Israele: rifugiati esportati
in Ruanda
Non si può risolvere
così il problema dei richiedenti asilo
No alla deportazione
a pagamento dei profughi africani da Israele al Ruanda. Perché è proprio questo
– una deportazione contro la volontà dei profughi – l’effetto che rischia di
configurasi con l’accordo multimilionario che il governo israeliano sta
concludendo con quello ruandese. E, per di più, la prospettiva è che si arrivi
a una vera e propria espulsione di massa dei rifugiati presenti in Israele. Trattative
analoghe a quelle con il Ruanda, infatti, sarebbero in corso anche con l’Uganda,
mentre nei mesi scorsi si è parlato del Kenya.
In Israele vivono
attualmente oltre 60 mila migranti, in grande maggioranza provenienti dal Sudan
e dall’Eritrea, due dei paesi africani che, in rapporto al numero di abitanti,
più hanno alimentato negli ultimi anni la diaspora di donne e uomini
perseguitati, spesso costretti alla fuga come unica via di scampo per salvarsi
la vita stessa. La maggior parte sono arrivati attraverso il Sinai, prima che
l’intera linea di confine con l’Egitto fosse sbarrata dalla barriera
impenetrabile costruita in pieno deserto per centinaia di chilometri. Molti vivono
come possono nelle periferie di Tel Aviv o Gerusalemme e nei sobborghi delle
altre città maggiori, ma migliaia sono rinchiusi nel centro di detenzione di
Holot, nel Negev, nonostante la Corte Suprema si sia più volte pronunciata per
la chiusura dell’intero complesso, asserendo che “detenere i clandestini è
illegale”. E quasi tutti sono trattati, in genere, da “infiltrati” e non da richiedenti
asilo, come avrebbero diritto. Basti ricordare che il tasso medio di
riconoscimento dello status di rifugiato in Israele non supera il 5 per cento
contro una media internazionale del 39 per cento. Media che, nel caso di
eritrei e sudanesi, sale addirittura rispettivamente all’84 e al 64 per cento.
Proprio questo è il
punto. Manca in Israele una adeguata politica di accoglienza e integrazione e
ciò ha creato assai spesso forme di discriminazione di fatto, se non, in alcuni
casi, un’aperta ostilità, sfociata anche in gravi episodi di intolleranza,
inclusi alcuni – per fortuna rari – raid xenofobi. Ora, anziché cercare di
eliminare difficoltà e incomprensioni attraverso un programma di asilo
adeguato, è arrivata la notizia dell’accordo in base al quale – come hanno
riferito all’inizio di aprile il presidente ruandese Paul Kagame e il ministro
dell’interno israeliano, Gilad Erdan – centinaia di immigrati eritrei e
sudanesi ospiti dei centri di detenzione verranno inviati in Ruanda, il cui
governo è disposto ad accoglierli in cambio di sovvenzioni del valore di
milioni di dollari.
Il ministro Erdan ha
giustificato questo provvedimento asserendo che l’obiettivo è incoraggiare i
migranti “a lasciare Israele in modo sicuro e dignitoso” e che il Ruanda è
disposto a regolarizzarli e a integrarli, aggiungendo – come precisa il
quotidiano Yediot Ahronot – che ad ogni immigrato in partenza verrà offerto un
“pacchetto che include un volo e 3.500 dollari”. Ma se l’espulsione si
rivelasse obbligatoria, come sembra nei fatti, si tratterebbe in realtà di un
respingimento di massa, in contrasto con il diritto internazionale che obbliga
ad assicurare assistenza e accoglienza a chi è costretto a scappare da guerre,
dittature, terrorismo, persecuzioni di ogni genere, carestia, fame. A chi, in
una parola, si trova nella condizione di richiedente asilo o migrante forzato,
come accade alla stragrande maggioranza dei giovani arrivati in Israele
dall’Africa Orientale e sub-sahariana. Appare difatti una forma di costrizione
ad andarsene e, dunque, una espulsione obbligatoria, anche il fatto che non si
sia mai attivata una adeguata politica di accoglienza e che a migliaia di immigrati
la sola prospettiva offerta sia stata un centro di detenzione o una grama
esistenza di emarginazione. L’unica differenza rispetto alla serie di
respingimenti indiscriminati a cui si è assistito in questi anni nel
Mediterraneo, è che, in questo caso, l’espulsione viene effettuata con la
collaborazione a pagamento di alcuni Stati africani e con la “indoratura” di un
incentivo in denaro ai singoli interessati. Una strategia che assume quasi la
veste di una “monetizzazione” del bisogno e della povertà. Del bisogno dei
richiedenti asilo di trovare un rifugio sicuro e dignitoso e della povertà
degli Stati africani disposti a collaborare con questa scelta di Israele in
cambio di denaro.
Ritorna, in una
parola, la logica dei “potenti della terra” chiusi nella propria fortezza,
indifferenti alla sorte degli “ultimi della terra”: la logica dei paesi ricchi
che possono permettersi di pagare la esternalizzazione dei propri confini,
spingendoli il più lontano possibile e affidando ai paesi più poveri il compito
di tenerne alla larga i disperati in cerca di aiuto. Non importa a che prezzo.
L’agenzia Habeshia
ritiene che non può essere assolutamente questa per Israele la via per
risolvere il problema dei richiedenti asilo e dei rifugiati che gli hanno
lanciato il proprio grido di aiuto in questi anni, magari spinti anche dalla convinzione
che forse nessuno avrebbe potuto comprenderne la tragedia come, per la sua
stessa storia millenaria, proprio il popolo ebraico.
Nella certezza che Tel
Aviv sta compiendo quanto meno un errore se non un vero e proprio sopruso,
dunque, Habeshia fa appello:
– Alle massime istituzioni
israeliane – Presidenza della Repubblica, Governo, Parlamento, Corte Suprema – perché
venga rivista e annullata la scelta fatta, prima che sia troppo tardi.
– Al Governo ruandese perché non monetizzi la
sofferenza di decine di migliaia di profughi.
– Alla comunità
internazionale perché chieda a Tel Aviv il rispetto della Convenzione di
Ginevra 1951 di cui è firmataria Israele, e il rispetto dei diritti umani e una
diversa politica di asilo e accoglienza, in linea con i sistemi adottati nei
paesi di più avanzata democrazia.
don Mussie Zerai
presidente dell’agenzia Habeshia
Roma, 10 aprile 2015
Nessun commento:
Posta un commento