martedì 10 ottobre 2023

CIR: i tempi di trattenimento nei CPR servono solo ad aumentare le sofferenze umane

 

 

Roma, 19 settembre 2023 - Il Consiglio Italiano per i Rifugiati – CIR è estremamente preoccupato per le misure introdotte ieri in sede di Consiglio dei Ministri che prevedono l’allungamento del trattenimento di migranti fino ai 18 mesi nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio – CPR.
 
L’allungamento dei tempi di detenzione amministrativa non servirà né a fermare i flussi dei migranti verso l’Italia, né a rendere più efficace il sistema di rimpatrio forzato” dichiara Roberto Zaccaria, Presidente del CIR. I dati dimostrano infatti che nel corso degli anni al variare del tempo di trattenimento non corrisponde in alcun modo un miglioramento delle percentuali di rimpatrio che restano stabili a poco meno del 50% sia negli anni in cui i migranti il trattenimento poteva durare sino a 18 mesi, sia in quelli in cui non poteva superare i 90 giorni.  I dati forniti dal Garante per le persone private della libertà rispetto agli ultimi tre anni (2020-2022) registrano percentuali medie di rimpatri da CPR costanti nel tempo che si attestano sul 49% con una detenzione media di circa 36 giorni. “È evidente che i rimpatri dipendono in modo esclusivo dagli accordi con i Paesi di riammissione, non con la lunghezza del tempo in cui i migranti sono detenuti nei centri” continua Zaccaria.
 
Ricordiamo che le persone sono detenute nei CPR senza aver commesso alcun reato. Numerosi rapporti, tra cui quelli del Garante,  hanno evidenziato in questi anni gravissime criticità strutturali, violazioni dei diritti fondamentali dei migranti detenuti e opacità sistemiche nella gestione dei CPR. Dall’abuso della somministrazione degli psicofarmaci, alle morti di giovani ragazzi.
 
“Chiunque sia stato in un Centro per il Rimpatrio ha visto in che modo sono detenute persone che non hanno commesso alcun reato, in condizioni che fanno rabbrividire. Questo fa ancora più riflettere se lo leggiamo alla luce dell’art. 27 della Costituzione che introduce la funzione rieducativa della pena per quanti detenuti in Italia. A persone che non hanno commesso alcun reato riserviamo un trattamento peggiore di quello applicato a chi ha commesso un crimine.  È l’ennesima iniziativa volta a rafforzare una immagine securitaria di gestione delle migrazioni, ma che non avrà alcun impatto significativo, se non quello di brutalizzare i diritti delle persone” conclude Zaccaria.
  Ufficio stampa e comunicazione

Consiglio Italiano per i Rifugiati

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Il naufragio che ha segnato la memoria collettiva europea

 La notte del 3 ottobre 2013 morirono annegati 368 migranti: una strage che poteva essere evitata

La notte del 3 ottobre 2013 sono morte 368 persone. I superstiti sono stati 155, di cui 41 minori (uno solo accompagnato dalla famiglia). Quella di Lampedusa è stata una delle più gravi catastrofi marine del XXI secolo, certamente una delle più grandi tragedie della migrazione attraverso il Mar Mediterraneo

di ENRICO CASALE 

 L’OSSERVATORE ROMANO martedì 3 ottobre 2023

 Così tanta acqua non l’avevano mai immaginata. Sapevano che il mare esisteva. Ne avevano sentito parlare. Qualcuno, forse, lo aveva studiato sui libri a scuola. Ma, quasi certamente, non lo avevano mai visto. Loro erano abituati a camminare sui sentieri sassosi e polverosi dell’altipiano. A salire sulle montagne, a percorrere chilometri sulle distese dell’Acro coro abissino. Chissà che cosa hanno provato quando hanno visto quella distesa in perenne movimento e quando sono saliti sul barcone che doveva portarli in Europa. Chissà che cosa hanno provato quando la loro imbarcazione si è, improvvisamente, ribaltata e si sono trovato nelle acque fredde di una notte autunnale davanti all’isola dei Conigli, poco distante dalla costa dell’isola di Lampedusa. Qualcuno, preso dall’ansia e dalla paura, ha provato a nuotare ed è riuscito a raggiungere la riva. La maggioranza però non ce l’ha fatta. La notte del 3 ottobre 2013 sono morte 368 persone. I superstiti sono stati 155, di cui 41 minori (uno solo accompagnato dalla famiglia). Quella di Lampedusa è stata una delle più gravi catastrofi marine del XXI secolo, certamente una delle più grandi tragedie della migrazione attraverso il mar Mediterraneo. Altre ne sono seguite, non-ultima quella più recente di Cutro, ma quel naufragio rimane uno dei punti più dolenti della storia perché fu il primo di quelle dimensioni e quello che più è rimasto impresso nella memoria collettiva. Eppure la strage poteva essere evitata. L’imbarcazione era un peschereccio lungo una ventina di metri ed era salpato dal porto libico di Misurata il primo ottobre 2013. La barca era giunta a mezzo miglio dalle coste lampedusane quando i motori si sono bloccati poco lontano dall’Isola dei Conigli. Due imbarcazioni di pescatori erano passate poco lontano e l’assistente del capitano, per attrarre la loro attenzione aveva dato fuoco a uno straccio imbevuto di carburante. Quando lo straccio era quasi completamente bruciato, il marinaio, per non ustionarsi la mano, l’ha lasciato cadere sul ponte. Il legno imbevuto di carburante ha preso fuoco. I passeggeri, spaventati, si sono spostati da una parte dell’imbarcazione, che si è rovesciata . La barca ha girato su se stessa tre volte prima di colare a picco. Chi si trovava sul ponte è riuscito a gettarsi in mare. Chi era sottocoperta, soprattutto, donne e bambini, non ce l’ha fatta. «Fin dalle prime battute — ricorda oggi Mussie Zerai, sacerdote eritreo da anni impegnato nell’assistenza e nel soccorso dei migranti nel mar Mediterraneo — si è capito che si preannunciava una tragedia. Da subito, i superstiti hanno iniziato a parlare di decine di vittime. Allora io ero cappellano degli eritrei in Svizzera. Mi ci sono voluto alcuni giorni per organizzare il mio viaggio a Lampedusa. Quando sono arrivato ho subito incontrato la disperazione dei famigliari che arrivavano in Sicilia da altre regioni d’Italia, dall’Europa e dal Nord America. Ricordo la fila delle bare in un hangar dell’aeroporto di Lampedusa. Un’immagine straziante che non mi abbandonerà per tutta la vita. Fu anche la prima prova evidente delle tragedie in mare dei migranti». Nei giorni successivi al naufragio, le famiglie dei migranti si sono trovate in difficoltà. Non riuscivano a capire se tra i morti ci fossero i loro cari. «I sopravvissuti — continua Mussie — raccontavano che i passeggeri a bordo dell’i m b a rc a z i o n e erano quasi tutti eritrei e tra essi c’erano solo pochi etiopi. Il governo italiano, guidato allora da Enrico Letta, si è subito offerto di organizzare uno o più voli per far rimpatriare le salme in Eritrea. Ma qui sono sorte le prime complicazioni» Il governo di Asmara allora cercava di sminuire il flusso dei migranti in uscita dal Paese probabilmente — dicono gli analisti — p er motivi di orgoglio nazionale o di prestigio internazionale. «Per l’identificazione delle salme sono giunti da tutta Europa i parenti – osserva Mussie —, ma è stato difficile, ad eccezione di un centinaio di corpi, identificarne l’origine. Le bare sono così state seppellite in vari cimiteri della Sicilia». In seguito al naufragio è nato il «Comitato 3 Ottobre» che ha lavorato duramente per redigere il protocollo d’intesa per favorire il riconoscimento dei corpi senza identità dei naufragi di Lampedusa, documento firmato dallo stesso Comitato e dal ministero degli Interni italiano. «A dieci anni dalla tragedia — commenta amaro Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 ottobre — non possiamo dire che quel protocollo sia stato applicato. In Italia sono in vigore procedure particolari, ma diverse da quelle di altri Paesi. Non c’è uniformità nel riconoscimento delle vittime. Ciò è triste, soprattutto per le famiglie». Per i morti del naufragio si è tenuta alla fine di ottobre 2013 una cerimonia funebre ad Agrigento, ma senza bare. «Quella cerimonia è stata una beffa per le stesse vittime — dice abba Mussie —. Oltre ai religiosi cattolici, ortodossi e musulmani sono stati invitati gli esponenti del governo di Asmara. Quello stesso governo dal quale i migranti fuggivano e che non riconoscevano i morti come eritrei. Non abbiamo potuto opporci, ma è stato un momento doloroso». In quell’occasione, Papa Francesco ha dimostrato grande sensibilità. Oltre a invitare a pregare per le vittime, ha accolto in Vaticano i sopravvissuti e le loro famiglie. Il governo italiano, scosso dall’evento, ha poi dato vita a Mare Nostrum, una missione della marina militare che, negli anni, ha salvato centinaia di vittime. Da allora qualcosa è cambiato? «Sì, ma in peggio — conclude Brhane —. Allora in Italia si era diffuso un sentimento di empatia nei confronti dei migranti e delle loro famiglie. Oggi, dopo anni e anni di politiche di demonizzazione delle migrazioni, quel sentimento è svanito. Ora si parla delle migrazioni solo come di un’emergenza alla quale rispondere con strumenti di emergenza. In realtà, i migranti sono una risorsa. Lo dimostrano gli stessi sopravvissuti al 3 ottobre che ora vivono nel Nord Europa. Si sono rifatti una vita, hanno una casa, una famiglia e lavorano, producendo ricchezza per le nazioni che li ospitano».

