domenica 21 dicembre 2008
Il concepimento dei diritti umani
Possenti dice che la Dichiarazione universale (che fa 60 anni) resta il più grande atto etico-politico della modernità
A sessant’anni dalla sua proclamazione, “la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo resta uno dei massimi atti etico-politici della modernità, una svolta della storia mondiale che promette di conservare, anche per il futuro, una fondamentale vitalità” (nella foto, alcuni figli dello staff delle Nazioni Unite con la stesura finale della Dichiarazione nel 1948). E’ l’opinione di Vittorio Possenti, docente di Filosofia politica e direttore del Centro interdipartimentale di ricerca sui diritti umani all’Università Ca’ Foscari di Venezia, che in questi giorni promuove un convegno sui temi dei diritti umani e della libertà religiosa (tre giornate di studio, dal 4 al 6 dicembre).
Possenti dice al Foglio di non condividere l’accusa di eccesso di occidentalità, vizio di nascita e ipoteca indelebile, che alcune correnti di pensiero rimproverano alla Dichiarazione universale (vedi l’intervista a Danilo Zolo, sul Foglio del 3 dicembre): “Non è così – spiega il professore – La Dichiarazione fu preparata da una commissione che aveva al proprio interno personalità occidentali e orientali, socialisti e liberali, buddisti, induisti, atei, credenti. E tra i personaggi che più influirono nella preparazione della Dichiarazione ci fu il filosofo P. C. Chang, capo della delegazione cinese”. Semmai, “ad andare meno bene del previsto, è stata la traduzione nella realtà delle enunciazioni del 1948, in particolare nel garantire i diritti umani fondamentali. Da tante parti si sostiene che la miglior realizzazione di una società politica laica è la realizzazione più ampia possibile dei diritti umani. Vero, a patto che i modi con cui questi ultimi vengono interpretati non prendano strade troppo differenti. In prima battuta sembra che il loro linguaggio costituisca un esperanto compreso da tutti e gradito a tante orecchie. Ma un’attenzione più esercitata indica che parole come dignità, persona, libertà, diritti, veicolano significati diversi e magari divergenti”.
Diversità che si traducono sempre più frequentemente in discrepanze tra occidente e resto del mondo: “In occidente puntiamo molto sui diritti di libertà, in rapporto a una tradizione liberale che fu presente nella stesura della Dichiarazione. Ma non dimentichiamo che un diritto fondamentale come il diritto alla vita non è un diritto di libertà”. Esistono da almeno trent’anni due prospettive che si confrontano, “quella che dà una lettura libertaria dei diritti umani e quella che privilegia l’interpretazione dignitaria e personalistica. Nell’attività concreta delle agenzie dell’Onu, sono impostazioni che portano a conseguenze ben diverse. Pensiamo, per esempio, al modo di intendere la ‘salute riproduttiva’ della donna”.
Il fatto è, dice Possenti, che “la Dichiarazione non va trattata come una lista da cui scegliere i diritti che meglio fanno al caso nostro, vale a dire i diritti di libertà. Certo, l’appellarsi ai diritti di libertà civili e politici è qualcosa di immediatamente percepibile, e nell’epoca del confronto fra blocco americano e blocco sovietico era particolarmente sentito il tema dei totalitarismi e della libertà politica. Ma l’esito che ne è seguito è sconcertante. Non poche agenzie culturali, mediatiche e politiche hanno creato un insieme di frammenti iperlibertari strappati a forza dal tessuto unitario della Dichiarazione universale, e li hanno proiettati in contesti extraoccidentali dove fanno molta fatica ad attecchire. Nel frattempo, in occidente, queste avanguardie ‘libertarie’ hanno assolutizzato alcuni diritti a scapito di altri e propongono una visione che definisco ‘oltranzista’ dei diritti umani, la quale fa leva sulla nozione di uguaglianza e del rifiuto di ogni discriminazione. Suona bene, ma in concreto può significare riconoscimento di un’uguaglianza aritmetica e astratta, a prescindere dalla reale situazione in cui il soggetto si trova. Ora, se è vero che un’uguaglianza fondamentale deve essere riconosciuta alle persone per quanto concerne un notevole numero di diritti – alla vita, alla libertà religiosa, al lavoro, alla liberazione della miseria – non possiamo impiegare in maniera illimitata il criterio di uguaglianza e quello di non discriminazione, così frequentemente impiegati in questi anni come una clava per far passare ogni genere di presunti diritti, senza lederne altri, fondamentali, della persona. I criteri di uguaglianza e non discriminazione – esemplifica Possenti – risultano gravemente violati oggi in ambito bioetico quando si ricorre alla diagnosi preimpianto degli embrioni, con alcuni scelti e altri soppressi. Voglio dire che la Dichiarazione non può essere vista come una lista di garanzie assolutamente separate l’una dall’altra, da cui ciascuno estrae quella che al momento gli torna più utile. E’ invece un quadro di diritti inalienabili e interconnessi, nessuno dei quali può essere assolutizzato a spese degli altri, specialmente dei diritti fondamentali”.
Al filosofo cattolico Vittorio Possenti sta molto a cuore il tema del diritto alla libertà religiosa, “cioè il più antico diritto umano moderno: l’articolo 18 della Dichiarazione che lo riconosce è ispirato a una prassi che comincia in Europa alla fine del Cinquecento. Oggi il mancato rispetto di quella libertà è un fenomeno in crescita. Si parla di più di sessanta paesi in cui essa è negata o fortemente limitata. Pensiamo alla Cina, alla Corea del Nord, a Cuba, al Turkmenistan, a Myanmar, a molti paesi islamici, tra cui Arabia Saudita, Sudan, Eritrea. Ed è inutile nascondersi che oggi il problema del diritto a una effettiva libertà religiosa si pone in modo molto forte in relazione al mondo islamico. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo islamico, prodotta al Cairo nel 1990, la libertà di cambiare credo religioso, riconosciuta nell’articolo 18, è negata”. Scompare del resto anche nella “Dichiarazione sull’eliminazione di tutte le forme d’intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o il credo”, approvata dall’Onu nel 1981: è uno dei motivi di attrito tra Vaticano e Nazioni Unite.
Accanto alla libertà religiosa, Possenti indica, tra i diritti fondamentali da rendere pienamente operanti, “il diritto alla vita e il diritto alla famiglia e, sul piano economico, la destinazione universale dei beni a tutti gli uomini. Riemergiamo a fatica da un’epoca individualistica che ha pensato male questa destinazione universale, tenuta ben ferma dall’etica religiosa, in particolare cristiana. Non c’è enciclica moderna della dottrina sociale della chiesa, dalla Rerum novarum in avanti, che non lo ricordi”. Per quanto riguarda il diritto alla vita, Possenti rammenta che nel 1947, durante i lavori preparatori per la Dichiarazione, ci fu il tentativo della delegazione libanese, “guidata dal grande diplomatico arabo cristiano Charles H. Malik, di formulare così l’articolo 3: ‘Ogni individuo ha diritto alla vita sin dal concepimento e alla integrità corporea, alla libertà e alla sicurezza della propria persona’. La proposta allora non passò, e personalmente auspico che si arrivi ad accoglierla”. Molto si può fare, spiega ancora Possenti, “anche sul tema del monitoraggio delle violazioni dei diritti umani. Esiste una Corte penale internazionale per il genocidio e i crimini di guerra, non riconosciuta da paesi come Stati Uniti, Cina, Russia, India. Riemerge il dogma della sovranità degli stati, che al dunque rifiutano di sottostare a una corte che vorrebbe sindacare a casa loro. Un rifiuto che vedo come fattore di disordine internazionale”.
