di Emilio Drudi
Un Natale da
schiavi. Qualche mese fa si sono salvati a stento nel mare in tempesta, a bordo
di un barcone in balia delle onde. Respinti sulla costa libica dalla quale
erano partiti verso Lampedusa e subito rinchiusi in un centro di detenzione,
dalla sera del 25 dicembre sono in balia di un gruppo di miliziani. C’è il
timore che possano essere venduti come merce: braccia per il lavoro forzato o schiavi
per le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani.
E’ la sorte di 240
profughi eritrei. L’ultima tappa di un’odissea che, per quasi tutti, si
trascina da un anno e passa. L’ha raccontata uno di loro, chiedendo
disperatamente aiuto a don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia Habeshia.
Sono arrivati in Libia dal Sudan o dall’Etiopia per vie e in tempi diversi,
attraverso il Sahara. Varcato il confine libico meridionale, in pieno deserto,
molti sono passati dall’inferno delle carceri e dei lager di Tripoli, finché
nell’autunno scorso hanno potuto comprarsi un imbarco di fortuna verso
l’Italia. La traversata non è riuscita. Investita da una violenta burrasca, la
carretta sulla quale erano stati caricati ha dovuto invertire la rotta. Alcuni
di loro, almeno tre, caduti in acqua, sono scomparsi in pochi istanti.
Impossibile aiutarli. Poi, quando in qualche modo sono giunti a terra, hanno
trovato ad attenderli la polizia. Neanche il tempo di fiatare e sono stati
trasferiti nel centro di detenzione di Ajdabiya, una struttura per rifugiati e
migranti situata poco lontano dal litorale, nella zona nord est del paese, in
Cirenaica, aperta nel 2009. Una delle più tristemente famose, nominalmente
gestita dal ministero degli interni ma dove fame e sete, maltrattamenti e
pestaggi, violenze e torture sono la norma. Sono rimasti lì sino alla mattina
di Natale.
Si era fatto giorno
da poco quando una squadra di militari armati li ha prelevati, costringendoli a
salire su un piccolo convoglio di camion-container, gli autocarri speciali, con
il piano di carico completamente chiuso, che vengono usati di solito per i
trasferimenti dei prigionieri, nascondendoli alla vista di tutti. Colpi di spranga
e con i calci del fucile per chi tentava di protestare. E, per tutti, la
minaccia di deportarli in Eritrea, il paese dal quale sono fuggiti e dove, se
rientrano, li aspettano processi, galera e anche peggio, come migranti
clandestini o come disertori. Stipati uno sull’altro, hanno viaggiato per ore
lungo la costa, superando numerosi posti di blocco, fino alla periferia di
Misurata, 650 chilometri più a ovest. Prima di entrare in città, l’ennesimo
posto di blocco. I miliziani armati che lo presidiavano forse li stavano
aspettando: fermata l’autocolonna, li hanno presi in consegna.
“A quanto mi hanno
riferito – racconta don Zerai – si tratta dei miliziani che controllano la
regione di Misurata. Tutto lascia credere che sia l’ennesimo capitolo del
traffico di esseri umani. La base principale delle organizzazioni che
gestiscono la traversata del Mediterraneo per i profughi, su navi “a perdere” stracariche,
è a Tripoli. E’ sulla costa tripolina, a circa 200 chilometri di distanza da
Misurata verso occidente, che gli scafisti ‘catturano’ i fuggiaschi arrivati in
Libia, per mandarli allo sbaraglio, spesso alla morte, nel Canale di Sicilia.
Prima, però, ci vogliono guadagnare anche i miliziani che dai giorni della
rivoluzione contro Gheddafi non hanno mai deposto le armi, esercitano di fatto
il potere reale in gran parte del territorio e probabilmente hanno fatto di
questi ricatti una fonte lucrosa di autofinanziamento. Da ogni prigioniero, soltanto
per rilasciarlo e consentirgli di proseguire fino a Tripoli, pretendono mille
dollari. Altrimenti si finisce in uno dei loro lager, come schiavi. Ed è appena
l’inizio. Per l’imbarco gli scafisti, spesso in combutta con gli stessi
miliziani o con poliziotti corrotti, chiedono almeno 1.500 dollari a testa.
Talvolta anche di più. Oltre 1.500 dollari per prendere il largo su battelli che
a malapena galleggiano. Come dimostrano le migliaia di vittime inghiottite dal
Mediterraneo negli ultimi anni. E sempre più spesso non basta neppure pagare:
anziché essere imbarcati, i profughi vengono venduti agli schiavisti nel sud
della Libia, al confine con il Niger o il Chad, dove sono tenuti in ostaggio
fino a quando i familiari non riescono a versare il riscatto. Altre migliaia di
dollari. Il ‘mercato’ organizzato dai predoni nel Sinai ha fatto scuola: ora lo
stesso sistema viene adottato anche da trafficanti libici. Ormai è un circolo
vizioso: lo stiamo denunciando da anni. Il 2013 che sta per chiudersi è stato
terribile per i migranti e il nuovo anno non promette bene. Anzi, va sempre
peggio perché i ‘potenti della terra’ non stanno facendo neanche il minimo per
prevenire questo orrore e per salvare queste persone da sofferenze indicibili”.