Lampedusa. Don Zerai: «Così la memoria dei morti del 3 ottobre è stata tradita»

 Dieci anni dopo la strage, l'amarezza dell'angelo dei profughi che oggi vive in Canada: «Si è regrediti a un cinismo e a una indifferenza anche peggiori del clima di allora»



Le bare allineate nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa, davanti quelle dei bambini di colore bianco. E il pianto inconsolabile dei parenti e degli amici delle 368 giovani vite spezzate a poche centinaia di metri dalla spiaggia, quando la libertà e un futuro migliore sembravano ormai a un passo. Sono le immagini impresse nella mente di chi dieci anni fa è stato testimone di una grande tragedia, spartiacque del fenomeno delle migrazioni nel Mediterraneo. Cecilia Malmström, allora commissario europeo per gli Affari interni sollecitò dopo la strage i Paesi della Ue a incrementare le attività di ricerca nel Mediterraneo con pattuglie di soccorso e intervento per intercettare e soccorrere i barconi e i gommoni di profughi e migranti attraverso l’agenzia Frontex. Sappiamo come è andata.

Don Mosè Zerai, sacerdote di origine eritrea e angelo dei profughi e dei rifugiati, allora accorse sull’isola, aiutò i superstiti e chiese di costruire un memoriale per le vittime, molte delle quali mai identificate. È stato ed è il riferimento dei migranti del Corno imprigionati dai trafficanti o in difficoltà in mezzo ai flutti che chiamavano il suo numero e lui a sua volta denunciava le storie dei nuovi schiavi e segnalava alla guardia costiera la posizione dei natanti. Fu il primo a denunciare gli stupri e le torture subite dai migranti eritrei ed etiopi nelle celle in Libia e in quelle nel deserto del Sinai. Attività umanitaria per cui è stato candidato al Nobel per la pace nel 2016. L’anno dopo, però, gli è arrivata l’accusa infamante portata avanti dalla procura di Trapani di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina archiviata dopo ben 52 mesi. Erano gli anni delle accuse roventi alle Ong, culmine di una campagna iniziata nel 2015 da Frontex contro le navi da soccorso private sulle quali peraltro il sacerdote, profugo a sua volta, non è mai salito per scelta. Un albero con il suo nome è stato piantato a novembre da Gariwo nel Giardino dei giusti sul Monte stella a Milano. Oggi don Mosè esercita il suo ministero in Canada come cappellano degli italiani, continua a occuparsi di profughi con la sua Agenzia Habeshia e anche se da allora il 3 ottobre si celebra la “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”, non riesce a togliersi l’amara convinzione che la memoria dei morti del 3 ottobre 2013 e le promesse della politica siano state tradite.

In quale clima cade il decimo anniversario della tragedia di Lampedusa?

Nel clima e nella prassi che erige l’ennesima barriera di morte in faccia a migliaia di altri rifugiati e migranti come i ragazzi spazzati via in quell’alba grigia del 3 ottobre 2013. Non sappiamo se esponenti di questo governo e questa maggioranza (non ci andranno, ndr) o se altri protagonisti della politica italiana degli ultimi anni, intendano promuovere o anche solo partecipare a cerimonie ed eventi in memoria. Ma se è vero che il modo migliore di onorare i morti è salvare i vivi e rispettarne la libertà e la dignità, allora non avrà senso condividere i momenti di raccoglimento e di riflessione che la data del 3 ottobre richiama con chi da anni costruisce muri e distrugge i ponti, ignorando il grido d’aiuto che sale da tutto il Sud del mondo. Se anche loro vogliono ricordare Lampedusa che lo facciano da soli. Perché in questi 10 anni hanno rovesciato, distrutto o snaturato quel grande afflato di solidarietà e pietà suscitato dalla strage nelle coscienze di milioni di persone in tutto il mondo.

