venerdì 27 dicembre 2013

Un Natale da schiavi per 240 profughi eritrei


di Emilio Drudi

Un Natale da schiavi. Qualche mese fa si sono salvati a stento nel mare in tempesta, a bordo di un barcone in balia delle onde. Respinti sulla costa libica dalla quale erano partiti verso Lampedusa e subito rinchiusi in un centro di detenzione, dalla sera del 25 dicembre sono in balia di un gruppo di miliziani. C’è il timore che possano essere venduti come merce: braccia per il lavoro forzato o schiavi per le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani.
E’ la sorte di 240 profughi eritrei. L’ultima tappa di un’odissea che, per quasi tutti, si trascina da un anno e passa. L’ha raccontata uno di loro, chiedendo disperatamente aiuto a don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia Habeshia. Sono arrivati in Libia dal Sudan o dall’Etiopia per vie e in tempi diversi, attraverso il Sahara. Varcato il confine libico meridionale, in pieno deserto, molti sono passati dall’inferno delle carceri e dei lager di Tripoli, finché nell’autunno scorso hanno potuto comprarsi un imbarco di fortuna verso l’Italia. La traversata non è riuscita. Investita da una violenta burrasca, la carretta sulla quale erano stati caricati ha dovuto invertire la rotta. Alcuni di loro, almeno tre, caduti in acqua, sono scomparsi in pochi istanti. Impossibile aiutarli. Poi, quando in qualche modo sono giunti a terra, hanno trovato ad attenderli la polizia. Neanche il tempo di fiatare e sono stati trasferiti nel centro di detenzione di Ajdabiya, una struttura per rifugiati e migranti situata poco lontano dal litorale, nella zona nord est del paese, in Cirenaica, aperta nel 2009. Una delle più tristemente famose, nominalmente gestita dal ministero degli interni ma dove fame e sete, maltrattamenti e pestaggi, violenze e torture sono la norma. Sono rimasti lì sino alla mattina di Natale.
Si era fatto giorno da poco quando una squadra di militari armati li ha prelevati, costringendoli a salire su un piccolo convoglio di camion-container, gli autocarri speciali, con il piano di carico completamente chiuso, che vengono usati di solito per i trasferimenti dei prigionieri, nascondendoli alla vista di tutti. Colpi di spranga e con i calci del fucile per chi tentava di protestare. E, per tutti, la minaccia di deportarli in Eritrea, il paese dal quale sono fuggiti e dove, se rientrano, li aspettano processi, galera e anche peggio, come migranti clandestini o come disertori. Stipati uno sull’altro, hanno viaggiato per ore lungo la costa, superando numerosi posti di blocco, fino alla periferia di Misurata, 650 chilometri più a ovest. Prima di entrare in città, l’ennesimo posto di blocco. I miliziani armati che lo presidiavano forse li stavano aspettando: fermata l’autocolonna, li hanno presi in consegna.
“A quanto mi hanno riferito – racconta don Zerai – si tratta dei miliziani che controllano la regione di Misurata. Tutto lascia credere che sia l’ennesimo capitolo del traffico di esseri umani. La base principale delle organizzazioni che gestiscono la traversata del Mediterraneo per i profughi, su navi “a perdere” stracariche, è a Tripoli. E’ sulla costa tripolina, a circa 200 chilometri di distanza da Misurata verso occidente, che gli scafisti ‘catturano’ i fuggiaschi arrivati in Libia, per mandarli allo sbaraglio, spesso alla morte, nel Canale di Sicilia. Prima, però, ci vogliono guadagnare anche i miliziani che dai giorni della rivoluzione contro Gheddafi non hanno mai deposto le armi, esercitano di fatto il potere reale in gran parte del territorio e probabilmente hanno fatto di questi ricatti una fonte lucrosa di autofinanziamento. Da ogni prigioniero, soltanto per rilasciarlo e consentirgli di proseguire fino a Tripoli, pretendono mille dollari. Altrimenti si finisce in uno dei loro lager, come schiavi. Ed è appena l’inizio. Per l’imbarco gli scafisti, spesso in combutta con gli stessi miliziani o con poliziotti corrotti, chiedono almeno 1.500 dollari a testa. Talvolta anche di più. Oltre 1.500 dollari per prendere il largo su battelli che a malapena galleggiano. Come dimostrano le migliaia di vittime inghiottite dal Mediterraneo negli ultimi anni. E sempre più spesso non basta neppure pagare: anziché essere imbarcati, i profughi vengono venduti agli schiavisti nel sud della Libia, al confine con il Niger o il Chad, dove sono tenuti in ostaggio fino a quando i familiari non riescono a versare il riscatto. Altre migliaia di dollari. Il ‘mercato’ organizzato dai predoni nel Sinai ha fatto scuola: ora lo stesso sistema viene adottato anche da trafficanti libici. Ormai è un circolo vizioso: lo stiamo denunciando da anni. Il 2013 che sta per chiudersi è stato terribile per i migranti e il nuovo anno non promette bene. Anzi, va sempre peggio perché i ‘potenti della terra’ non stanno facendo neanche il minimo per prevenire questo orrore e per salvare queste persone da sofferenze indicibili”.
Il caso di Misurata è emblematico: quei 240 disperati non sanno nelle mani di chi sono finiti, chi e perché ne ha deciso il prelievo da Ajdabiya, se sono stati trasferiti da militari fedeli al governo o da miliziani fuori controllo, magari collegati a gruppi mafiosi. Di certo, ora sono molto meno al sicuro di quanto fossero nella situazione, pure terribile, del campo di Ajdabiya. Lì, almeno, le numerose famiglie del gruppo non erano separate: coniugi, genitori e figli vivevano insieme. Secondo le ultime notizie arrivate dalla Libia, invece, dopo Misurata uomini e donne, mogli e mariti, sono stati costretti a dividersi: I maschi sono ora rinchiusi nel lager di Khoms, attivo dal 2007, dove hanno trovato altri 140 profughi in condizioni disperate, segregati da due mesi in uno stanzone buio e senz’aria, tormentati ogni giorno da maltrattamenti e umiliazioni, bastonati a sangue al minimo cenno di protesta. Nel gruppo, 185 in tutto, sono stati inclusi anche ragazzini di 15-16 anni, strappati con la forza alle madri che cercavano di nasconderli e trattenerli. Le 55 donne, insieme agli undici bambini più piccoli, fino a 11 anni di età, incluso un bimbo nato proprio ad Ajdabiya il giorno prima del trasferimento forzato, si trovano nel centro di detenzione di Garabulli, una vera e propria prigione, insieme ad altre tredici giovani, alcune con i figli piccoli, catturate in una delle tante retate condotte dai miliziani in tutto il paese. Sono terrorizzate: isolate dai mariti o comunque dagli uomini adulti della famiglia, i miliziani possono abusare di loro in qualsiasi momento, senza che nessuno possa difenderle. Sanno che è accaduto più volte. Che accade, anzi, quasi sistematicamente nei centri di detenzione femminili.   
“Per i profughi va peggio di anno in anno…”, denuncia don Zerai. E non solo in Libia. Lo conferma l’allarme che, sempre il giorno di Natale, è arrivato dal Sud Sudan, sconvolto dalle stragi della guerra civile. Circa 500 eritrei – oltre 420 uomini, una cinquantina di donne tra cui 7 in stato di gravidanza, e 25 bambini – hanno trovato riparo in un campo improvvisato dal Commissariato Onu per i rifugiati a Bor, il capoluogo dello stato petrolifero di Jongley, conquistato dai ribelli del vicepresidente Riek Machar e distante 200 chilometri da Juba, la capitale, rimasta in mano al presidente Salva Kiir. Si tratta di un campo enorme, vicino al Nilo: ospita oltre 14 mila sfollati ma, essendo un complesso d’emergenza, manca anche di strutture essenziali: tende e alloggi sufficienti per tutti, servizi igienici e medici, una protezione adeguata. Peggio, scarseggiano persino il cibo e l’acqua mentre, favoriti dal sovraffollamento, sono esplosi grossi problemi sanitari: i malati aumentano e c’è il rischio di contagio.

