di Emilio Drudi
C’era da
aspettarselo. Le immagini sconvolgenti trasmesse dal Tg2 sul trattamento
inumano dei profughi, nel centro di accoglienza di Lampedusa, hanno scatenato
nel governo e tra i politici una valanga di lacrime e di indignazione
“d’ordinanza”. Per la verità, non subito. In un paese normale sarebbe stato
lecito aspettarsi prese di posizione e interventi concreti immediati, un
minuto, un’ora dopo la trasmissione, la sera stessa in cui il servizio è stato
mandato in onda. Invece la valanga ha cominciato a mettersi in moto solo il
giorno dopo, quando lo scandalo aveva già varcato i confini e si stava
attivando l’Unione Europea. Poi è stato un susseguirsi di dichiarazioni di
fuoco. A cominciare dal premier Enrico Letta il quale, promettendo l’ennesima
“indagine approfondita”, ha tuonato: “Sanzioneremo i responsabili”.
La fila dietro di
lui è lunghissima. Emma Bonino, ministro degli esteri, ha definito
“orripilante” il video, chiedendo di “punire con severità chi è responsabile di
non rispettare i valori del nostro Paese”. Beatrice Lorenzin, al vertice del
dicastero della salute, riferendosi forse ai trattamenti di disinfezione e
profilassi anti scabbia, ha sottolineato l’ovvietà assoluta: “Le procedure non
prevedono persone nude in un capannone irrorate con un disinfettante”. Come se
qualcuno possa mai aver avuto il minimo dubbio che quel trattamento è quanto
meno “fuori procedura”. Annamaria Cancellieri, ministro della giustizia, ha
ammesso che quel filmato choc “fa stare male” ma, con un miracolo di
equilibrismo, si è mostrata molto più cauta di quando ha fatto la famosa
telefonata alla sua amica Gabriella Fragni, compagna del costruttore Salvatore
Ligresti, appena arrestato insieme alle figlie: “Bisogna vedere tutta la
procedura cosa comporta. Prima di giudicare va fatta un’inchiesta, però quelle
immagini fanno impressione, anche se può darsi che distorcono la realtà”. Il
viceministro dell’interno Filippo Bubbico e il neo-presidente del Pd Gianni
Cuperlo hanno allargato il tiro, chiedendo di chiudere tutti i Centri di
identificazione ed espulsione, che in realtà sono autentici lager, ma sono cosa
diversa e svolgono un’altra funzione rispetto al centro di accoglienza di Lampedusa.
Ancora. Cecile
Kyenge, dal suo ufficio di ministro dell’integrazione, ha sollecitato un’azione
immediata del Governo: “Il Governo – ha dichiarato – deve intervenire per
ripristinare un’immagine diversa dell’Italia, un’immagine dove la democrazia
sia rispettata e dove i diritti di ogni persona, indipendentemente dalle
origini, siano garantiti”. Già, il Governo… E’ giustissimo, ma forse ha
dimenticato che anche lei è “il Governo”. Altrettanto sconcertante il ministro
dell’interno Angelino Alfano il quale – secondo la collega Lorenzin – avrebbe
accolto la notizia con un grande moto di indignazione: “Ero in Consiglio dei
ministri e ho visto le immagini con Alfano – ha raccontato la titolare della
Sanità – Lui è sobbalzato sulla sedia e si è attivato per capire chi fosse il
responsabile”. Questa “attivazione” seguita al sobbalzo sulla sedia è stata la
richiesta di una relazione sull'accaduto da far arrivare entro 24 ore sulla sua
scrivania, con l’aggiunta di un perentorio: “Chi ha sbagliato pagherà”. Poi, 48
ore dopo, è stato revocato l’incarico alla cooperativa che gestiva il centro,
ma va da sé che questo “licenziamento” è il minimo che si potesse fare: il
problema è molto più vasto.