Che cosa resta dello “spirito” e degli impegni di allora?

Nulla. Si è regrediti a un cinismo e a una indifferenza anche peggiori del clima antecedente quel terribile 3 ottobre. E, addirittura, nonostante le indagini della magistratura, non si è ancora riusciti a capire come sia stato possibile che 368 persone abbiano trovato la morte ad appena 800 metri da Lampedusa e a meno di due chilometri da un porto zeppo di unità militari veloci e attrezzate, in grado di arrivare sul posto in pochi minuti. La vastità della tragedia ha richiamato l’attenzione su due punti in particolare: la catastrofe umanitaria di milioni di rifugiati in cerca di salvezza attraverso il Mediterraneo e il dramma dell’Eritrea, schiavizzata dalla dittatura di Isaias Afewerki, perché tutti i morti erano giovani eritrei, molti dei quali in fuga dal servizio di leva a tempo indefinito.

Come si rispose al primo punto?

Varando “Mare Nostrum”, il mandato alla Marina militare italiana di pattugliare il Mediterraneo sino ai margini delle acque territoriali libiche per prestare aiuto alle barche di migranti in difficoltà e prevenire, evitare altre stragi come quella di Lampedusa. Quell’operazione è stata un vanto per la nostra Marina, con migliaia di vite salvate. A dieci anni di distanza non solo non ne resta nulla, ma sembra quasi che buona parte della politica la consideri uno spreco o addirittura un aiuto ai trafficanti. Esattamente dopo dodici mesi, nel novembre 2014, “Mare Nostrum” è stato cancellato, moltiplicando – proprio come aveva previsto la Marina – i naufragi e le vittime, inclusa l’immane tragedia del 15 aprile 2015, con circa 800 vittime, il più alto bilancio di morte mai registrato nel Mediterraneo in un naufragio. Eppure, al posto di quella operazione salvezza, sono state introdotte via via norme e restrizioni che neanche l’escalation delle vittime oggi arrivare a 28 mila nel Mediterraneo è valsa ad arrestare, fino ad arrivare ad esternalizzare sempre più a sud, in Africa e nel Medio Oriente, le frontiere e quindi i controlli della Fortezza Europa, attraverso una serie di trattati internazionali, per bloccare i rifugiati in pieno Sahara, lontano dai riflettori, prima ancora che possano arrivare ad imbarcarsi sulla sponda sud del Mediterraneo.

Un anno dopo, nel 2014 arrivarono in mare le Ong…

E sono state criminalizzate dalla politica, anche se a loro si deve circa il 40 % delle migliaia di vite salvate. Ma sono state costrette anche a sospendere la loro attività e costrette a navigare per centinaia di miglia in cerca di porti assegnati lontani dal luoghi di soccorso. Il porto più vicino e sicuro previsto dal diritto internazionale marittimo è lettera morta ormai. Le stragi si susseguono, il cinismo ha soppiantato l’umanitario.

E con i rifugiati eritrei?

Si è passati dalla solidarietà alla derisione o addirittura al disprezzo, tanto da definirli “profughi vacanzieri” o “migranti per fare la bella vita”, pur di negare la realtà della dittatura di Asmara. È un processo iniziato all’indomani della tragedia, quando alla cerimonia funebre per le vittime, ad Agrigento, il governo ha invitato l’ambasciatore eritreo a Roma, l’uomo che in Italia rappresenta ed è la voce proprio di quel regime che ha costretto quei 368 giovani a scappare dal paese. Sarebbe potuta sembrare una “gaffe”. Invece si è rivelata l’inizio di un percorso di progressivo riavvicinamento e rivalutazione del dittatore Isaias Afewerki, facendolo uscire dall’isolamento internazionale, associandolo al Processo di Khartoum e ad altri accordi, inviandogli centinaia di milioni di euro di finanziamenti, eleggendolo, di fatto, gendarme anti immigrazione per conto dell’Italia e dell’Europa.

È stata dunque tradita la memoria dei 368 morti di Lampedusa?

Si, sia per quanto riguarda i migranti che per l’Eritrea, resta l’amaro sapore di un tradimento della memoria e del rispetto per le 368 giovani vittime e tutti i loro familiari e amici. E delle migliaia di giovani morti in mare successivamente e degli eritrei e che con la loro stessa fuga denunciano ancora la feroce, terribile realtà del regime di Asmara. Che resta una dittatura anche dopo la firma della pace con l’Etiopia firmata cinque anni fa e che nel Paese dove sono nato non ha cambiato nulla.

Don Zerai: «Così la memoria dei morti del 3 ottobre è stata tradita» (avvenire.it)

La dignità della memoria: Lampedusa 3 ottobre 2013, dieci anni dopo

 


Di Paola Barretta e Valerio Cataldi

All’alba del 3 ottobre 2013, un vecchio peschereccio con oltre 500 persone bordo naufraga a ridosso dell’isola di Lampedusa. Vengono recuperati 368 corpi di persone di nazionalità eritrea. Per la prima volta, i corpi dei naufraghi sono visibili al mondo intero. È un evento che cambia la percezione dei naufragi e che scatena una reazione emotiva a livello politico, mediatico e sociale. La polizia scientifica ed i medici legali di Palermo ed Agrigento, impiegano giorni interi per mettere in fila tutti gli oggetti trovati sui corpi dei naufraghi di Lampedusa e raccogliere campioni di DNA. Un lavoro devastante ma fondamentale per avere la possibilità di effettuare riconoscimenti, comparazioni e restituire un nome, un’identità alle vittime di quella tragedia.

“Corpi di reato”. Sono state aperte le scatole e poi le buste per vedere cosa ci fosse di ancora utilizzabile e cosa invece fosse stato corroso dal tempo e dalla salsedine. Un odore penetrante. “Corpi di reato”. Le parole hanno sempre un senso e cambiano forma alle cose. Trasformano un giocattolo in una prova da portare in tribunale.

La forza di quegli oggetti è lo sguardo che portano con sé. L’identità perduta di chi li ha posseduti, tenuti in tasca. E allo stesso tempo è anche l’identità di chi ha amato quelle persone e che magari le aspetta ancora. Dare dignità a quegli oggetti significa fare un passo verso la costruzione di una memoria condivisa, una memoria comune, quella degli esseri umani.