In conclusione, il professore dice che “oggi come ieri abbiamo bisogno di una cultura realistica dei diritti umani. I quali sono fondati al meglio in una filosofia a base obiettiva e realistica (parlo del realismo filosofico come quello di Tommaso d’Aquino e, in tempi più recenti, di Maritain), che non cede alle sirene del relativismo e del contestualismo, secondo cui i diritti umani sarebbero una mutevole invenzione occidentale. Ritengo che i diritti umani siano un’esplicitazione della dignità della persona, che siano fondati nella legge morale naturale e che l’uomo li possieda in virtù di essa: proprio per questo spettano a ognuno e non dipendono dal benvolere o dal capriccio del potere politico in vigore in una certa società”.
di Nicoletta Tiliacos
martedì 16 dicembre 2008
Scivolone di Fini: “Anche la Chiesa si adeguò all’infamia delle leggi razziali”
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Il Colonialismo e le leggi razziali
Alem Woldezghi * da ww2.Carta.org
A distanza di 100 anni l'Italia è ancora preda e vittima di rappresentazioni di gloria e vendetta, quando non di amnesia istituzionale rispetto al proprio passato coloniale e al contatto con l'altro: l'immaginario collettivo degli italiani sull'Africa e sugli africani resta tuttora rappreso a forme di rappresentazione esotiche e subliminali. L'Italia repubblicana non commemora il proprio passato coloniale. Sembra solo volersi disfare del proprio passato: non ama ricordare.
Eppure l'Italia democratica ha una responsabilità storica e morale nei confronti dell'ex-colonia primogenita, l'Eritrea.
I sostenitori del colonialismo sono sempre stati del parere che gli italiani, al contrario degli inglesi, hanno assunto in Abissinia un atteggiamento umano e mai razzista, anche nei momenti in cui veniva richiesta particolare durezza. Secondo gli studiosi non andò così: i massacri, la sempre presente discriminazione razziale, l'esplosione del razzismo fascista possono testimoniare il contrario. Tutto il colonialismo italiano fu caratterizzato dal razzismo e dalla sopraffazione, che sono la base di ogni conquista coloniale. Del resto intervenire contro un popolo militarmente più debole dimostra violenza e prevaricazione. E' significativa l'assoluta incomprensione sempre dimostrata nei confronti di una civiltà di antica tradizione come quella eritrea che la politica italiana mirò a distruggere radicalmente.
Su queste radici si sviluppò il razzismo fascista che, secondo me, si deve considerare una chiara estrinsecazione della violenza insita in tutto il colonialismo, un richiamo pesante e pressante per chi oggi non vuole chiudere occhi e orecchie di fronte alla tragica realtà.
Per esempio: è possibile parlare di specifici crimini sessuali del colonialismo fascista in Aoi [Africa orientale italiana]? Di sicuro sì, se per crimini sessuali si intendono in primo luogo le forme di rappresentazione delle donne eritree e il loro sfruttamento sessuale legittimati dal fascismo per coartare forza-lavoro maschile nelle colonie ma anche l'estremo dello stupro coloniale, che in certo senso era autorizzato da quelle stesse rappresentazioni. Il fascismo dichiarò: «La donna torni a essere inferiore, suddita del padre o marito...» ma anche che i cittadini italiani non potevano convivere con un suddito africano.
Non solo: anche il rovesciamento di queste rappresentazioni, conseguente alla dichiarazione dell'Impero nel maggio 1936 e poi la legge del 1937 con le sanzioni per i rapporti di «indole coniugale» fra cittadini e sudditi va letto in questo senso e porta alla luce il nesso fra politiche sessuali e razziali del colonialismo fascista. Secondo le definizioni del colonialismo fascista la donna nera era adatta solo per il sesso e quella bianca invece per il sentimento amoroso.
Già il percorso di costruzione nazionale aveva portato alla definizione di un'identità razziale per gli italiani. Con la dichiarazione dell'Impero questa identità fondata sulla purezza di sangue svolse un ruolo centrale nella definizione delle politiche coloniali: la purezza razziale, intesa in senso biologico, diventò progetto, si proiettò nel futuro.
In Italia, il passaggio da una coscienza coloniale a una imperiale ha implicato l'assolutizzare l'idea suprematista fondata sulla cosiddetta razza. Fra colonizzatori e colonizzati non erano più tollerabili incerti confini «razziali»: diventava necessaria una netta separazione sostenuta da una disciplina e un'auto-disciplina che coinvolgesse tutti gli aspetti della vita quotidiana. In questo processo l'antropologia andava acquisendo uno status che l'avrebbe portata al di là dell'ambito meramente scientifico o accademico per arrivare ad affrancare e sostenere le scelte politiche del regime di Mussolini.
Con la guerra d'Etiopia e la fondazione dell'Impero la discriminazione razziale si trasforma, da prassi, in materia giuridica diventando legge dello Stato: l'Italia, unica fra le potenze europee, si fa promotrice di una forma di segregazione razziale che non ha paragoni in Africa se non nell'esperienza dell'apartheid sud-africano. La colonia Eritrea diviene così il primo laboratorio di sperimentazione delle leggi razziali che nel 1938 saranno estese a colpire anche la comunità ebraica del Paese.
Il rapporto con l'alterità africana si basò su esclusione, violenza, sfruttamento e stragi: pagine ancora rimosse o apertamente negate, in nome di un mito fortemente radicato nell'immaginario collettivo, che continua rivendica l'atipicità italiana come se si fosse trattato di un «colonialismo dal volto umano». Non mancano in Italia seri studi storici sul colonialismo ma difficilmente hanno accesso nel circuito formativo e in quello scolastico.
A settanta anni dalle leggi razziali
La scellerata scelta di Mussolini, avallata da Vittorio Emanuele III, era di arianizzare l’Italia eliminando ogni traccia di ebraismo
MICHELE SARFATTI
Settanta anni or sono, il governo fascista introdusse in Italia un corpus legislativo che istituiva la definizione giuridica di “appartenente alla razza ebraica” e assoggettava tali persone a un gran numero di divieti, escludendole progressivamente dal Paese. Con ciò, la dittatura di Benito Mussolini, con la controfirma del re Vittorio Emanuele III, trasformò l’Italia (il Regno d’Italia), in uno “Stato razziale”, in uno Stato razzista, in uno Stato antisemita.
Qual è il significato di ciò nella storia d’Italia? Si trattò di un evento di rilevante gravità. Di una grave ferita, inferta agli ebrei, al Paese, alla società civile tutta (ovvero, anche ai non ebrei). Era la prima volta dal Risorgimento che si faceva distinzione tra cittadini e cittadini, tra italiani e italiani. Ed era la prima volta che si incardinava tale differenza sul criterio della razza, che veniva presentata come realtà scientifica esistente oggettivamente (sappiamo bene che essa non esisteva e non esiste nella realtà, ma ciò che qui interessa è riportare cosa ritenevano Mussolini e il gruppo dirigente del fascismo).
Debbo aggiungere che il vocabolo “razza” aveva fatto il suo ingresso nella legislazione italiana sin dall’inizio del Novecento, con riferimento alle popolazioni delle colonie (specie l’Eritrea, poi anche l’Etiopia). Il vocabolo ebbe inizialmente anche una funzione definitoria e poi sempre più nettamente una finalizzazione discriminatoria-persecutoria, che portò l’Italia a causare enormi torti e immensi lutti a quelle popolazioni. Tuttavia la “razzizzazione” (purtroppo si dice così) e la persecuzione degli ebrei italiani contengono un ulteriore specifico elemento di gravità: le vittime del 1938 erano pieni cittadini e perfetti residenti dello Stato che decise di perseguitarli.
L’iniziativa italiana del 1938 fu autonoma, sul piano internazionale? Nei decenni di inizio Novecento l’antisemitismo era in notevole crescita in tutta Europa e oltre Atlantico. E’ vero, molti europei e americani non partecipavano a tale processo, o lo combattevano nettamente. E non va scordato che negli anni Trenta nessuno ancora, pensando l’antisemitismo, poteva prefigurare le camere a gas di Auschwitz-Birkenau o le uccisioni di massa nelle boscaglie orientali. Ma quella crescita era in atto. Nel 1933 poi la Germania nazista aveva dimostrato concretamente che un Paese europeo dalla storia “evoluta” poteva introdurre nel proprio ordinamento una legislazione antiebraica che, mentre si riallacciava addirittura all’epoca precedente la rivoluzione francese, si presentava come “moderna”. In questo contesto, senza esservi in alcun modo obbligato o pressato, Mussolini decise in piena libertà di seguire la strada intrapresa da Adolf Hitler. E varò un corpus legislativo (ora riprodotto in www.cdec.it) che, appunto perché similare ma autonomo, in alcuni ambiti fu più grave di quello vigente in quel settembre-novembre 1938 a Berlino (ben presto il dittatore tedesco superò in gravità quei limitati primati italiani; che però mantengono la loro rilevanza storiografica).
Quale tipo di razzismo prescelse l’Italia fascista? La risposta a questa domanda è resa complessa dallo scarso spessore dell’ideologia razzista e antisemita nostrana, rispetto a quelle d’oltre Brennero. (Per inciso, ciò dimostra che non occorreva un preventivo, prorompente e diffuso odio antiebraico per giungere a decidere la persecuzione). In termini schematici, possiamo osservare che nella pubblicistica prevalsero leggermente concezioni razzistiche di ordine spirituale o nazionale, connesse tra l’altro alla nuova esaltazione della “idea” di Roma più che della “razza” latina. Ma dobbiamo tenere conto che, nella legge, la definizione di “appartenente alla razza ebraica”, sulla cui base venne deciso chi doveva essere perseguitato e chi no, fu imperniata sulla concezione razzistico-biologica. Per dirla in poche parole: il discendente di quattro nonni ebrei fu sempre classificato “di razza ebraica”, anche qualora lui stesso e magari entrambi i suoi genitori fossero battezzati. E una discendente di quattro nonni cosiddetti “ariani” poteva anche essersi convertita all’ebraismo e avere prole cresciuta ebraicamente, ciononostante per la burocrazia statale rimaneva comunque “appartenente alla razza ariana”. Gli italiani non erano persone libere di scegliere, bensì semplici contenitori e trasmettitori di materiale biologico utile o disutile alla nazione.
Quale relazione legò la legislazione antiebraica del 1938 alla consegna degli ebrei a killers specializzati stranieri del 1943-1945? Non vi fu alcun automatismo; Mussolini non cacciò nel 1938 gli ebrei dal lavoro, dall’esercito, dalla vita culturale col fine di, o comunque prevedendo di, farli deportare ad Auschwitz-Birkenau (peraltro, come detto, ancora fuori del raggio di prefigurazione degli europei dell’epoca). Mussolini voleva “solo” disebreizzare e arianizzare l’Italia. Ma gli arresti e le deportazioni attuati cinque anni dopo dall’occupante nazista e dalla Repubblica Sociale Italiana furono facilitati dal fatto che i morituri erano ormai identificati, schedati, impoveriti, separati. Nonché dal fatto che Stato e società li consideravano perseguitandi. Per questo è legittimo dire che la legislazione antiebraica si rivelò utile, funzionale, in parte necessaria, allo sterminio successivamente deciso.
* Storico, direttore del C.D.E.C.
Fascismo: Leggi Razziali in Eritre ed Etiopia 1938
Ogni anno, nella stagione in cui, nel 1938, furono brandite clamorosamente dal fascismo le armi della persecuzione contro gli ebrei, si affollano in noi i ricordi e le sollecitazioni al dovere fondamentale di non dimenticare mai i delitti che nel mondo sono stati perpetrati dal fascismo e dal nazismo, che costituiscono parte integrante della eredità storica della umanità, di ogni popolo, di ogni comunità sociale, di ogni donna e di ogni uomo che siano stati anche soltanto spettatori di tali delitti.
Come potremmo noi, in Italia, dimenticare il 5 settembre del 1938 e il decreto regio, emesso dal fascismo e promulgato dal re, per la “difesa della razza nella scuola” o come potremmo dimenticare il 7 settembre del 1938, con l’altro decreto regio, voluto dal fascismo e sempre promulgato dal re, che bandiva dal Paese, come nemici, tutti gli ebrei stranieri, oltre cinquemila, indesiderabili proprio perché e soltanto perché ebrei e, quindi, perché, essendo ebrei, erano nemici, addirittura ridotti allo stato di stranieri perché a loro veniva retroattivamente revocato il diritto di cittadinanza che ad essi era stato riconosciuto e ad alcuni addirittura sin dal lontano gennaio del 1919?
Sempre più numerosi sono i paesi che, nel mondo ed in Europa, per ricordare e non dimenticare, si dotano di una legislazione che stabilisce quale debba essere il modo corretto di ricordare un determinato evento storico e dispongono che sia punito penalmente chi tale evento storico, come, appunto, la persecuzione ebraica del fascismo e del nazismo, non rivisiti e non rievochi secondo i canoni stabiliti dalla legge.
Questo è pericoloso, perché il razzismo è uno scempio dell’anima e dell’intelligenza che non potrà mai essere efficacemente contrastato se non con la conoscenza, approfondita e non superficiale, storica e non revisionista, di quello che furono effettivamente sia il fascismo che il nazismo.
Comunque, se è opportuno che la verità non possa essere imposta per legge dello Stato, ciò non significa che la menzogna, la manipolazione, il revisionismo riduttivo della storia debbano essere tollerati come libertà democratiche e non combattuti come veleni della coscienza democratica dei popoli.
E’ importantissimo che le nazioni, gli Stati, i popoli, gli individui, culturalmente, politicamente ed eticamente riconoscano il male e la dimensione del male che nel loro paese e nel mondo è stato posto in essere.
L’immagine del leader della Germania Willy Brandt, che a Varsavia si inginocchia in silenzio davanti al monumento delle vittime e agli eroi del ghetto, così come l’immagine del Presidente della repubblica federale tedesca che a Marzabotto chiede scusa per il delitto lì commesso dalle truppe tedesche nel settembre del 1944, sono le iconografie più nobili della storia europea del dopoguerra.
Le leggi razziali sono, esse stesse e in se stesse, “leggi fascistissime”, del medesimo grado e della medesima intensità delle leggi fascistissime, liberticide varate dal fascismo nel 1924 nei confronti di tutti gli abitanti del nostro Paese, subito dopo il delitto Matteotti, dopo che la Camera dei deputati fu degradata da Mussolini al livello di un possibile bivacco delle sue camicie nere.
Con tali leggi il fascismo creò gli strumenti di repressione della stessa libertà di pensiero di tutte le donne e di tutti gli uomini residenti nel nostro Paese, affidando la repressione della libertà del pensiero a un suo privato Tribunale speciale e a un suo personale confino di polizia.
Le leggi razziali, in se stesse e per se stesse, sono leggi fascistissime perché scattano a seguito della maturazione della fascistizzazione totalitaria dello Stato, quando il fascismo può supportarle pseudoscientificamente con il coinvolgimento di scienziati e università italiani, quando può farle supinamente accettare dalla popolazione e può introdurle in istituzioni capaci di realizzarne tutte le finalità; leggi che vengono introdotte nel diritto positivo italiano quando tutti i poteri sono stati occupati e asserviti al fascismo: la monarchia, la chiesa, l’industria, l’agricoltura, il Senato, la Camera, le università, la scuola, la stampa, l’informazione.
È a questo punto che il fascismo può finalmente aggredire anche il “giudaismo”, che è andato acquistando ai suoi occhi le dimensioni e la consistenza di un nemico da abbattere, nella prospettiva che negli ebrei vede il bolscevismo, la finanza internazionale, il cosmopolitismo antinazionale.
Il problema ebraico esplode ed è aggredito perché esplicitamente accusato dal fascismo di essere antifascista e internazionalista e avversario del colonialismo, della sua nuova ideologia razziale per l’impero, della sua svolta legata a una rivoluzione antropologica globale che vuole fare degli italiani una razza di dominatori.
Il problema ebraico è assunto a problema di un nemico interno ed esterno che deve essere abbattuto.
Oggi, per molti – anche sinceramente schierati contro le leggi razziste del 1938 in Italia, a seguito del revisionismo storico in tutti questi anni posto in essere nel nostro Paese – il fascismo non appare più l’espressione di un male assoluto nel suo complesso, costituito cioè da tutta la sua storia e da tutta la sua condotta liberticida e criminale non solo di quella che va dal 1942 al 1943, ma anche di quella successiva all’8 settembre 1943 sino a comprendere anche tutta la sua storia di collaborazione criminale con il regime di occupazione dell’Italia da parte dei nazisti.
Il fascismo non appare più come un male assoluto nel suo complesso, che ha straziato l’Italia prima della guerra, durante la guerra, dopo l’armistizio sino al 25 aprile 1945, ma appare soltanto per molti come un “fenomeno complesso”, nel quale, semmai, si può rilevare soltanto una deriva liberticida, condannabile, ma limitata agli anni che vanno dal 1938 con le leggi razziali all’8 settembre, con l’ulteriore considerazione che, in ogni caso, il fascismo è rimasto sempre fuori dal “cono d’ombra” dell’olocausto.
In questo giudizio vi è una grave sottovalutazione dell’antisemitismo fascista, che fu sempre e soltanto, fin dal primo giorno, non un antisemitismo compreso e concluso in una visione spirituale, come quella che può essere stata la particolare visione di alcuni fascisti fortemente antisemiti, come Evola o Ciano, ma fu un antisemitismo biologico, nel quale lo stesso Mussolini sviluppò un ruolo centrale. Un razzismo biologico che si ricollega al colonialismo e al nazionalismo fascisti, che, nel momento in cui si accinge alla criminale avventura etiopica, introduce, nella legislazione della colonia eritrea dell’Africa orientale, il più chiaro dei razzismi biologici, con tutta una serie di violente repressioni dei rapporti degli italiani con le donne eritree, consentendo tra di loro soltanto fugaci rapporti carnali di sfogo (è questo il lessico fascista dei provvedimenti razziali coloniali) da consumarsi soltanto in postriboli segreti e segregati, con la condanna penale di qualsivoglia cenno anche il più vago a un concubinaggio tra italiani e donne eritree.
La campagna di discriminazione razziale non cominciò in Italia nel settembre del 1938, ma partì, sul piano culturale, ancor prima che politico, già nell’aprile 1934, con la circolare di Mussolini sulla censura e sul sequestro di libri banditi, tra i quali il romanzo di Mura, Maria Volpi, “Sanbadù amore negro”, che mostrava in copertina una italiana che baciava un africano nero.
L’inizio è a monte, dunque, della stessa impresa Etiopia, che era in preparazione e per la quale furono emessi decreti razzisti gravemente discriminatori e persecutori per la vecchia colonia italiana dell’Eritrea nell’Africa orientale.
È vero che Mussolini nella “informazione diplomatica“ del 5 agosto 1938 fece scrivere che “discriminare non significa perseguitare”, ma è altrettanto vero che Mussolini, nel momento stesso in cui avviò la preparazione delle leggi razziali, fece scrivere, nel Manifesto degli scienziati razzisti del 23 luglio 1938 che “la creazione dell’impero ha messo la razza italiana in contatto con altre razze, per cui deve guardarsi da ogni ibridismo e contaminazione, tanto da rendere necessario introdurre nel diritto positivo dello Stato fascista quelle leggi razziali che furono immediatamente applicate con “fascistica energia”, come si esprimeva il lessico fascista, in tutti i “territori dell’impero”. E immediatamente fu prospettato che il medesimo trattamento sarebbe stato riservato anche agli ebrei, i quali “dovunque e anche in Italia hanno costituito coi loro uomini e con i loro mezzi lo stato maggiore dell’antifascismo”.
E nella informazione diplomatica numero 18 Mussolini farà aggiungere che gli ebrei “si sono sempre ritenuti appartenenti a un’altro sangue, a un’altra razza al di sopra di ogni frontiera”, tanto da poter dire che è stata “accertata l’equazione, in questi ultimi 20 anni di vita europea, fra ebraismo, bolscevismo e massoneria”.
E tanto evidente appare che queste leggi razziali del 1938 nascono nel cono d’ombra di un fascismo incancrenitosi in venti anni in tutto il tessuto istituzionale del Paese, che alla emarginazione abbina, fin dall’inizio, la persecuzione vera e propria degli ebrei.
Di ciò vi è la prova inconfutabile nel fatto che Mussolini, quando realizza i suoi rapporti con il nazismo, per valutare quali siano i mezzi e i tempi delle persecuzione ebraica che nasce nel Reich, coeva alla persecuzione fascista e nazista, fa visitare anche il campo di Dachau dal capo della polizia italiana, il quale farà su tale visita una dettagliata relazione per il Governo italiano dell’epoca, precisando che in quel campo vi sono politici, omosessuali e “pure ebrei che hanno stuprato ragazze cristiane” e che in quel campo “gli ebrei sono confinati a tempo indeterminato solo sulla base di provvedimenti di polizia e sono sorvegliati con mezzi repressivi violenti”.
