domenica 21 dicembre 2008

Il concepimento dei diritti umani

Possenti dice che la Dichiarazione universale (che fa 60 anni) resta il più grande atto etico-politico della modernità A sessant’anni dalla sua proclamazione, “la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo resta uno dei massimi atti etico-politici della modernità, una svolta della storia mondiale che promette di conservare, anche per il futuro, una fondamentale vitalità” (nella foto, alcuni figli dello staff delle Nazioni Unite con la stesura finale della Dichiarazione nel 1948). E’ l’opinione di Vittorio Possenti, docente di Filosofia politica e direttore del Centro interdipartimentale di ricerca sui diritti umani all’Università Ca’ Foscari di Venezia, che in questi giorni promuove un convegno sui temi dei diritti umani e della libertà religiosa (tre giornate di studio, dal 4 al 6 dicembre). Possenti dice al Foglio di non condividere l’accusa di eccesso di occidentalità, vizio di nascita e ipoteca indelebile, che alcune correnti di pensiero rimproverano alla Dichiarazione universale (vedi l’intervista a Danilo Zolo, sul Foglio del 3 dicembre): “Non è così – spiega il professore – La Dichiarazione fu preparata da una commissione che aveva al proprio interno personalità occidentali e orientali, socialisti e liberali, buddisti, induisti, atei, credenti. E tra i personaggi che più influirono nella preparazione della Dichiarazione ci fu il filosofo P. C. Chang, capo della delegazione cinese”. Semmai, “ad andare meno bene del previsto, è stata la traduzione nella realtà delle enunciazioni del 1948, in particolare nel garantire i diritti umani fondamentali. Da tante parti si sostiene che la miglior realizzazione di una società politica laica è la realizzazione più ampia possibile dei diritti umani. Vero, a patto che i modi con cui questi ultimi vengono interpretati non prendano strade troppo differenti. In prima battuta sembra che il loro linguaggio costituisca un esperanto compreso da tutti e gradito a tante orecchie. Ma un’attenzione più esercitata indica che parole come dignità, persona, libertà, diritti, veicolano significati diversi e magari divergenti”. Diversità che si traducono sempre più frequentemente in discrepanze tra occidente e resto del mondo: “In occidente puntiamo molto sui diritti di libertà, in rapporto a una tradizione liberale che fu presente nella stesura della Dichiarazione. Ma non dimentichiamo che un diritto fondamentale come il diritto alla vita non è un diritto di libertà”. Esistono da almeno trent’anni due prospettive che si confrontano, “quella che dà una lettura libertaria dei diritti umani e quella che privilegia l’interpretazione dignitaria e personalistica. Nell’attività concreta delle agenzie dell’Onu, sono impostazioni che portano a conseguenze ben diverse. Pensiamo, per esempio, al modo di intendere la ‘salute riproduttiva’ della donna”. Il fatto è, dice Possenti, che “la Dichiarazione non va trattata come una lista da cui scegliere i diritti che meglio fanno al caso nostro, vale a dire i diritti di libertà. Certo, l’appellarsi ai diritti di libertà civili e politici è qualcosa di immediatamente percepibile, e nell’epoca del confronto fra blocco americano e blocco sovietico era particolarmente sentito il tema dei totalitarismi e della libertà politica. Ma l’esito che ne è seguito è sconcertante. Non poche agenzie culturali, mediatiche e politiche hanno creato un insieme di frammenti iperlibertari strappati a forza dal tessuto unitario della Dichiarazione universale, e li hanno proiettati in contesti extraoccidentali dove fanno molta fatica ad attecchire. Nel frattempo, in occidente, queste avanguardie ‘libertarie’ hanno assolutizzato alcuni diritti a scapito di altri e propongono una visione che definisco ‘oltranzista’ dei diritti umani, la quale fa leva sulla nozione di uguaglianza e del rifiuto di ogni