“Chi ha sbagliato
pagherà”. Il tono generale delle reazioni è stato questo: individuare i
responsabili. Ma al di là delle responsabilità penali individuali, che dovranno
essere accertate dall'inchiesta aperta dalla magistratura di Agrigento, se ci
sono colpe quanto meno morali e oggettive, in questa tristissima, umiliante
vicenda, vanno ricercate in massima parte nella politica e nel Governo. Anzi,
nei governi degli ultimi anni. Perché è noto a tutti ed è stato denunciato
infinite volte da una miriade di operatori e associazioni umanitarie, quello
che accade in Italia nei Centri di accoglienza per i richiedenti asilo (Cara),
nei Centri di prima assistenza (Cpa) e nei Centri di identificazione ed
espulsione (Cie). Ma il Governo e la politica non hanno mai fatto nulla per
eliminare questo scandalo. Né oggi, né prima. Silenzio assoluto. Anzi, ai tempi
del ministro leghista Roberto Maroni agli interni, si è anche adottata una
tecnica di “silenziamento” generale, vietando ai giornalisti l’accesso a questi
centri. In particolare ai Cie, dove la situazione è più disastrosa: carceri in
cui si viene rinchiusi per mesi senza aver commesso alcun reato e senza
processo.
Alfano ha chiesto
l’ennesima relazione. Ma – a parte che, essendo più volte andato a Lampedusa,
dovrebbe conoscere perfettamente, di persona, la condizione sconvolgente del
centro di accoglienza dell’isola – di relazioni di questo genere la sua
scrivania è piena, addirittura ingombra: gliele hanno mandate a decine i suoi
stessi prefetti e ispettori, oltre che organizzazioni come Amnesty, Medici per
i diritti umani, Habeshia, da sempre in prima fila per l’assistenza e la difesa
dei rifugiati e dei migranti. Evidentemente, come è avvenuta “a sua insaputa”
la vergognosa, illegittima espulsione lampo dall’Italia di Alba Shalabayeva,
consegnata insieme alla figlioletta di appena 6 anni al dittatore kazako
Nurisultan Nazarbaiyev, anche questi rapporti sono arrivati allo stesso modo:
“a sua insaputa”. Eppure si tratta di rapporti di fuoco, che evidenziano una
situazione indegna.
L’ultimo caso
precede di appena due giorni lo scandalo documentato dal video di Lampedusa.
Riguarda il Cara di Mineo, nel Catanese, dove un ragazzo eritreo, Mulue
Ghirmay, si è impiccato a 21 anni, stroncato da otto mesi consumati nella vana attesa
di essere ascoltato dalla commissione territoriale, alla quale aveva inoltrato
la richiesta di asilo. Otto mesi d’inferno e con davanti nessuna prospettiva di
futuro. Otto mesi trascorsi come in prigione, in una struttura invivibile,
attrezzata per un massimo di 1.200 posti ma dove, in un clima di prepotenze e
abusi, vivono attualmente oltre 4 mila disperati, provenienti da ben 54 paesi
diversi: “non persone” senza diritti, condannate per lo più a diventare
sbandati “invisibili”, senza lavoro e senza casa, anche quando la loro domanda
di protezione internazionale viene accolta. “Mulue Ghirmay – ha scritto don
Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia – non ha trovato la morte nella
difficile marcia attraverso il deserto in mezzo a mille pericoli, non l’ha
trovata nel girone infernale della Libia o nella drammatica traversata del
Mediterraneo. L’ha trovata in quell’Italia alla quale aveva chiesto aiuto e
amicizia”.
La rabbia dei suoi
compagni di sventura finiti a Mineo è esplosa in un’altra delle tante sommosse
che hanno costellato in questi anni la vita del centro di accoglienza. E Mulue
non è la sola vittima registrata in questa struttura del Catanese. Secondo le
ripetute denunce di Habeshia, ci sarebbero stati almeno altri quattro morti per
i disagi e le scarse cure mediche. L’ultimo, nel gennaio scorso, è una ragazza
eritrea di 28 anni, incinta di 4 mesi, sofferente di aneurisma all’aorta eppure
fatta rimanere nel caos del Cara. Prima di lei, per varie patologie, un giovane
pakistano, un maliano e un ghaniano. Da sempre, del resto, la Ong Medici per i
diritti umani denuncia che, in tutti i centri che ospitano profughi e migranti,
l’assistenza sanitaria è del tutto inadeguata, spesso solo teorica. Ma questi
appelli sono rimasti inascoltati. Così come le richieste di dotare le strutture
anche di un ambulatorio di psicologi, per occuparsi almeno dei casi più
vulnerabili, dei “malati dentro”.