E ancora, il 23 dicembre 1938, il professor Guido Landra, dirigente dell’ufficio studi sulla razza al ministero della cultura popolare, quando compì un viaggio in Germania, vi incontrò il capo dell’ufficio razza del partito nazionalsocialista dottor Gross e il capo della scuola di educazione razziale in Germania, e vi incontrò anche Alfredo Roserbergh e lo stesso Himmler, capo della polizia tedesca, e fece anche una visita al campo di concentramento di Sachsenhausen.
Anche questa visita fu portata a conoscenza delle organizzazioni fasciste di Mussolini e alle istituzioni del Governo.
Che cosa vogliamo di più per convenire che nel cono d’ombra dell’olocausto le leggi razziali fasciste si collocarono sin dal 1938, unitamente al confino di polizia, immediatamente aperto in tutta Italia per gli ebrei?
Un ulteriore, preciso, puntuale, innegabile nesso tra le leggi razziali e il cono d’ombra dell’olocausto, già nel corso della guerra e prima dell’8 settembre 1943 è rappresentato dal provvedimento che il fascismo adotta nei confronti degli ebrei il 3 agosto 1942, con il quale, dopo averli estromessi dal diritto di cittadinanza, dopo averli privati di ogni diritto umano, trasforma gli ebrei anche in schiavi, perché li precetta per adibirli al lavoro manuale nell’interesse dell’Italia in guerra.
Un preciso e puntuale nesso tra le leggi razziali e il regime di Salò è provato dal comando formulato a Verona nel novembre 1943 dalla Repubblica Sociale di Mussolini, che stabilì che tutti gli ebrei erano nemici e dovevano essere arrestati, come in effetti furono arrestati, per essere consegnati ai nazisti, come in effetti furono consegnati, per l’internamento in quei campi, come Dachau e Sachsenhausen di cui il fascismo conosceva perfettamente l’esistenza e di cui aveva fatto preventiva conoscenza sin dal 1938.
Noi ci ricordiamo delle leggi razziali.
Ricordiamo tutto e bene, ma abbiamo il timore che il ricordo possa essere, ogni anno che passa, in qualche misura eroso, sino al punto di vederne svaniti i contorni, tanto da sfumarne la sostanza nella nebbia di un “fenomeno complesso” come da molte parti si dice e si afferma che sia stato il regime fascista.
Che sia stato, cioè un fenomeno complesso ridotto temporalmente ad una breve stagione intorno al 1938, avulso da ogni responsabilità genocida nei confronti degli ebrei.
Nel nostro Paese l’epurazione dei razzisti delle leggi del 1938 fallì.
Fallì l’epurazione di Nicola Pende, titolare della cattedra di patologia della Sapienza; fallì l’epurazione di Sabato Visco, ex capo dell’Ufficio razza del Ministero della cultura popolare; fallì l’epurazione dello zoologo Edoardo Zavattin, del demografo Franco Savorgnan, dello psichiatra Arturo Donaggio, di Guido Landra, estensore del Manifesto sulla razza, di Livio Cipriani, Lino Businco, Leone Franzi e Marcello Ricci.
Fallì l’epurazione dei razzisti e fallì la condanna dei fascisti che gestirono la macchina dell’arresto degli ebrei e della loro deportazione nei campi di sterminio nazisti.
Dio non voglia che la nostra memoria di quello che fu il fascismo veramente e di quella che fu la sua responsabilità nel secolo degli eccidi possa essere manipolata dai revisionismi del nostro tempo e possa mai affievolirsi.
Gianfranco Maris
Leggi Razziali: L’Africa Orientale Italiana
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Italo-somali: una minoranza che l'Italia vuole ignorare
Le tristi conseguenze della politica italiana coloniale e post-coloniale
Intervista a Gianni Mari, Presidente dell'ANCIS, Associazione Nazionale Comunità Italo-Somala
di Barbara Faedda (da www.diritto.it/materiali/antropologia/faedda16.html)
Il dibattito sulla convivenza multiculturale ha coinvolto - come tutti sanno - da anni anche l'Italia. Quanto il nostro paese sia per certi versi impreparato a gestire il disappunto, la insoddisfazione e la conflittualità sociali è dato piuttosto noto. Ma, mentre ci si adopera giustamente alla elaborazione di politiche multiculturali e di integrazione per quanto riguarda gli immigrati, si continua ad ignorare una presenza numericamente esigua ma moralmente e storicamente ingombrante rappresentata dagli italo-somali, cittadini italiani di "serie C". Pare che l'Italia non voglia ancora fare i conti con un suo passato relativamente recente che non si è esaurito con la colonizzazione del Corno d'Africa e con il fascismo: non si può, infatti, mantenere nell'oblio l'esperienza legata all'Amministrazione Fiduciaria affidata all'Italia dalle Nazioni Unite dal 1950 al 1960.
Questa intervista - soprattutto perché rivolta ad un protagonista nonché testimone diretto - vuole offrire un contributo affinché non si dimentichi e si rifletta su una parte di storia italiana e africana dalla quale il nostro paese non può emendarsi. Allo stesso tempo, con una visione tipicamente antropologica, ci si auspica un reale impegno scientifico per il raggiungimento di un totale e consapevole rispetto dell'identità culturale italo-somala e del desiderio di tale minoranza [1] di preservarla e arricchirla.
Si intende, con questo primo contributo, lanciare una proposta di riflessione su quella che possiamo chiamare sicuramente "la questione italo-somala". Una minoranza viva e presente in Italia cui, soprattutto gli studiosi e gli intellettuali, non possono non rivolgere la loro attenzione. (L'intervista ha avuto luogo il 16 novembre 2001 nello "Studio Legale Associato Chiari-Zappasodi" in Roma alla presenza degli Avv.ti R. Chiari e L. Melchionna).
Domanda: Signor Mari cosa è l'ANCIS?
Risposta: L'ANCIS è l'Associazione Nazionale Comunità Italo-Somala, che raccoglie i figli di padri o madri italiani, tutti comunque cittadini italiani. L'associazione è aperta anche a somali e italiani che ne vogliano far parte. Censite sono 614 persone, con l'esclusione di mogli e figli. I figli non sono stati conteggiati perché la specificità dell'associazione è quella di essere proprio italo-somali. Siamo presenti in tutta Italia, in numero considerevole nel Triveneto, Lombardia, Piemonte e Lazio.
D.: Come si pone lo Stato italiano nei confronti della vostra Associazione?
R.: Lo Stato italiano in tutte le sue istituzioni non si è mai confrontato fattivamente con l'ANCIS. Abbiamo avuto molti colloqui con il Ministero degli Esteri, che ci ha a sua volta rimandato al Ministero degli Interni dicendo: "anche se siete nati all'estero, voi siete italiani e la sede istituzionale di confronto è il Ministero degli Interni ".
D.: Lei è nato all'estero?
R.: Siamo tutti nati a Mogadiscio o in Somalia.
D.: L'Associazione è riconosciuta?
R.: L'ANCIS esiste di fatto da sei anni, regolarmente registrata davanti ad un notaio. E' la controparte istituzionale che è latitante...Stiamo cercando di farla riconoscere. Abbiamo fatto innumerevoli richieste ai Comuni di Roma e Milano e alle Regioni Lazio e Lombardia, però per essere riconosciuti bisogna sottostare a procedure e a decreti leggi diversi da regione a regione - nel Lazio è la Legge 29/93 e la 18/96.