“Tutti gli Stati si sono preoccupati di evacuare i propri cittadini presenti nel Sud Sudan – protesta don Zerai – Gli unici ad essere abbandonati a se stessi sono gli eritrei. Le loro case e i loro negozi sono stati saccheggiati e distrutti. Costretti a scappare, adesso si trovano presi in mezzo a una guerra feroce per il controllo del petrolio, che rischia di sfociare in massacri etnici ancora più sanguinosi di quelli registrati finora. Eppure non una parola si è sentita da parte del regime di Asmara. Per trovare scampo questi 500 sfollati chiedono di essere trasferiti in Uganda, uno dei paesi più vicini al centro allestito dall’Onu a Bor. La speranza è che il Commissariato per i rifugiati riesca ad evacuarli organizzando un corridoio umanitario, d’intesa con la comunità internazionale. Quanto all’ennesima emergenza esplosa in Libia, con i 240 profughi in balia dei miliziani di Misurata, prima ancora dell’Onu e di altre organizzazioni internazionali, dovrebbe muoversi il Governo italiano. L’Italia ha un accordo con Tripoli in materia di emigrazione. Proprio in base a questo trattato, allora, chieda di far luce sulla deportazione dal campo di Ajdabiya. Chieda che i prigionieri siano sistemati in un luogo sicuro, accessibile alle istituzioni umanitarie. Chieda che vengano inseriti in un sistema di protezione e di insediamento nei paesi disposti ad ospitarli o comunque ad offrire un’assistenza internazionale. E chieda, pretenda finalmente da Tripoli il rispetto dei diritti umani per tutti i fuggiaschi e i migranti che arrivano in Libia”.  

Nessun commento: