Namibia: gli Herero sfidano ancora la Germania
di Emilio Drudi
Davide contro Golia.
Il piccolo popolo degli Herero, in Namibia, contro la grande e potente
Germania. Chiede scuse ufficiali e un risarcimento per l’eccidio compiuto dal
governo coloniale all’inizio del 1900, quando quasi l’intera etnia fu
sterminata, insieme a quella dei Nama. Un eccidio a lungo dimenticato, quasi
dissolto negli avvenimenti che, all’indomani della prima guerra mondiale, hanno
portato l’impero tedesco in Africa sotto il dominio del Regno Unito.
Sono, gli Herero,
meno dell’otto per cento della popolazione namibiana attuale, 160 mila persone
circa, incluso il sottogruppo degli Himba. Appena un ventesimo scarso degli
abitanti della sola Berlino. Vivono quasi tutti nella grande fascia del
Damaraland, nel nord ovest del paese, sparsi in tre regioni, il Kunene,
l’Erongo e parte dell’Otjozondjupa, anche se gruppi minori si possono
incontrare più a nord e a est, fino al Kavango, lungo la sponda meridionale del
fiume Cubango, che segna il confine con l’Angola. Molti sono concentrati nelle
piccole città di Okahandja, Otjimbingwe, Omaru e Opuwo. Alcuni (o, meglio,
alcuni clan) sono tra i maggiori allevatori di bovini della Namibia. La
maggioranza, però, strappa la vita in piccoli, poveri insediamenti di pastori
seminomadi. Opuwo, il capoluogo del Kunene, è un po’ l’emblema di questo
sistema misto tra nuclei urbani e campagna. La città conta poco più 5 mila
abitanti. Ma “città” è una parola grossa. Tutto si riduce a una chiesa, un
ospedale, la scuola primaria e secondaria, un campo di calcio sassi e polvere,
con le porte sbilenche, un paio di distributori di benzina, poche abitazioni,
alcuni negozi con merci di prima necessità, dagli alimentari agli utensili, un
piccolo lodge per i rari turisti che si spingono fin quassù, nell’ultimo centro
abitato prima della vasta area desertica del Kaokoland. Poi, un grande
supermercato aperto di recente, attorno al quale ruota l’intera vita
quotidiana, con un andirivieni continuo di vecchie auto e pick-up stracarichi
di famiglie.
La gente risiede per
lo più nei villaggi disseminati nella savana e nella boscaglia, dove si pratica
uno scarno allevamento di sopravvivenza, integrato da qualche fazzoletto di
terra coltivato a mais o a sorgo. Villaggi quasi sempre minuscoli: non più di
una quindicina o una ventina di alloggi. Sono un po’ più grandi solo quelli
dove lo Stato ha aperto la scuola primaria, a servizio di più nuclei. Ogni
villaggio corrisponde quasi sempre a un clan familiare. Specialmente tra gli
Himba, meno di frequente tra gli Herero, i cui insediamenti sono generalmente
più vasti. A parte le dimensioni, la differenza si coglie subito anche dalla
forma delle capanne: circolari quelle degli Himba, rettangolari quelle degli
Herero. La tecnica di costruzione, però, è la stessa: pali di legno, paglia e
qualche volta, soprattutto tra gli Herero, un intonaco di fango secco,
sostituito sempre più spesso, negli ultimi anni, da tavolati di scarto o da bandoni
metallici. E’ molto diverso, invece, il costume tradizionale. Quasi tutte le
donne Himba vestono tuttora di pelli: un gonnellino e basta, integrato magari
da una mantellina corta che copre appena le spalle. Una cura particolare viene
riservata ai capelli, suddivisi in treccine impastate di un misto di burro e
polvere d’ocra, con la quale ognuna si spalma anche il corpo, incluso il seno,
lasciato scoperto. E’ molto più difficile, invece, incontrare degli uomini con
il perizoma di pelle, i capelli raccolti in un ciuffo arrotolato e gettato all’indietro
e un lungo pugnale sul fianco. La maggioranza veste ormai all’europea. Come
fanno tutti gli Herero, le cui donne, però, indossano ancora oggi,
immancabilmente, gli abiti lunghi multicolori, imposti tra la fine del 1800 e
l’inizio del 1900 dai missionari luterani, con ampie gonne a balze o crinoline
e in testa un fazzoletto-cuffia annodato in maniera da terminare con due punte
ai lati della fronte, quasi due corna.