Raccontare i contesti, i percorsi e i luoghi da cui le persone provengono significa riconoscere il ruolo di un’informazione corretta e accurata. Un’informazione che si nutre di parole discriminanti, come il termine “clandestino”, secondo quanto affermato poco più di un mese fa dalla Corte di Cassazione, entrato nel lessico giornalistico e utilizzato quasi “involontariamente”, ma dagli effetti pericolosi sul corpo sociale di divisione e di amplificazione della paura.

Un’informazione che, nel 2013, per raccontare il naufragio, si nutriva di parole dalla parte delle persone: le condizioni dei naufraghi, la mancanza di acqua e di cibo, l’inadeguatezza di una nave mercantile e del suo equipaggio ad assistere persone trovate in condizioni drammatiche a bordo di un gommone. “Ovunque si voglia ricordare la tragedia di Lampedusa non avrà alcun senso farlo se non si vorrà trasformare questa triste ricorrenza in un punto di partenza per cambiare radicalmente la politica condotta in questi dieci anni nei confronti di migranti e rifugiati, gli “ultimi della terra”, afferma Padre Mussie Zerai, figura di riferimento della comunità eritrea. Descrivere e testimoniare quanto continua ad accadere in Eritrea – così come in molte altre aree del mondo – è già un passo per avere una informazione completa sulle migrazioni.

Gli oggetti sono esposti a Milano al Memoriale della Shoah fino al 31 ottobre 2023, è un’iniziativa di Zona, Carta di Roma, in collaborazione con Adal Neguse.

La dignità della memoria: Lampedusa 3 ottobre 2013, dieci anni dopo - Associazione Carta di Roma

«Italy and Europe have betrayed themselves regarding migrants» https://news.italy24.press/trends/918208.html

«Italy and Europe have betrayed themselves regarding migrants»

«Don Mussie Zerai’s number is written on the walls of Libyan prisons, in traffickers’ warehouses, on the walls of trucks crossing the desert», wrote Alessandro Leogrande – journalist and writer who passed away in 2017 – in The frontier. Perhaps the most beautiful book among those born from the pain of the great shipwrecks of 2013: off the coast of Lampedusa on 3 October, a little further away eight days later. Over 600 deaths in one week. Mussie Zerai Yosief, a Catholic priest since 2010, was already a point of reference for those seeking refuge in Europe. In particular for his fellow Eritrean citizens. In 2015 he was nominated for the Nobel Peace Prize. Two years later he was investigated for aiding and abetting illegal immigration by the Trapani prosecutor’s office, as part of the maxi-investigation against NGOs. The charges were later dismissed. For several months he has been living in Canada, where he deals only with pastoral activities. At least for now because, he says, “not everything is rosy here either, even if at least there is a legal access system”.

Don Mussie, what do you remember of the moment you received the news?

My blood ran cold. They told me: a disaster has happened, turn on the TV. I remember the images of the bodies being recovered. Chilling. And then the meeting with the survivors and family members, those 368 people closed inside the coffins lined up. An immense suffering.

He immediately reached Lampedusa. What struck you?

The torment, the screams, the pain of relatives. The disorientation and continuous crying of the survivors. Then the solidarity of the Lampedusans, who had welcomed the migrants into their home. The residents suffered together with those who had come from afar.

Ten years later, is there a judicial truth?

There was a trial for the man identified as the smuggler and the two fishing boats that had approached without providing assistance or raising the alarm were identified. But much remains to be discovered. It is impossible that a boat with 500 people could have arrived near the coast without the authorities noticing. There is also something that hasn’t been said about the delays in the rescue. Survivors and family members are not happy with how the matter was handled: they want full light and justice.

The government does not participate in the commemoration initiatives of October 3rd. And it is not the first time.

The Italian parliament was right to establish the “Day of Remembrance and Welcome”, which we hope will become European, but rhetorical celebrations are useless. What really causes pain is that people continue to die today. Neither Italy nor the EU has a search and rescue device. I don’t understand how countries that claim to be civilized, democratic, with an ancient humanistic and Christian tradition can allow this. Family members, survivors and those who have not stopped fighting in recent years do not want political catwalks, but concrete actions to protect the lives of people on the run. It is the countries that have closed their doors that force migrants to rely on human flesh brokers and traffickers.

With a visa. I took a plane and landed in Rome. In 1992 it could be done. I consider myself privileged because for thousands and thousands of Africans, even my fellow countrymen, it is impossible. There is a lack of political will to seriously address the issue. There is a lot of talk about safety, but if we want to guarantee both the safety of those who welcome and that of those who are welcomed, legal channels must be opened. Talk of security won’t hold until something is done for both sides.

In 2013, after the Lampedusa shipwrecks, Mare Nostrum was launched. In 2023, after the Cutro massacre, a crackdown on immigration. The only European naval mission under discussion would serve to repel people, not save them. What happened to Italy and Europe?

They have betrayed their fundamental principles. Their constitutional charters guarantee the right to asylum. Just thinking about pushing people back into the sea before analyzing their requests for protection is a denial of the principles on which democracy is based. However, Italy was already rejecting before, between 2009 and 2010 for example. In fact it was condemned by the EU Court.

We saw corpses floating and bodies washed ashore or heard of men and women swallowed by the sea without any witnesses. Yet we continue to fail to intervene. What generates addiction?

The dehumanization of these people. Call illegal immigrants, vacationers, fake refugees and so on. Everything has been said and attempts have been made to deny the real reasons why they risk their lives. They are demonized and criminalized even before they touch the ground, equated with criminals or invading armies. The emotion and empathy generated by the 2013 shipwrecks went to naught. The criminalization of refugees and those who help them won.

You have been accused of aiding and abetting illegal immigration. What did they complain about?

I received phone calls from desperate people who were in the middle of the Mediterranean. They asked for help and I notified the competent authorities. From 2003 to 2014 the Italian coast guard, the Maltese one, the UNHCR. Then also the NGOs, who arrived to fill the void left by the States. If you see someone injured on the ground call the ambulance, it’s normal. What is absurd is being reported for this. Then the charges were dropped, but the damage was done.

What game is the Meloni government playing on immigration?

They think that by targeting the most fragile, weak and vulnerable they can stop the flows. But if you don’t address the root causes, that is, the reasons that push people to risk their lives, you won’t stop them with fines, bureaucratic obstacles or violations of their rights. Thus you only increase their suffering. Mature democracies should defend the most vulnerable, not rage against them.

