, la sua odissea non è finita. Arrivato al Cairo con mezzi di
fortuna, è stato arrestato e spedito a sue spese ad Addis Abeba perché, per non
essere costretto a rientrare in Eritrea, si è finto etiope. Dall’Etiopia ha poi
raggiunto la Libia, dove è finito in mano ai miliziani islamisti, in uno dei
famigerati campi di detenzione spacciati per centri di accoglienza, sino a che
ha trovato il modo di imbarcarsi clandestinamente sul barcone poi naufragato a
Lampedusa. “Con me nel lager dei predoni beduini – ricorda – c’era anche una giovane
con un bambino di sei mesi. Sono stati entrambi duramente seviziati più volte.
Quando il piccolo aveva due anni, la madre è morta sotto tortura e lui è stato
preso da un altro ostaggio che, liberato, lo ha portato con sé a Tel-Aviv. Ora
credo che sia in un orfanotrofio in Israele”.
Un altro fuggito da
Asmara per non diventare un soldato bambino, costretto poi a restare
nell’esercito una vita intera, fino a 55 anni, è Temesgen, un quindicenne tutto
pelle e ossa e dagli enormi occhi neri. Quando è stato salvato, sembrava appena
uscito da un lager nazista. Per oltre tredici mesi è stato tenuto in schiavitù
nel deserto dalla banda che l’ha catturato mentre stava cercando di trovare
rifugio in Israele. “I suoi aguzzini – ha raccontato al convegno di Roma
Alganesh Fisseha, la presidente della fondazione Ghandi – l’hanno tenuto
senza mangiare per quasi 60 giorni. Per ‘punirlo’ e per spingere i parenti a
pagare il riscatto richiesto per lasciarlo andare. Quasi due mesi con a
malapena un tozzo di pane vecchio e un sorso d’acqua ogni tanto per
sopravvivere”.
Berham e Temesgen
ora sono liberi. Tantissimi giovani, però, non hanno avuto la loro forza e la stessa
fortuna. Secondo quanto hanno riferito Miriam van Reisen e Meron Estefanos, si
calcola che tra il 2009 e il 2013 siano finiti nel girone del Sinai da 25 a 30
mila profughi. Di migliaia si è persa ogni traccia. Di alcuni sono stati
ritrovati i cadaveri abbandonati nel deserto, corpi mutilati dalle torture:
qualcuno, martoriato da profonde incisioni, era anche privo di parte degli
organi. Soprattutto i reni. Altri disperati ce l’hanno fatta ad essere
rilasciati, ma quasi tutti restano segnati per sempre da questo inferno, nel
fisico e nello spirito: più di qualcuno non è riuscito a vincere o anche solo a
sopportare il ricordo, l’incubo, dei mesi, spesso degli anni, passati in
catene. Ed ha deciso di farla finita.
“I suicidi sono
frequenti tra questi ragazzi: molti non riescono più a riconciliarsi con la
vita”, conferma don Zerai. Non è facile, del resto, tornare a credere nella
vita dopo quel lungo, interminabile tunnel di orrore. Daniel Eyosab Yonathan,
un giovane sui vent’anni, ha subito sevizie così pesanti da aver perso l’uso di
entrambe le mani. “Le violenze sessuali sono sistematiche, sadiche,
accompagnate da torture indicibili e coinvolgono tutti gli ostaggi, uomini,
donne, bambini. Spesso provocano la morte”, ha raccontato Meron Estefanos,
riferendo testimonianze raccolte tra i superstiti. Molte ragazze restano
incinte, ma continuano ad essere umiliate, picchiate, stuprate. “Una giovane
donna ha partorito in catene – ha detto Miriam van Reisen – L’hanno torturata
anche mentre dava alla luce il suo bambino, senza acqua né alcun tipo di
strumento per tagliare il cordone ombelicale”.
Non c’è pietà: i
trafficanti sono disposti a tutto pur di piegare la volontà dei loro schiavi.