Dapprima al Ministero degli Esteri ci ricevevano i sottosegretari, ultimamente i capiufficio. Di questo passo finirà che ci riceveranno le segretarie (senza mancare di rispetto alla figura della segretaria) e neanche più alla sala vip... In ogni caso, quando andiamo agli incontri non si parla mai di ciò di cui si dovrebbe parlare, cioè di ODG con le problematiche che poniamo e concordiamo. In uno dei nostri incontri, velatamente ci proposero di fare intelligence, una cosa che non sta né in cielo né in terra. Non siamo spie.
Siamo somali di madre, provenienti da una società a cultura tribale; anche se le nostre madri appartengono a tribù differenti l'una dall'altra, loro per prime si sono unite per riconoscerci nella nostra specificità di italo-somali, superando di conseguenza le rivalità tribali. Non ci poniamo il problema tribale. In questo senso siamo molto solidali e così le nostre madri. Le mamme riconoscono il fatto che siamo tutti, comunque, figli di italiani.
Quando noi proponemmo al Ministero degli Esteri questa specificità, loro risposero: "la diplomazia italiana ha un suo corso politico: non ha bisogno di doppioni in Somalia". Quello che chiediamo è di aiutare la diplomazia italiana a capire e gestire meglio questa situazione, non di porci in termini di doppioni o antagonisti. Sono passati cento anni dalla colonizzazione della Somalia: gli italiani tuttora continuano a non capire nulla dei somali. Si continuano a fare gli stessi errori. Nel 1990, all'inizio della guerra civile, la diplomazia italiana sbagliò: l'Ambasciatore Mario Sica e il Ministro degli Esteri De Michelis sostennero che Siad Barre dovesse rimanere Presidente. La diplomazia italiana non aveva colto l'evidenza che vi era una rivolta generale in tutto il paese contro un regime dittatoriale e quel governo era sostenuto dalla Farnesina. I somali lo ricordano.
D.: Cosa chiedete esattamente allo stato italiano?
R.: Molti di noi sono rientrati nelle leggi razziali (200 circa sono anziani, nati fra il 1920 e il 1940) e si dice addirittura che le leggi razziali non fossero indirizzate specificamente ed esclusivamente agli ebrei, quanto soprattutto finalizzate ad evitare il "meticciato". Un problema che era esploso nel 1926 quando il Governatore della Somalia, De Vecchi di Val Cismon, informò Federzoni, Ministro delle Colonie, che era necessario prendersi cura di questi figli di compatrioti perché erano pure fratelli di altri italiani. Oltre al Governatore, vi erano altre personalità del Regime fascista coloniale che si opponevano all'atteggiamento del governo centrale verso i meticci e alla loro posizione giuridica che non era chiara né in armonia con la giustizia italiana, tra cui Alberto Pollera, già funzionario coloniale ai cui figli era negato il diritto di diventare italiani, che si appellò al Duce sostenedo che bisognava punire i genitori e non i figli.
Prima del 1936, ai bambini nati da padri italiani e donne somale era estesa la cittadinanza italiana se il padre li avesse riconosciuti come figli; ciò valeva anche per quei bambini i cui tratti fisici indicavano che uno dei genitori era bianco. La nuova legge n° 1019 del 1/06/1936 mancava di un riferimento ad essi ed era interpretata nel senso di estinguere il privilegio per la Somalia e Eritrea. La legge del 13/05/1940 (n.882) dichiarò esplicitamente che tutti i mulatti dovevano essere considerati sudditi: essi assumevano lo status del genitore indigeno e non potevano essere riconosciuti dal genitore italiano e portarne il cognome. Quella legge tuttavia disponeva che gli 800 meticci che avevano acquistato la cittadinanza prima del 1936 fossero riconosciuti come italiani.
Molti italo-somali, già cittadini italiani, in quel periodo furono messi da parte e sottoposti a discriminazione a causa delle nuove leggi razziali, sebbene ci fosse nell'impero italiano una distinzione tra somali, etiopi ed eritrei. I somali, infatti, erano "cittadini Somali" al pari degli "eritrei", non sudditi coloniali come invece gli etiopi.
Nel libro "Il colonialismo italiano in Etiopia 1936-1940" di Alberto Sbacchi, nel capitolo IV - RAZZISMO DI STILE ITALIANO da pag. 217 a 241, edito da Mursia, e a pag. 236 si riporta il risentimento di un Mussolini irato che diceva a Ciano: "Guarda che con questa storia dei meticci avete proprio stufato! Bisogna sterminarli tutti!
Per i maschi meticci l'intenzione era quella di mandarli nelle zone malsane, a fare gli agricoltori, quasi con la speranza che si ammalassero e morissero, mentre le femmine venivano istruite circa il cucito e l'economia domestica affinché potessero diventare, una volta giunte in Italia, brave cameriere e domestiche nelle case dei gerarchi. Fortunatamente così non è andata ...
Ma è proprio con la nascita della Repubblica Italiana e il subentro dell'AFIS [3] (con la risoluzione del 21.11.1949 l'ONU dava all'Italia un mandato decennale, un'associazione fiduciaria, che accompagnasse la Somalia fino all'indipendenza) - che in Somalia vi fu il vero boom delle nascite di italo/somali.
Molti italiani inviati in Somalia in quel periodo e con precisi compiti erano persone in maggioranza sposate e con la loro vita in Italia, eppure hanno avuto altri figli con donne somale. E pensare che con l'AFIS l'Italia si era proposta di riparare ai danni compiuti durante il fascismo in Somalia, mentre di fatto in Somalia, si continuavano ad applicare le leggi razziali del periodo fascista, pur essendo l'Italia all'epoca già diventata Repubblica.
Tant'è vero che, al momento della nascita dei bambini con padre italiano, le madri dichiaravano la parternità e così veniva segnalata l'appartenenza del neonato alla cosiddetta "etnia euro-africana", come era definita in quel periodo; essi venivano registrati in un registro a parte. Ritrovare questi documenti è particolarmente difficile ora perché la Somalia è stata letteralmente distrutta, soprattutto nella parte più rilevante delle trascrizioni anagrafiche.
Questo perché la maggior parte delle registrazioni delle nascite di questi bambini veniva segnalata alla chiesa cattolica presente in Somalia. La nostra registrazione di nascita sta lì. Nei collegi [4] dove venivano tenuti questi bambini italo-somali avveniva un fatto particolare (soprattutto nel collegio di Brava): di volta in volta venivano affisse le comunicazioni dell'avvenuto cambiamento "ufficiale" dei cognomi di alcuni bambini.
D.: E questo perché?
R.: Perché evidentemente erano figli di padri sposati e quant'altro. Prima di arrivare a Mogadiscio, il bambino doveva abituarsi al nuovo cognome.
D.: A chi apparteneva questo secondo cognome?
R.: Era inventato. Totalmente.
D.: E del padre naturale, se mai se ne avesse avuto traccia, cosa accadeva?
R.: Per molti ragazzi che, fortunatamente, fino ad allora avevano traccia del padre naturale subentrava una rottura definitiva. Questi ragazzi non venivano considerati né cittadini somali né cittadini italiani: di fatto erano "apolidi". E molti sono rimasti apolidi: venivano portati in Italia con i lasciapassare e rinchiusi in collegi con le sbarre alle finestre. Possiamo civilmente considerarla deportazione? Non era una deportazione. Ma quasi... Un bimbo di pochi anni strappato al suo genitore naturale per chiuderlo in un collegio è abberante.