«Italy and Europe have betrayed themselves regarding migrants» (italy24.press)

Essere dove bisogna stare - 10 anni dopo la Strage di Lampedusa

Mediterrana Saving Humans | Essere dove bisogna stare - 10 anni dopo la Strage di Lampedusa (mediterranearescue.org)

A 10 anni dalla Strage di Lampedusa, dove 368 persone persero la vita a pochi metri dalle coste italiane, molto è cambiato nel mondo, ma nel Mediterraneo centrale continuano a morire (oltre 2000 solo dall’inizio del 2023) a causa delle politiche securitarie e neocoloniali dell’Occidente e, in particolare, dell’Unione Europea e i suo Stati membri.

L’indignazione, la rabbia e la necessità di non rimanere indifferenti di fronte a ciò che stava accadendo nel Mediterraneo ci hanno spinto, 5 anni dopo quella terribile strage, a mettere in mare la Mare Jonio, partita per la sua prima missione la notte tra il 3 e 4 ottobre dal porto di Augusta.

Da quel molo siciliano, continuiamo ad agire spinti da quei sentimenti e quegli ideali che ci portano ad essere in Ucraina, in Marocco e presto nel Mediterraneo centrale, ma anche nelle piazze italiane ed europee (Milano, Napoli, Bologna, Venezia, Bruxelles) per contestare leggi razziste e disumane, ma anche a costruire percorsi di solidarietà e complicità con l’umanità in cammino.

Da quel giorno, siamo cresciutǝ, siamo di più con tante persone che si sono unite al nostro percorso.

Siamo sempre là dove bisogna stare.

Per ricordare la Strage di Lampedusa, vi proponiamo il testo di padre Mussie Zerai, esponente della diaspora eritrea (luogo da cui provenivano gran parte delle vittime) e tra lǝ fondatorǝ di Alarm Phone.

Lampedusa, 10 anni dopo la strage del 3 ottobre 2013

Dieci anni fa la tragedia di Lampedusa: 368 giovani vite stroncate a poche centinaia di metri dalla spiaggia, quando la libertà e un futuro migliore sembravano a un passo.

Il decimo anniversario di questa tragedia arriva proprio quando il clima politico e la prassi erigonol'ennesima barriera di morte di fronte a migliaia di rifugiati e migranti, come quei ragazzi travolti in quella grigia alba del 3 ottobre 2013. Non sappiamo se membri di questo governo e di questa maggioranza, o, più in generale, se altri protagonisti della politica degli ultimi anni, intendano promuovere o addirittura partecipare a cerimonie ed eventi in ricordo di quanto accaduto. Ma se è vero, come è vero, che il modo migliore per onorare i morti è salvare i vivi e rispettare la loro libertà e dignità, allora non avrà senso partecipare a momenti di raccoglimento e riflessione, che la data del 3 ottobre richiama, con chi da anni costruisce muri e distrugge ponti, ignorando il grido di aiuto che si leva da tutto il Sud del mondo. Se anche loro vogliono "ricordare Lampedusa", che lo facciano da soli. Che lo facciano da soli. Perché in questi dieci anni hanno cancellato, distrutto o distorto quel grande slancio di solidarietà e di pietà umana suscitato dalla strage nelle coscienze di milioni di persone in tutto il mondo.

Cosa rimane, infatti, dello "spirito" e degli impegni di allora? Nulla. Si è regrediti a un cinismo e a un'indifferenza ancora peggiori del clima politico precedente a quel terribile 3 ottobre. E, addirittura, nonostante le inchieste della magistratura, non si è ancora riusciti a capire come sia stato possibile che 368 persone abbiano trovato la morte a soli 800 metri da Lampedusa, a meno di due chilometri da un porto stipato di unità militari veloci e ben equipaggiate in grado di arrivare sul posto in pochi minuti.

L'enormità della tragedia ha richiamato l'attenzione, a causa dell'enorme impatto di 368 vite perse, su due punti in particolare: la catastrofe umanitaria di milioni di profughi che cercano salvezza attraverso il Mediterraneo; il dramma dell'Eritrea, soggiogata dalla dittatura di Isaias Afewerki, perché tutti quei morti erano eritrei.

Al primo "punto" si è risposto con Mare Nostrum, con il mandato alla Marina Militare italiana di pattugliare il Mediterraneo fino al limite delle acque territoriali libiche, per prestare soccorso alle imbarcazioni di migranti in difficoltà e per prevenire ed evitare altre stragi come quella di Lampedusa. Quell'operazione fu un vanto per la nostra Marina, con migliaia di vite salvate. Dieci anni dopo, non solo non ne è rimasto nulla, ma sembra quasi che gran parte dell'ambiente politico la consideri uno spreco o addirittura un aiuto ai trafficanti.

Resta il fatto che esattamente dodici mesi dopo, nel novembre 2014, Mare Nostrum è stata "cancellata", moltiplicando - proprio come aveva previsto la Marina Militare - i naufragi e le vittime, tra cui quelle morte nell'immensa tragedia del 15 aprile 2015, con circa 800 vittime, il più alto numero di morti mai registrato in un naufragio nel Mediterraneo. E, al posto di quell'operazione salvifica, sono state via via introdotte norme e restrizioni che nemmeno l'aumento delle vittime è riuscita a fermare, fino al punto di esternalizzare i confini della Fortezza Europa sempre più a sud, verso l'Africa e il Medio Oriente, attraverso tutta una serie di trattati internazionali, per bloccare i profughi in mezzo al Sahara, "lontano dai riflettori", prima ancora che possano arrivare a imbarcarsi sulla sponda meridionale del Mediterraneo. 

È quello che hanno creato e stanno creando accordi come il Processo di Khartoum (fotocopia del precedente Processo di Rabat), gli Accordi di Malta, il trattato con la Turchia, il patto di respingimento con il Sudan, il ricatto all'Afghanistan (costretto a "riprendersi" 80.000 rifugiati), il memorandum firmato con la Libia nel febbraio 2017 e le ultime misure di questo governo. Per non parlare della criminalizzazione delle ONG, alle quali dobbiamo circa il 40% delle migliaia di vite salvate, ma che sono state costrette a sospendere le loro attività, arrivando persino a fare pressione su Panama per revocare la bandiera di navigazione dell’Aquarius. Oggi vediamo le navi SAR costrette a navigare per innumerevoli miglia per raggiungere i porti assegnati lontani dai luoghi dei soccorsi. Il porto più vicino e sicuro previsto dal diritto marittimo internazionale è ormai lettera morta. Le tragedie si sono susseguite negli ultimi dieci anni come niente fosse, il cinismo ha soppiantato l'umanitarismo.