Quasi nessuno resiste. E la “taglia” richiesta è sempre più alta. Dai 6-7 mila
dollari a testa del 2009 si è saliti rapidamente ai 40-50 mila di oggi: una
esistenza intera di lavoro per una realtà come il corno d’Africa, dove la
maggioranza della popolazione ha un reddito di appena due dollari al giorno.
Così il giro d’affari è enorme. “Si calcola che in cinque anni il racket abbia
incassato qualcosa come 600 milioni di dollari”, si legge nel dossier. Una
cifra da capogiro, che alimenta poi il contrabbando di armi per le bande che si
contendono la supremazia nella regione, che finanzia il terrorismo, ma che
viene anche riciclata in attività economiche “pulite”, come è accaduto con i
proventi della pirateria somala. L’organizzazione criminale che tira le fila di
questa tragedia, infatti, ha assunto dimensioni internazionali: non a caso i
riscatti vengono ormai pagati quasi tutti in Europa, attraverso agenzie di
money transfer. E’ una vera e propria mafia, che non tollera resistenze e
ribellioni.
Neanche l’eventuale
liberazione, come dimostra la storia di Berham, pone fine al dramma. La strada
verso Israele si è chiusa da quando è stata innalzata una barriera
impenetrabile sul confine del Sinai: una selva di filo spinato e sensori
elettronici lunga centinaia di chilometri, per impedire qualsiasi
infiltrazione. L’Egitto riserva ai profughi arresti, carcere, processi sommari
e rimpatri forzati: chi ha i mezzi per pagarsi il biglietto aereo viene
rispedito nel suo paese; chi non li ha, resta in prigione, a tempo
indeterminato, finché non si trova qualcuno disposto a coprire le spese del
viaggio. Ma per molti, in particolare per gli eritrei, ritornare a casa
significa finire in carcere o peggio, come disertori. Allora, chi può punta
sulla Libia: direttamente dall’Egitto oppure ripartendo dall’Etiopia e
attraversando il Sudan e il Sahara. In Libia, tuttavia, la sorte di questi
disperati non è migliore: li aspettano le fucilate dei militari che pattugliano
il confine e, una volta varcata fortunosamente la frontiera, lager dove accade
di tutto: violenze, maltrattamenti quotidiani, torture, lavori forzati, stupri,
ricatti. E dove fame e sete sono la norma, perché spesso viene negata persino
l’acqua da bere. Con la complicità indiretta dell’Italia la quale, in base a
tre successivi accordi bilaterali, ha affidato proprio alla Libia il ruolo di
“gendarme” contro l’immigrazione clandestina attraverso il Mediterraneo, benché
Tripoli non abbia mai firmato la convenzione di Ginevra sui diritti dei
rifugiati e neghi senza remore gli stessi diritti umani più elementari.
Chiunque entri nel paese in modo irregolare, in sostanza, è considerato un
criminale, non un profugo. Se viene catturato precipita in un vortice dal quale
può uscire solo pagando un riscatto ai carcerieri: sono sempre più frequenti le
segnalazioni di miliziani e poliziotti corrotti che si prestano a questo mercato
crudele, pretendendo forti somme dai prigionieri e, non di rado, indirizzandoli
poi al giro di trafficanti che, sempre a caro prezzo, si occupano del trasbordo
verso l’Italia su vecchie carrette non più in grado di reggere il mare. Navi a
perdere come quella affondata a Lampedusa.
Si tratta di
un’emergenza internazionale. Ignorata e sottaciuta. Ecco perché il dossier,
questa denuncia forte portata in tutto il mondo. Perché i “potenti della terra”
se ne facciano carico, uscendo finalmente dalla loro indifferenza. “La
soluzione vera – ha ammonito don Zerai, a nome anche di Miriam van Reisen,
Meron Estefanos e Alganesh Fisseha, gli altri tre relatori dell’incontro di
Roma – si avrà soltanto rimuovendo le cause che, nei paesi d’origine, spingono
migliaia e migliaia di giovani a fuggire. Ma intanto ci sono numerosi
interventi che possono essere attuati nell’immediato o a breve e medio termine.