Ecco, è questa
gente, sono questi pastori sparsi nel Damaraland o nel Kaokoland, a migliaia di
chilometri dall’Europa, che hanno deciso di sfidare la Germania di fronte al
mondo. Combattono già da anni e sono sempre più risoluti a non cedere. “In
questa lotta – dicono – abbiamo dalla nostra parte le ragioni della storia:
siamo i discendenti più diretti dei superstiti delle stragi sistematiche
condotte dal governo imperiale tedesco contro chi ha osato ribellarsi al suo
dominio coloniale”. Già, sono gli ultimi “eredi” dei pochissimi scampati al
primo, terribile genocidio di stato dell’epoca contemporanea, attuato in nome
di una pretesa superiorità razziale, per spazzare via un intero popolo ritenuto
“inferiore” e, in definitiva, non degno di vivere. “L’olocausto del kaiser”,
come è stato definito da David Olusoga e Casper W. Erichsen, due giovani
storici, in un recente, prezioso libro che, ricostruendo questo eccidio
dimenticato e sottaciuto, evidenzia le molte, dirette connessioni tra il
dominio coloniale della Germania di Guglielmo II e il nazismo.
E’ accaduto tra il
1904 e il 1908, poco più di vent’anni dopo l’arrivo dei primi coloni tedeschi
in quella che allora era chiamata l’Africa del Sud Ovest. Ne è stato artefice
principale il generale Lothar von Trotha. Tutto è partito dalla rivolta
promossa e capeggiata da Samuel Maharero, il condottiero degli Herero, ai quali
si sono presto uniti anche i Nama, contro la politica tedesca che, apertamente
non ugualitaria nei confronti della popolazione africana, incoraggiava i coloni
a sottrarre terre e pascoli alle tribù e a trattare come subordinati tutti i
“neri”.
La ribellione ebbe
inizio nel gennaio 1904 con una serie di attacchi agli insediamenti coloniali,
la distruzione di numerose fattorie e l’uccisione di oltre 120 tedeschi. Da qui
la richiesta di rinforzi inviata a Berlino da parte dell’amministratore
imperiale della colonia, Theodor Leutwein, e l’arrivo del generale Lothar von
Trotha, come capo superiore dell’intera Africa del Sud Ovest, con un contingente
di 14 mila soldati ben armati. Seguirono scontri e operazioni di guerriglia,
fino alla battaglia decisiva di Waterberg, nella quale un esercito di circa 5
mila Herero e Nama fu sconfitto, costretto a fuggire e spinto verso il deserto
del Kalahari. Poi, mentre Maharero e pochi superstiti ottenevano l’asilo
politico nel territorio britannico del Bechuanaland, cominciò l’eliminazione
sistematica di tutti i ribelli: non solo gli uomini combattenti ma donne,
bambini e anziani. Una vera e propria pulizia etnica. E’ eloquente il messaggio
diffuso da von Trotha quando ormai anche gli ultimi fuochi di rivolta si
stavano spegnendo: “Il popolo Herero deve lasciare il paese. Ogni Herero che
sarà trovato all’interno dei confini tedeschi, con o senza un’arma, con o senza
bestiame, verrà ucciso. Non accolgo più né donne, né bambini: li ricaccerò alla
loro gente e farò sparare loro addosso. Queste sono le mie parole per il popolo
Herero”.
Non furono parole
dette invano. Von Trotha e, più in generale, il governo coloniale adottarono
una serie di misure volte a sterminare gli Herero e i Nama: razzie e mattanza
del bestiame, che era la fonte di sostentamento essenziale per quelle
popolazioni; presidio e avvelenamento dei pozzi e delle sorgenti; esecuzioni di
massa, arresti e imprigionamenti, fino all’istituzione di lager dove furono
rinchiuse tutte le genti delle due etnie ancora presenti nel territorio:
uomini, donne, anziani, bambini, feriti, malati. Lager che si rivelarono micidiali
campi di sterminio, nei quali era elevatissima la mortalità per fame, inedia,
malattie, fatica fisica. Molti, inclusi i bambini, furono costretti a lavorare
come schiavi presso imprese pubbliche o aziende private oppure per l’esercito.
Tutti erano schedati in base alla prestanza fisica e tanti, specie quelli
ancora in forze, furono usati come cavie per esperimenti medici.