Il caso di Misurata
è emblematico: quei 240 disperati non sanno nelle mani di chi sono finiti, chi
e perché ne ha deciso il prelievo da Ajdabiya, se sono stati trasferiti da
militari fedeli al governo o da miliziani fuori controllo, magari collegati a
gruppi mafiosi. Di certo, ora sono molto meno al sicuro di quanto fossero nella
situazione, pure terribile, del campo di Ajdabiya. Lì, almeno, le numerose
famiglie del gruppo non erano separate: coniugi, genitori e figli vivevano
insieme. Secondo le ultime notizie arrivate dalla Libia, invece, dopo Misurata
uomini e donne, mogli e mariti, sono stati costretti a dividersi: I maschi sono
ora rinchiusi nel lager di Khoms, attivo dal 2007, dove hanno trovato altri 140
profughi in condizioni disperate, segregati da due mesi in uno stanzone buio e
senz’aria, tormentati ogni giorno da maltrattamenti e umiliazioni, bastonati a
sangue al minimo cenno di protesta. Nel gruppo, 185 in tutto, sono stati
inclusi anche ragazzini di 15-16 anni, strappati con la forza alle madri che
cercavano di nasconderli e trattenerli. Le 55 donne, insieme agli undici
bambini più piccoli, fino a 11 anni di età, incluso un bimbo nato proprio ad
Ajdabiya il giorno prima del trasferimento forzato, si trovano nel centro di
detenzione di Garabulli, una vera e propria prigione, insieme ad altre tredici
giovani, alcune con i figli piccoli, catturate in una delle tante retate
condotte dai miliziani in tutto il paese. Sono terrorizzate: isolate dai mariti
o comunque dagli uomini adulti della famiglia, i miliziani possono abusare di loro
in qualsiasi momento, senza che nessuno possa difenderle. Sanno che è accaduto
più volte. Che accade, anzi, quasi sistematicamente nei centri di detenzione
femminili.
“Per i profughi va
peggio di anno in anno…”, denuncia don Zerai. E non solo in Libia. Lo conferma
l’allarme che, sempre il giorno di Natale, è arrivato dal Sud Sudan, sconvolto
dalle stragi della guerra civile. Circa 500 eritrei – oltre 420 uomini, una
cinquantina di donne tra cui 7 in stato di gravidanza, e 25 bambini – hanno
trovato riparo in un campo improvvisato dal Commissariato Onu per i rifugiati a
Bor, il capoluogo dello stato petrolifero di Jongley, conquistato dai ribelli
del vicepresidente Riek Machar e distante 200 chilometri da Juba, la capitale,
rimasta in mano al presidente Salva Kiir. Si tratta di un campo enorme, vicino
al Nilo: ospita oltre 14 mila sfollati ma, essendo un complesso d’emergenza,
manca anche di strutture essenziali: tende e alloggi sufficienti per tutti,
servizi igienici e medici, una protezione adeguata. Peggio, scarseggiano persino
il cibo e l’acqua mentre, favoriti dal sovraffollamento, sono esplosi grossi
problemi sanitari: i malati aumentano e c’è il rischio di contagio.
“Tutti gli Stati si
sono preoccupati di evacuare i propri cittadini presenti nel Sud Sudan –
protesta don Zerai – Gli unici ad essere abbandonati a se stessi sono gli
eritrei. Le loro case e i loro negozi sono stati saccheggiati e distrutti.
Costretti a scappare, adesso si trovano presi in mezzo a una guerra feroce per il
controllo del petrolio, che rischia di sfociare in massacri etnici ancora più sanguinosi
di quelli registrati finora. Eppure non una parola si è sentita da parte del
regime di Asmara. Per trovare scampo questi 500 sfollati chiedono di essere
trasferiti in Uganda, uno dei paesi più vicini al centro allestito dall’Onu a
Bor. La speranza è che il Commissariato per i rifugiati riesca ad evacuarli
organizzando un corridoio umanitario, d’intesa con la comunità internazionale.
Quanto all’ennesima emergenza esplosa in Libia, con i 240 profughi in balia dei
miliziani di Misurata, prima ancora dell’Onu e di altre organizzazioni
internazionali, dovrebbe muoversi il Governo italiano. L’Italia ha un accordo
con Tripoli in materia di emigrazione. Proprio in base a questo trattato, allora,
chieda di far luce sulla deportazione dal campo di Ajdabiya. Chieda che i
prigionieri siano sistemati in un luogo sicuro, accessibile alle istituzioni
umanitarie. Chieda che vengano inseriti in un sistema di protezione e di
insediamento nei paesi disposti ad ospitarli o comunque ad offrire
un’assistenza internazionale. E chieda, pretenda finalmente da Tripoli il
rispetto dei diritti umani per tutti i fuggiaschi e i migranti che arrivano in Libia”.
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