Il primo è l’istituzione di ‘corridoi umanitari’ per l’emigrazione dei
profughi, in modo da evitare che l’unica via possibile siano i viaggi alla
ventura nel deserto e le traversate clandestine del Mediterraneo. Si tratta, in
sostanza, di istituire nei paesi di transito o di prima accoglienza un sistema
che permetta ai fuggiaschi di presentare la richiesta di protezione
internazionale, con l’ausilio del Commissariato Onu, della Ue, delle ambasciate
e dei consolati dei vari stati, europei e africani. Inoltre, provvedimenti che
consentano ai profughi di inserirsi nelle stesse nazioni dove sono scappati, in
Africa, attraverso programmi di lavoro, studio, assistenza. La maggior parte di
loro, infatti, non pensa all’Europa. Preferisce restare non lontano dal proprio
paese, con la speranza di rientrare prima possibile. A spingere molti a tentare
di varcare il Mediterraneo, anche a costo di affidarsi ai trafficanti di
uomini, è la mancanza di prospettive: la visione di un futuro fatto solo di
anni di attesa senza speranza, nel chiuso dei campi profughi. Con condizioni di
vita dignitose sul posto e un filtro adeguato, invece, il flusso verso l’Europa
si ridurrebbe ai casi dei perseguitati più a rischio, ai ricongiungimenti
familiari, a chi ha bisogno di una protezione particolare, ai malati gravi…
Alle situazioni, insomma, che in Africa non possono trovare soluzione”.
Tra i provvedimenti
attuabili da subito sono state prospettate iniziative di sostegno, da parte
dell’Europa, in favore dei paesi di prima accoglienza dove i profughi sono più
numerosi (Etiopia, Sudan, Kenya, Uganda, Libano, Giordania) attraverso progetti
di assistenza e istruzione, di piccolo prestito, cooperazione, promozione
lavoro. Un esempio positivo viene dall’Etiopia, che si è fatta carico di mille
borse di studio per i giovani eritrei presenti nei campi. Italia ed Europa
potrebbero favorire e ampliare questo programma e promuoverne di analoghi in
altri paesi. Per attuarli servono molte meno risorse di quelle impegnate per i
pattugliamenti con navi da guerra del Canale di Sicilia, decisi dopo la
tragedia di Lampedusa, con le operazioni Frontex e Mare Nostrum. E i risultati
sarebbero certamente migliori.
Più in generale, si
tratta di impostare una nuova politica di accoglienza, in Italia e in Europa,
più aperta e in grado di inserire nel tessuto sociale richiedenti asilo,
profughi e migranti. Il che implica, automaticamente, la revoca di trattati
bilaterali come quello Italia-Libia, che finiscono per aggravare, anziché
risolvere, la tratta di esseri umani. Accordi internazionali tra più stati,
semmai, sono necessari per promuovere indagini di polizia congiunte, con la
collaborazione dell’Interpol, contro le mafie che gestiscono la tratta. “Si
potrebbe partire – ha detto Meron Estefanos – dalla ‘via dei soldi’ pagati per
il riscatto: seguire i canali attraverso cui il denaro si muove può rivelarsi
la chiave per individuare i vertici dell’organizzazione. Senza fermarsi agli
scafisti e alla manovalanza”.
Un primo risultato
il convegno di Roma lo ha ottenuto. Emilio Ciarlo, consigliere politico del
viceministro degli esteri, si è impegnato a proporre al Parlamento una
commissione d’inchiesta sul traffico internazionale di esseri umani. Può essere
un passo importante. Portare il problema direttamente nelle aule della Camera e
del Senato significa porlo al centro dell’attenzione del Paese e della stessa
Unione Europea. E magari incrinare finalmente il muro che la “fortezza Europa”
ha innalzato contro i profughi spingendo la sua “barriera di confine” sempre
più a sud, fino alle sponde meridionali del Mediterraneo e addirittura alla
frontiera sahariana della Libia.
Nessun commento:
Posta un commento