A coordinare questi
esperimenti giunse in Namibia dalla Germania il professor Eugen Fisher, un
genetista il quale, convinto sostenitore della “purezza della razza”, oltre che
sui prigionieri Herero, si concentrò in particolare sui mulatti, i buster,
figli di uomini bianchi (tedeschi o olandesi) e donne africane. Sottopose oltre
300 di loro a verifiche ed esami, con test che prevedevano la sterilizzazione,
l’inoculazione di germi di malattie come il vaiolo, il tifo o la tubercolosi.
Giungendo poi alla conclusione che si trattava di razze inferiori da segregare
o addirittura eliminare, in modo da tutelare l’integrità della razza tedesca.
Non fu da meno il dottor Bofinger, che si occupò soprattutto degli Herero e dei
Nama malati di scorbuto, uomini, donne e bambini che “trattò” con iniezioni di
arsenico ed oppio, per studiarne poi gli effetti con le successive autopsie sui
cadaveri.
Secondo David
Olusoga e Casper W. Erichsen, appare evidente come queste crudeli sperimentazioni
siano state il “banco di prova” o, meglio ancora, l’antefatto diretto delle
procedure mediche adottate dai nazisti nei confronti degli ebrei durante la
Shoah. Non a caso il professor Fisher, reduce dall’esperienza fatta nell’Africa
del Sud Ovest, divenne rettore dell’Università di Berlino dove, docente di
medicina e genetica, ebbe come allievo anche Josef Mengele, noto per gli
orrendi test condotti ad Auschwitz sugli ebrei. In particolare sui gemelli e
sui bambini. In questo contesto, su iniziativa soprattutto di Fisher, centinaia
di crani o addirittura scheletri interi di Herero furono portati in Germania,
presso varie università ed istituti pubblici o privati, “per motivi di studio”.
Per continuare, cioè, quelle ricerche iniziate nei lager in Africa con le
misurazioni del capo e della struttura corporea dei prigionieri, con le analisi
dei capelli e degli occhi, gli esami medici e i test clinici che usavano uomini
e donne, in forze o allo stremo, come cavie. Sempre con la pretesa che si aveva
comunque a che fare con una razza inferiore. Verso la fine del 1916, ad esempio,
il dottor Bofinger fece decapitare i corpi di 17 prigionieri Nama del campo di
Shark Island, inclusa una bambina di appena un anno, e ne inviò i crani o i
cervelli, conservati in una soluzione alcolica, all’Istituto di Patologia
dell’Università di Berlino, dove furono usati per una serie di esperimenti dal
futuro scienziato della razza Christian Fetzer, allora studente di medicina,
per dimostrare le somiglianze anatomiche tra i Nama e le scimmie antropoidi.
Dopo circa cinque
anni di stragi e di questo “trattamento scientifico”, degli oltre 80 mila
Herero presenti nel Damaraland prima della ribellione, ne rimasero in vita meno
di 15 mila, in condizioni fisiche penose, massacrati come individui e come
popolo. E agli almeno 65 mila Herero trucidati vanno aggiunti circa 20 mila
Nama. Un vero e proprio genocidio, che ha spazzato via l’80 per cento
dell’etnia Herero e la metà dei Nama.
Gli Herero di oggi discendono da quelle poche migliaia di sopravvissuti
e ne hanno ereditato l’orgoglio, la fierezza e il coraggio. E’ con grande
fierezza e dignità, infatti, che ora sfidano il governo tedesco, chiedendo
scuse ufficiali per “l’olocausto del kaiser” e un risarcimento adeguato, che
dia concretezza all’ammissione di colpa, a partire dalla restituzione immediata
delle decine di crani e scheletri ancora conservati in Germania. Sanno di avere
di fronte un gigante. E che il loro stesso governo, nel timore di inimicarsi
Berlino, non li segue del tutto in questa battaglia. Ma sono decisi ad andare
sino in fondo, anche a costo di protrarre la sfida per anni. “Contrariamente a
quanto si aspettavano probabilmente il generale von Trotha e il potere
coloniale – afferma uno dei capi Herero – lo sterminio sistematico dei primi
del 1900 non ha cancellato il nostro popolo. Anzi, questa tragedia, la
coscienza di quanto è accaduto, ci ha come rigenerato. E’ da questa coscienza
che traiamo quella forza che prima o poi costringerà Berlino a darci ascolto.
E’ il modo migliore, anzi l’unico, per onorare la memoria dei nostri antenati”.
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