D.: Quando avveniva il cambio anagrafico?
R.: Come detto, nei collegi venivano affissi ogni tanto gli elenchi di tutti coloro che, non avendo ricevuto il riconoscimento della paternità, automaticamente subivano il cambiamento del cognome. Ma c'era di peggio. Per coloro i quali vi era un riconoscimento da parte del padre italiano, scattava la "cancellazione" del nome materno: il bambino diventava quindi figlio del Sig. Tizio, ma di "madre ignota". O avevi un padre ... o avevi una madre si riferivano alla leggi precedenti del fascismo. Impossibile la registrazione ufficiale di entrambi. Questo fino agli anni sessanta.
D.: Quale percentuale di quei bambini compone oggi l'Associazione?
R.: Direi un 60%. La maggior parte dei nostri associati è nata tra il 1948 e il 1960, quindi assolutamente dopo le famose leggi razziali. Il numero di italo-somali inizia a diminuire con gli anni sessanta e con l'indipendenza della Somalia. Per riassumere: il grande numero di nascite "miste" coincide proprio con l'arco di tempo che va dalla Repubblica italiana all'indipendenza somala [5].
Per iniziare a parlare di cittadinanza italiana (per la maggior parte dei ragazzi) dobbiamo riferirci alla visita di Aldo Moro a Mogadiscio (non ricordo se allora fosse Presidente del Consiglio o Ministro degli Esteri), prima della rivoluzione che ci fu in Somalia nel 1969.
D.: Che richieste avanzate allo stato italiano?
R.: Durante gli incontri avuti con il Ministero degli Esteri abbiamo chiesto di riconoscere la nostra storia e la nostra situazione ed approntare una sorta di risarcimento, che, badate bene, non è monetizzabile. Noi non chiediamo risarcimento in denaro. Abbiamo chiesto di istituire un ente morale gestito dagli italo-somali che sia presente a Mogadiscio, per rappresentare la storia e la specificità degli italo-somali che sono la più piccola Comunità presente oggi in Italia.
Sebbene la maggior parte di noi sia perfettamente integrata, ha una famiglia e un lavoro regolare, vi sono alcuni che ancora vivono lo choc e il trauma psicologico subiti nell'infanzia: nei collegi si era comunque "figli del peccato" e la vita non era facile... Quando poi questi stessi giovani uscivano dai collegi - dove vi ricordo che l'educazione era assolutamente e rigorosamente cattolica e in lingua italiana - incontravano coetanei e compaesani che, ovviamente, parlavano il somalo e convivevano senza limitazione con la cultura materna. Questi ragazzi che vivevano nei collegi erano spaesati e confusi nella loro terra natia. Molti italo-somali non sapevano parlare la loro lingua materna. La cultura originale non esisteva più: era stata completamente sradicata, rimossa e cancellata. Erano stati educati oramai a sentirsi "figli di italiani" e diversi. Quando poi arrivavano in Italia, subivano la discriminazione di essere considerati "neri", africani. Scoprivano che non erano neanche italiani. In Somalia erano bianchi; in Italia sono neri.
D.: Avete mai fatto un censimento interno attraverso i documenti e la storia di ognuno?
R.: Stiamo cercando di raccogliere la documentazione. Ma non tutti hanno una documentazione completa.
D.: State studiando azioni sia a livello nazionale che internazionale. Come vi muoverete?
R.: L'ultima volta che siamo andati al Ministero degli Esteri ci hanno detto: "se volete proprio creare un caso, ponetelo in termini politici. Andate da uno sponsor del parlamento italiano, presentate la questione e ponete la questione in termini politici".
Ovviamente, per noi il problema della cittadinanza non si pone: noi siamo tutti cittadini italiani. Ecco perché siamo stati rimandati al Ministero degli Interni...
Il fatto che inizialmente il nostro interlocutore fosse il Ministero degli Esteri dipendeva dall'esperienza precedente di un'altra associazione denominata APIS - Associazione Profughi Italo-Somali - che era un'altra organizzazione, diversa dalla nostra. Si trattava di una associazione formata, a suo tempo, con scopi risarcitori nei confronti dello stato italiano che nel 1990 aveva evacuato dalla Somalia, a causa della guerra civile, tutti gli italiani che quindi avevano lasciato casa, lavoro e i loro averi. Dopo oltre dieci anni l'APIS ancora aspetta una concreta risposta risarcitoria dallo Stato italiano...
Il nostro avvocato, un italo-somalo che vive e lavora a Londra, sta studiando cause internazionali collegate al cosiddetto "meticciato", soprattutto nei rapporti con le legislazioni inglesi e francesi di nota tradizione coloniale. Egli intende approntare una buona base giuridica per poter successivamente avanzare una solida azione legale, soprattutto tenendo presente e conto degli ultimi sviluppi avvenuti alla Conferenza sul razzismo di Durban.
D.: Prevedete di avanzare un'azione legale allo stato italiano?
R.: Abbiamo pensato che se l'Italia non provvederà da un punto di vista legislativo alla nostra questione, è praticamente inutile sottoporre un'azione legale. Non abbiamo con l'Italia nessuna chance giuridica. Non essendoci nessun provvedimento legislativo sul meticciato di conseguenza il problema per l'Italia non esiste. Il nostro caso va portato davanti al Tribunale Internazionale per poi passare alla Corte Europea. Con le sentenze esecutive di questi tribunali potremo rivolgerci poi ai tribunali italiani.
A onor del vero abbiamo un'interrogazione parlamentare in corso risalente alla precedente legislatura, indirizzata al Ministero degli Esteri retto dal ministro Dini, che non ha avuto seguito. L'interrogazione era stata presentata dall'on. Landi di Chiavenna di An che ora la ripresenterà. Speriamo... ora al governo c'è il centrodestra.
D.: Per quanto riguarda il discorso religioso, c'è qualcuno di voi che è tornato alla fede musulmana?
R.: A Genova ci sono stati un paio di casi: in generale si contano - come vede - sulle dita di una mano. Siamo comunque tutti cattolici.
D.: Foste battezzati tutti da bambini?
R.: Era il primo passo che si faceva.
D.: Che rapporti avete oggi con la Somalia?
R.: La maggior parte di noi non parla somalo. Forse qualcuno lo capisce, ma non lo parla. Siamo sradicati. Qualcuno mantiene ancora rapporti di parentela materna.
D.: Esiste in Somalia una comunità di italo-somali?
R.: No. Oggi no. Dal 1990 non esiste più.
D.: E le autorità somale? L'Ambasciata in Italia?
R.: Bisogna dire che sono undici anni che non esiste la Somalia. L'ambasciata somala è solo un punto di ritrovo per i somali; non vi è ambasciatore, non vi è uno stato democratico somalo. E' rimasto il vecchio ambasciatore che si fregia di questo titolo ma non lo è più.
Il fatto è che se dobbiamo chiedere un documento o un certificato andiamo nei rispettivi comuni di residenza, come tutti i cittadini italiani. Ben 153 metri lineari di documenti dell'AFIS sono negli archivi del Ministero degli Esteri. A noi interessa individuare i documenti che attestano l'accordo e le intese tra il Vicariato e il governo italiano. Altrimenti non si spiega perché siano stati tolti tanti figli alle proprie madri sotto la giustificazione, spesso falsa, che queste madri fossero indigenti. Su dieci nati nove passavano per il collegio... mi sembra un po' squilibrato il rapporto ... C'è qualcosa di strano che mi sfugge ...