L’elenco delle
sofferenze è lunghissimo, scandito anche da proteste e rivolte. Pochi mesi fa,
ad esempio, al Cara di Caltanisetta i profughi che avevano ottenuto dalla
commissione territoriale lo status di rifugiato o un’altra forma di protezione,
anziché essere accompagnati verso un percorso di inserimento sociale, sono
stati allontanati dalla struttura senza neppure ricevere tutti i documenti,
salvo l’impegno di completare l’iter entro 40 giorni. Ovvero, gettati per
strada privi di tutto, persino delle “carte burocratiche” complete: nessuno si
è preoccupato di come avrebbero potuto mangiare, trovare un alloggio qualsiasi,
sopravvivere. Uomini trasformati in merce a perdere, esposti ad ogni pericolo e
ad ogni forma di sfruttamento e ricatto. Il vuoto. Lo stesso vuoto che, uscendo
dal campo di Crotone Sant’Anna, ha trovato nel marzo del 2012 un profugo
eritreo di 32 anni. Un vuoto enorme, fatto di emarginazione, nessuna
possibilità di lavoro, niente casa. Un buco incolmabile che lo ha ucciso: anche
lui è stato trovato impiccato, nel rifugio di fortuna che si era ricavato in un
rudere, ad Isola Capo Rizzuto.
Non a caso proprio
in queste ore è scoppiata una sommossa tra gli eritrei trasferiti da Lampedusa
al centro di prima assistenza di Cagliari, ottanta circa tra uomini e donne, di
cui 5 in stato di gravidanza: chiedono di non essere costretti ad essere
registrati e a rilasciare le proprie impronte digitali, per non dover poi
restare in Italia, abbandonati da quello Stato che in teoria li ha accolti come
profughi ma che in realtà si limita a schedarli, lasciandoli poi al proprio
destino. “Una decina di loro – racconta don Zerai – ha anche tentato la fuga,
gettandosi in mare: due hanno rischiato di annegare e sono stati salvati, degli
altri otto si è persa ogni traccia. Si pensa, si spera, che abbiano raggiunto a
nuoto qualche anfratto della costa dove approdare”. Tutti quelli rimasti al Cpa
hanno iniziato lo sciopero della fame. Vogliono che venga revocato o non
applicato il trattato di Dublino che, se richiedono asilo in Italia, impedisce
loro di cercare rifugio in altri stati europei, dove spesso vivono familiari ed
amici. Ricordano che Mulue Ghirmay si è suicidato a Mineo proprio per questo:
voleva raggiungere una delle sorelle, in Svizzera o in Norvegia, ma ha trovato
di fronte a sé barriere invalicabili. Contestano, inoltre, la sistemazione in
una struttura allestita come una caserma o un carcere. “Perché – urla un
portavoce del gruppo – siamo finiti in questa specie di prigione? Che cosa
abbiamo fatto? Dopo tutto quello che abbiamo sofferto nel deserto, in Libia e
in mare, ora ci rinchiudete in una base militare. Qual è la nostra colpa, forse
quella di aver cercato la libertà?...”.
E tutto questo
calvario nei “centri” italiani è ancora il meno. Nei 23 campi di detenzione
libici, che solo la visione assurda del governo italiano può far finta di
ritenere centri di accoglienza, le cose vanno anche peggio. Molto peggio.
Profughi e migranti sono in balia del personale di guardia, costituito quasi
sempre da miliziani: fame, sete, violenze, maltrattamenti, lavoro obbligatorio,
stupri, torture, ricatti sono la norma quotidiana. E’ l’Italia che indirettamente
consegna di fatto a questi lager migliaia di disperati, grazie al trattato
bilaterale tra i due governi, che affida a Tripoli il compito di “gendarme del
Mediterraneo” contro l’emigrazione. I parlamentari e i ministri che ora
profondono lacrime e indignazione per la vicenda di Lampedusa, non possono non
saperlo. Ma non ne parlano. Incluso il premier Enrico Letta, che il 4 luglio
scorso ha siglato il terzo accordo con la Libia, dopo quello del 2009 voluto da
Berlusconi con Gheddafi e quello del 2012, firmato da Monti e da Annamaria
Cancellieri, allora ministro degli interni, con la coalizione rivoluzionaria.
E’ un silenzio assordante, che tradisce mille ipocrisie.
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