Per quanto riguarda i profughi eritrei, il secondo punto mostra come si sia passati dalla solidarietà alla derisione o addirittura al disprezzo, fino a chiamarli - nelle parole di autorevoli esponenti dell'attuale maggioranza di governo - "profughi in vacanza" o "migranti che fanno la bella vita", negando la realtà della dittatura di Asmara. È un processo che è iniziato subito, già all'indomani della tragedia, quando alla cerimonia funebre per le vittime, ad Agrigento, il governo ha invitato a Roma l'ambasciatore eritreo, l'uomo che rappresenta ed è la voce in Italia proprio di quel regime che ha costretto quei 368 giovani a fuggire dal Paese. Poteva sembrare una "gaffe". Invece, si è rivelata l'inizio di un percorso di progressivo avvicinamento e rivalutazione di Isaias Afewerki, il dittatore che ha ridotto in schiavitù il suo popolo, permettendogli di uscire dall'isolamento internazionale, associandolo al Processo di Khartoum e ad altri accordi, inviandogli centinaia di milioni di euro di finanziamenti, eleggendolo di fatto gendarme anti-immigrazione per conto dell'Italia e dell'Europa.

Sia per quanto riguarda i migranti in generale che per quanto riguarda l'Eritrea, a dieci anni dalla tragedia di quel 3 ottobre 2013, rimane il sapore amaro del tradimento.

- Tradita la memoria delle 368 giovani vittime e di tutti i loro familiari e amici.

- Tradite le migliaia di giovani che con il loro stesso viaggio denunciano la feroce e terribile realtà del regime di Asmara, che rimane una dittatura anche dopo la firma della pace con l'Etiopia nella lunghissima guerra di confine iniziata nel 1998.

- Tradito il grido di dolore che dall'Africa e dal Medio Oriente sale verso l'Italia e l'Europa da parte di un intero popolo di migranti costretti a lasciare la propria terra: una fuga per la vita che spesso nasce da situazioni create dalla politica e dagli interessi economici e geostrategici degli stessi Stati del Nord globale che oggi alzano barriere. Tradito, questo grido di dolore, proprio nel momento in cui si finge di non vedere una realtà evidente

Ovunque si voglia ricordare la tragedia di Lampedusa in questi giorni, sull'isola stessa o altrove, non avrà senso farlo se non si vuole trasformare questo triste anniversario in un punto di partenza per cambiare radicalmente la politica condotta negli ultimi cinque anni nei confronti di migranti e rifugiati. Gli "ultimi della terra".

Mediterrana Saving Humans | Essere dove bisogna stare - 10 anni dopo la Strage di Lampedusa (mediterranearescue.org)

Dieci anni dal naufragio di Lampedusa, una strage che poteva essere evitata

 


Dieci anni dal naufragio di Lampedusa, una strage che poteva essere evitata | Rivista Africa (africarivista.it)

Ricorre oggi il decimo anniversario del naufragio avvenuto al largo delle coste di Lampedusa il 3 ottobre 2013 e nel quale sono morte 368 persone, la maggior parte eritrei. I superstiti sono stati 155, di cui 41 minori (uno solo accompagnato dalla famiglia). Quella di Lampedusa è stata una delle più gravi catastrofi marine del XXI, certamente una delle più grandi tragedie della migrazione attraverso il Mar Mediterraneo. Altre ne sono seguite, non ultima quella più recente di Cutro, ma quel naufragio rimane uno dei punti più dolenti della storia perché fu il primo di quelle dimensioni e quello che più è rimasto impresso nella memoria collettiva.
Eppure la strage poteva essere evitata. L’imbarcazione era un peschereccio lungo una ventina di metri ed era salpato dal porto libico di Misurata il 1º ottobre 2013. La barca era giunta a mezzo miglio dalle coste lampedusane quando i motori si sono bloccati poco lontano dall’Isola dei Conigli. Due imbarcazioni di pescatori erano passate poco lontano e l’assistente del capitano, per attrarre la loro attenzione aveva dato fuoco a uno straccio imbevuto di carburante. Quando lo straccio era quasi completamente bruciato, il marinaio, per non ustionarsi la mano, l’ha lasciato cadere sul ponte. Il legno imbevuto di carburante ha preso fuoco. I passeggeri, spaventati, si sono spostati da una parte dell’imbarcazione, che si è rovesciata . La barca ha girato su se stessa tre volte prima di colare a picco. Chi si trovava sul ponte è riuscito a gettarsi in mare. Chi era sottocoperta, soprattutto, donne e bambini, non ce l’ha fatta.
Nei giorni successivi al naufragio, le famiglie dei migranti si sono trovate in difficoltà. Non riuscivano a capire se tra i morti ci fossero i loro cari. «I sopravvissuti – ricorda oggi abba Mussie Zerai, sacerdote eritreo da anni vicino ai migranti – raccontavano che i passeggeri a bordo dell’imbarcazione erano quasi tutti eritrei e tra essi c’erano solo pochi etiopi. Il governo italiano, guidato allora da Enrico Letta, si è subito offerto di organizzare uno o più voli per far rimpatriare le salme in Eritrea. Ma qui sono sorte le prime complicazioni». Il governo di Asmara allora cercava di sminuire il flusso dei migranti in uscita dal Paese probabilmente per motivi di orgoglio nazionale o di prestigio internazionale. In Eritrea, dopo la strage, la dittatura ha così vietato l’affissione dei manifesti funebri con i nomi delle vittime. Non solo, ma il governo eritreo non si è detto disponibile ad accettare il rientro dei corpi se non fosse stato accertato, con un esame del Dna, che fossero realmente eritrei. «Per l’identificazione delle salme sono giunti da tutta Europa i parenti – osserva abba Mussie -, ma è stato difficile, ad eccezione di un centinaio di corpi, identificarne l’origine. Le bare sono così state seppellite in vari cimiteri della Sicilia».
In seguito al naufragio è nato il Comitato 3 Ottobre che ha lavorato duramente per redigere il «Protocollo d’intesa per favorire il riconoscimento dei corpi senza identità dei naufragi di Lampedusa”, documento firmato dallo stesso Comitato e dal ministero degli Interni italiano. «A dieci anni dalla tragedia – commenta amaro Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 ottobre – non possiamo dire che quel protocollo sia stato applicato. In Italia sono in vigore procedure particolari, ma diverse da quelle di altri Paesi. Non c’è uniformità nel riconoscimento delle vittime. Ciò è triste, soprattutto per le famiglie».
Per i morti del naufragio si è tenuta alla fine di ottobre 2013 una cerimonia funebre ad Agrigento, ma senza bare. «Quella cerimonia è stata una beffa per le stesse vittime – dice abba Mussie -. Oltre ai religiosi cattolici, ortodossi e musulmani sono stati invitati gli esponenti del governo di Asmara. Quello stesso governo dal quale i migranti fuggivano e che non riconoscevano i morti come eritrei. Non abbiamo potuto opporci, ma è stato un momento doloroso».
Il governo italiano, scosso dall’evento, ha poi dato vita a Mare Nostrum, una missione della Marina Militare che, negli anni, ha salvato centinaia di vittime.