D.: Il Vicariato in Somalia ora non c'è più...
R.: La sede del Vicariato è stata bombardata e rasa al suolo con le due chiese esistenti a Mogadiscio all'inizio della guerra civile. Sono rimaste poche suore che operano come volontarie. La Somalia è oggi "terra di nessuno".
D.: Il processo di sradicamento culturale è stato totale? Nei collegi dove andavate voi c'erano bambini che fossero figli esclusivamente di somali?
R.: C'erano ma non erano più somali: erano stati cattolicizzati anche loro. Nel collegio di Baidoa anche ai bambini esclusivamente somali veniva dato un un nome cattolico. Da Baidoa passavano poi a Mogadiscio: era un processo inverso. Essendo somali, loro si trovavano - se possibile - in una posizione peggiore rispetto alla nostra: erano neri, somali e non parlavano più la loro lingua e non professavano più la loro religione. Ce ne stanno molti di questi casi, ma non sono venuti in Italia. Sono rimasti in Somalia.
D.: Per tirare le somme, oggi voi che siete cittadini italiani siete più trascurati dallo stato rispetto, ad esempio, agli immigrati?
R.: Noi siamo "extracomunitari con passaporto italiano".
D.: Avete scritto lettere a sindaci ed assessori?
R.: Abbiamo scritto ai diversi sindaci che si sono avvicendati a Roma, così come a molti assessori, chiedendo anche una sede ufficiale.
D.: Avete inoltrato una stessa lettera anche all'attuale sindaco?
R.: No. Ci abbiamo rinunciato. Pare che la Regione Lazio sia stata un po' più attenta rispetto al Comune. Il presidente Storace ci ha fatto ricevere dal capo del gabinetto, un generale in pensione, che ci ha chiesto perché insistiamo tanto con una localizzazione della questione. Abbiamo risposto che vogliamo, non solo ragionare in termini europei, ma anche conquistare il riconoscimento di una storia contemporanea della Repubblica italiana che nessuno vuole ammettere. Al di là di aspetti storiografici, culturali e di ricordi che stanno a cuore più alla nostra Comunità che al resto del paese qualcuno potrebbe obiettare: ma questi italo/somali cosa vogliono? In Italia c'è una moltitudine di matrimoni misti e non si creano problemi ne risarcimenti morali etc etc. Vero! La società italiana odierna ha superato tante volte molti di questi aspetti, ma ... sono matrimoni voluti e non imposti con l'inganno, la sopraffazione, il colonialismo. Questa è la differenza sostanziale della storia degli italo/somali, italo/eritrei e italo/etiopi.
La Costituzione repubblicana della Somalia si rifaceva ai Regi Decreti dello stato italiano. In essa vi erano delle postille che escludevano gli italo-somali da ogni ruolo amministrativo di un futuro governo somalo. Motivarono ciò sottolineando che noi italo-somali eravamo più colti ed istruiti rispetto ai somali che erano in via di formazione: ciò non era assolutamente vero perché io personalmente ricordo miei coetanei studenti che successivamente entrarono nella diplomazia e nei ruoli dirigenziali della Somalia e vi assicuro che non erano né meno dotati né meno abili. Se fossi rimasto in Somalia e avessi voluto partecipare alla vita pubblica somala sappiate che ciò non sarebbe stato possibile né fattibile: vi era un invisibile veto. In passato, prima della guerra civile, chiedemmo di prevedere nella nuova costituzione somala la doppia cittadinanza per gli italo/somali.
Di noi non si parla e quando se ne dovrebbe parlare succedono fatti o avvenimenti più grandi e l'attenzione viene rivolta sempre altrove, come successe con la famosa missione IBIS [6], la morte della povera Ilaria Alpi, Ben Laden e la Barakaat oggi e così via ...
Gli italo/somali sono una realtà, e direi il frutto proibito, della lunga relazione coloniale dell'Italia e della Somalia. Gli italiani non conoscono la nostra situazione.
Molti non sanno neanche che la Somalia è stata una colonia italiana... Ci si chiede e si chiede - a 50 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, dopo aver riconosciuto gli errori razziali commessi contro gli ebrei italiani, 40 anni dopo l'AFIS - che paura possa avere uno Stato democratico e forte come l'Italia repubblicana di oggi a riconoscere i propri errori e a riconoscere senza preclusioni il male che è stato fatto agli italo/somali, la più piccola minoranza dello stato italiano.
Barbara Faedda
NOTE:
[ 1 ] La definizione di minoranza forse più nota è quella elaborata nel 1977 da Francesco Capotorti: "Con il termine minoranza viene designato un gruppo che è numericamente inferiore al resto della popolazione di uno stato, in una posizione non dominante, i cui membri, essendo cittadini dello stato, possiedono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche che differiscono da quelle del resto della popolazione e mostrano, quanto meno implicitamente, un senso di solidarietà inteso a preservare la loro cultura, le tradizioni religiose o la lingua".
[ 3 ] Sull'AFIS si riporta così come dal sito ufficiale www.italosomali.org/afis.htm: "C'è un lato oscuro della recente storia italiana post bellica. Esattamente, ci riferiamo alla Amministrazione Fiduciaria affidata all'Italia dalle Nazioni Unite nel 1950 e proseguita fino alla indipendenza della Somalia, sia britannica il 26 giugno 1960, che italiana al 1 luglio 1960. Questa documentazione recente è tutt'ora sotto chiave e chiusa al pubblico presso il Ministero degli Affari Esteri italiano. Tale documentazione è un insieme di atti che andrà letto, capito e interpretato in maniera scientifica, seria, attenta e scrupolosa. In questi atti, sicuramente, c'è una fetta importante che riguarda la Comunità Italo/Somala e ci riproponiamo di poter accedere a questa documentazione e di monitorizzarla in tutti i dettagli".
[ 4 ] I collegi erano essenzialmente tre: Ionte, dove stavano i bambini più piccoli, da tre mesi a tre anni; Braava, per i bambini fino alla quinta elementare; Mogadiscio, per le scuole medie e il Liceo.
[ 5 ] La Somalia diventa indipendente e nasce come Stato sovrano il 1° luglio 1960. Cessa in quel momento l'amministrazione fiduciaria italiana.
[ 6 ] Sulla missione italiana denominata "IBIS" si rimanda, tra i tanti, all'articolo "Somalia. Le nuove foto della vergogna" di M. Gregoretti, pubblicato da Panorama il 13 giugno 1997. Nello stesso sito ufficiale dell'ANCIS è consultabile un amaro articolo di commento alle decisioni della Corte d'Appello di Firenze relative agli illeciti compiuti dai militari italiani dal titolo "Tutti assolti, anche l'unico soldato inquisito nella missione IBIS. Nessun colpevole tra i militari italiani dell'operazione: la giustizia e i diritti umani irrisi e calpestati da una "forza di pace" in casa propria".
L'autrice dell'intervista è Barbara Faedda. La rivista che ospita l'articolo è la Rivista giuridica telematica "Diritto&Diritti", diretta dal magistrato F. Brugaletta all'indirizzo www.diritto.it/materiali/antropologia/faedda16.html.
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