Dieci anni dal naufragio di Lampedusa, una strage che poteva essere evitata | Rivista Africa (africarivista.it)

«Sui migranti Italia ed Europa hanno tradito loro stesse»

 INTERVISTA. Don Mussie Zerai, il prete eritreo che aiuta chi fugge: «Non capisco come paesi che si dicono civili, democratici, di antica tradizione umanistica e cristiana possano permettere che questa strage continui»



«Il numero di don Mussie Zerai è scritto sui muri delle prigioni libiche, nei capannoni dei trafficanti, sulle pareti dei camion che attraversano il deserto», scriveva Alessandro Leogrande – giornalista e scrittore scomparso nel 2017 – in La Frontiera. Forse il libro più bello tra quelli nati dal dolore per i grandi naufragi del 2013: davanti le coste di Lampedusa il 3 ottobre, poco più lontano otto giorni dopo. Oltre 600 morti in una settimana. Mussie Zerai Yosief, prete cattolico dal 2010, era già allora un punto di riferimento per chi cercava riparo in Europa. In particolare per i suoi concittadini eritrei. Nel 2015 è stato candidato al Nobel per la pace. Due anni dopo indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dalla procura di Trapani, nell’ambito della maxi-inchiesta contro le Ong. Accuse poi archiviate. Da diversi mesi vive in Canada, dove si occupa solo di attività pastorale. Almeno per ora perché, dice, «neanche qui è tutto rose e fiori, anche se almeno esiste un sistema di accesso legale».
Don Mussie, cosa ricorda del momento in cui ha ricevuto la notizia?
Mi si è gelato il sangue. Mi hanno detto: è successo un disastro, accendi la tv. Ricordo le immagini dei corpi che venivano recuperati. Agghiaccianti. E poi l’incontro con i sopravvissuti e i familiari, quelle 368 persone chiuse dentro le bare in fila. Una sofferenza immane.
Raggiunse subito Lampedusa. Cosa la colpì?
Lo strazio, le urla, il dolore dei parenti. Lo spaesamento e i pianti continui dei sopravvissuti. Poi la solidarietà dei lampedusani, che avevano accolto i migranti in casa. I residenti soffrivano insieme a chi era arrivato da lontano.
Dieci anni dopo esiste una verità giudiziaria?
C’è stato un processo all’uomo individuato come lo scafista e sono state identificate le due barche di pescatori che si erano avvicinate senza prestare soccorso né lanciare l’allarme. Ma resta ancora molto da scoprire. È impossibile che un’imbarcazione con 500 persone sia arrivata sotto costa senza che le autorità se ne accorgessero. C’è qualcosa che non è stato detto anche sui ritardi dei soccorsi. Sopravvissuti e familiari non sono contenti di come è stata gestita la cosa: vogliono piena luce e giustizia.
Il governo non partecipa alle iniziative di ricordo del 3 ottobre. E non è la prima volta.
Il parlamento italiano ha fatto bene a istituire la «Giornata della memoria e dell’accoglienza», che speriamo diventi europea, ma le celebrazioni retoriche non servono a nulla. Ciò che causa davvero dolore è che ancora oggi si continui a morire. Né l’Italia né l’Ue hanno un dispositivo di ricerca e soccorso. Non capisco come paesi che si dicono civili, democratici, di antica tradizione umanistica e cristiana possano permetterlo. Familiari, sopravvissuti e coloro che in questi anni non hanno smesso di battersi non vogliono passerelle politiche, ma azioni concrete per proteggere la vita delle persone in fuga. Sono i paesi che hanno chiuso le porte a costringere i migranti ad affidarsi ai sensali di carne umana, ai trafficanti.
Lei come è arrivato in Italia?
Con un visto. Ho preso un aereo e sono atterrato a Roma. Nel 1992 si poteva fare. Mi considero un privilegiato perché per migliaia e migliaia di africani, anche miei connazionali, è impossibile. Manca la volontà politica di affrontare seriamente l’argomento. Si parla tanto di sicurezza, ma se vogliamo garantire sia quella di chi accoglie che quella di chi viene accolto occorre aprire dei canali legali. I discorsi sulla sicurezza non reggono finché non si fa qualcosa per ambedue le parti.
Nel 2013 dopo i naufragi di Lampedusa fu varata Mare Nostrum. Nel 2023 dopo la strage di Cutro una stretta sull’immigrazione. L’unica missione navale europea in discussione servirebbe a respingere le persone, non a salvarle. Cosa è successo all’Italia e all’Europa?
Hanno tradito i loro principi fondamentali. Le loro carte costituzionali garantiscono il diritto d’asilo. Solo pensare di respingere in mare le persone prima di analizzarne le richieste di protezione è una negazione dei principi su cui si fonda la democrazia. Comunque l’Italia respingeva già prima, tra il 2009 e il 2010 per esempio. Infatti è stata condannata dalla Corte Ue.
Abbiamo visto cadaveri galleggiare e corpi sbattuti a riva oppure saputo di uomini e donne inghiottite dal mare senza alcun testimone. Eppure si continua a non intervenire. Cosa genera l’assuefazione?
La disumanizzazione di queste persone. Chiamate clandestini, vacanzieri, finti profughi e quant’altro. Si è detto di tutto e si è cercato di negare le vere motivazioni per cui rischiano la vita. Sono demonizzate e criminalizzate ancor prima che tocchino terra, equiparate a criminali o eserciti invasori. L’emozione e l’empatia generate dai naufragi del 2013 sono finite nel nulla. Ha vinto la criminalizzazione dei profughi e di chi li aiuta.
Lei è stato accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Cosa le contestavano?
Ricevevo telefonate da persone disperate che si trovavano in mezzo al Mediterraneo. Loro chiedevano aiuto e io avvisavo le autorità competenti. Dal 2003 al 2014 la guardia costiera italiana, quella maltese, l’Unhcr. Poi anche le Ong, arrivate per colmare il vuoto lasciato dagli Stati. Se vedi qualcuno ferito per terra chiami l’ambulanza, è normale. Ciò che è assurdo è essere denunciati per questo. Poi le accuse sono state archiviate, ma il danno era fatto.
Che partita si sta giocando il governo Meloni sull’immigrazione?
Pensano che prendendosela con i più fragili, deboli e vulnerabili possano fermare i flussi. Ma se non curi le cause alla radice, cioè le ragioni che spingono le persone a rischiare la vita, non le fermerai con multe, ostacoli burocratici o violazioni dei loro diritti. Così aumenti solo le loro sofferenze. Democrazie mature dovrebbero difendere i più vulnerabili, non accanirsi contro di loro.

«Sui migranti Italia ed Europa hanno tradito loro stesse» | il manifesto

Catholic priest says migrants' rights 'trampled on every day'

 Those attempting to reach Europe suffer serious rights abuses, says Father Mussie Zerai known as guardian angel of refugees


Eritrean priest Mussie Zerai poses on Oct. 9, 2015, in Erlinsbach. Zerai, a well-known priest from Eritrea, regularly passes on distress calls on the 'Watch the Med' network. (Photo: AFP)

As the church marked the World Day of Migrants and Refugees Sept. 24, a priest who rescues migrants stuck at sea questioned the policy of both the nations from which they come and those they're trying to reach. Migrants attempting to reach Europe suffer serious human rights abuses, he said.

Father Mussie Zerai, an Eritrean priest from the Diocese of Asmara said the movement of the refugees across the Mediterranean Sea was still high, but states were barring them, despite their precarious situations.

"The states are not welcoming them. Indeed, the European Union is trying to close the gap with bilateral agreements with governments in North Africa, such as Tunisia, Algeria, Egypt and Libya," Father Zerai said, but it's not enough, he stressed.

Father Zerai, who lives in Europe and is known as the guardian angel of refugees, or the migrant priest, said that "the human rights of refugees in these (coastal African) countries are trampled on every day, but the European Union pretends not to see and not hear."

"Africa does not have enough will and political unity to defend the dignity and integrity of its children forced to die in the desert and at sea," said Father Zerai, a co-founder of Habeshia Agency, a global humanitarian organization that works with asylum-seekers and refugees.

The migrants fleeing persecution, war and more recently climate change in their countries, have been embarking on long and difficult journeys across the Sahara Desert to the North African seacoast.

Many of them are youth fleeing repression and compulsory military conscription in Eritrea or are from Somalia where extreme poverty, political instability and insecurity has forced them out. In Sudan, more are fleeing the ongoing armed conflict. Countries, including Ethiopia, Nigeria, Ivory Coast, Mali, among others, account for some refugees.

The stretch of the Mediterranean Sea between North Africa and Italy is one of the main migratory routes to Europe. In 2021, the central Mediterranean route continued to be the most used path to Europe as 67,724 migrants were detected on this route. This was a 90% increase from the previous year. A higher rate of arrivals from Libya made it the main country of departure, while more departures from Tunisian and Turkish shores also contributed to the increased migratory pressure on this route.

The 2023 numbers will certainly be higher, with nearly 126,000 migrants having arrived in Italy so far this year -- almost double the figure by the same time in 2022.

From the shores of the Mediterranean, the refugees have been setting off on horrific sea voyages using small boats known as pirogues, or narrow canoes.

Observers are warning the desert treks and the sea voyages have become more deadly. Along the desert, armed gangs or militias have been capturing, robbing and killing the migrants, while at the sea, the motorized and often-overloaded boats have been sinking, with many of them losing their lives. In June, a fishing boat capsized and sank near the coast of Greece killing at least 78 migrants.

According to the International Organization for Migration, more than 1,800 people have died this year, double last year's total, on the central Mediterranean route -- the world's deadliest.

Many of the migrants headed for the treacherous route reportedly died in the flood disaster in Libya Sept. 10. Although the exact number remains unknown, the World Health Organization said at least 400 of the refugees had lost their lives in the disaster caused by Tropical Storm Daniel.

Before embarking on the dangerous Mediterranean crossings, migrants find temporary bases in Libya. The country is at the moment hosting over 700,000 migrants, many of whom would like to reach Europe, according to the United Nations.

"Naturally, many migrants who lived in the disaster areas are double victims," said Father Zerai.

First of all "no one takes them into consideration -- they are misjudged in receiving the news, as in distribution of aid," and if they die, they are not counted in official statistics, the priest said, as he expressed his solidarity with the population affected by natural disasters in Libya and expressed his condolences to the families of the victims.

Secondly, according to the priest, people from the sub-Saharan region are often victims of racism in North African countries.

"This is why I consider refugees residing in the areas affected by natural disasters in the two North African countries as double victims," he said.

Meanwhile, refugee agency officials say that climate change is creating a new kind of migrants. Since last year, close to 120,000 refugees from the Horn of Africa countries have crossed into Kenya, according to Geoffrey Shikuku of Jesuit Refugee Service Kenya.

"That's a unique way of displacement. Previously, it has mainly been war forcing people to cross borders," said Shikuku.

Also, he explained that the global decline in funding for refugee programs was triggering new movements, with some of them moving to countries where they can get better treatment or where funding is better. Some also migrate for other reasons.

"You know of the law that has been passed in Uganda around the LGBTQI. We have those arriving in Kakuma Camp," Shikuku said, referring to one of the world's toughest anti-LGBTQ laws that was enacted in May and includes the death penalty for "aggravated homosexuality," drawing Western condemnation.

However, as the perilous migrations continue, human rights groups and relief agencies have been urging countries to address the root causes including conflict, poverty and unemployment. The groups also urged investments in sustainable development and supporting countries of origin to establish legal ways of migration.

"Many are fleeing war and political, ethnic and religious persecution. Then there are the dictatorships and poverty that cause exodus. The world's response is inadequate and late. Africa especially must take a greater effort to better protect her children, and give them more rights and freedom," Father Zerai told OSV News.

In his message for the 109th World Day of Migrants and Refugees, observed Sept. 24, Pope Francis talked about the root causes of migration.

"Migrants flee because of poverty, fear or desperation," he said. "We need to make every effort to halt the arms race, economic colonialism, the plundering of other people's resources and the devastation of our common home."

Catholic priest says migrants' rights 'trampled on every day' - UCA News