discriminazione. Suona bene, ma in concreto può significare riconoscimento di un’uguaglianza aritmetica e astratta, a prescindere dalla reale situazione in cui il soggetto si trova. Ora, se è vero che un’uguaglianza fondamentale deve essere riconosciuta alle persone per quanto concerne un notevole numero di diritti – alla vita, alla libertà religiosa, al lavoro, alla liberazione della miseria – non possiamo impiegare in maniera illimitata il criterio di uguaglianza e quello di non discriminazione, così frequentemente impiegati in questi anni come una clava per far passare ogni genere di presunti diritti, senza lederne altri, fondamentali, della persona. I criteri di uguaglianza e non discriminazione – esemplifica Possenti – risultano gravemente violati oggi in ambito bioetico quando si ricorre alla diagnosi preimpianto degli embrioni, con alcuni scelti e altri soppressi. Voglio dire che la Dichiarazione non può essere vista come una lista di garanzie assolutamente separate l’una dall’altra, da cui ciascuno estrae quella che al momento gli torna più utile. E’ invece un quadro di diritti inalienabili e interconnessi, nessuno dei quali può essere assolutizzato a spese degli altri, specialmente dei diritti fondamentali”. Al filosofo cattolico Vittorio Possenti sta molto a cuore il tema del diritto alla libertà religiosa, “cioè il più antico diritto umano moderno: l’articolo 18 della Dichiarazione che lo riconosce è ispirato a una prassi che comincia in Europa alla fine del Cinquecento. Oggi il mancato rispetto di quella libertà è un fenomeno in crescita. Si parla di più di sessanta paesi in cui essa è negata o fortemente limitata. Pensiamo alla Cina, alla Corea del Nord, a Cuba, al Turkmenistan, a Myanmar, a molti paesi islamici, tra cui Arabia Saudita, Sudan, Eritrea. Ed è inutile nascondersi che oggi il problema del diritto a una effettiva libertà religiosa si pone in modo molto forte in relazione al mondo islamico. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo islamico, prodotta al Cairo nel 1990, la libertà di cambiare credo religioso, riconosciuta nell’articolo 18, è negata”. Scompare del resto anche nella “Dichiarazione sull’eliminazione di tutte le forme d’intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o il credo”, approvata dall’Onu nel 1981: è uno dei motivi di attrito tra Vaticano e Nazioni Unite. Accanto alla libertà religiosa, Possenti indica, tra i diritti fondamentali da rendere pienamente operanti, “il diritto alla vita e il diritto alla famiglia e, sul piano economico, la destinazione universale dei beni a tutti gli uomini. Riemergiamo a fatica da un’epoca individualistica che ha pensato male questa destinazione universale, tenuta ben ferma dall’etica religiosa, in particolare cristiana. Non c’è enciclica moderna della dottrina sociale della chiesa, dalla Rerum novarum in avanti, che non lo ricordi”. Per quanto riguarda il diritto alla vita, Possenti rammenta che nel 1947, durante i lavori preparatori per la Dichiarazione, ci fu il tentativo della delegazione libanese, “guidata dal grande diplomatico arabo cristiano Charles H. Malik, di formulare così l’articolo 3: ‘Ogni individuo ha diritto alla vita sin dal concepimento e alla integrità corporea, alla libertà e alla sicurezza della propria persona’. La proposta allora non passò, e personalmente auspico che si arrivi ad accoglierla”. Molto si può fare, spiega ancora Possenti, “anche sul tema del monitoraggio delle violazioni dei diritti umani. Esiste una Corte penale internazionale per il genocidio e i crimini di guerra, non riconosciuta da paesi come Stati Uniti, Cina, Russia, India. Riemerge il dogma della sovranità degli stati, che al dunque rifiutano di sottostare a una corte che vorrebbe sindacare a casa loro. Un rifiuto che vedo come fattore di disordine internazionale”. In conclusione, il professore dice che “oggi come ieri abbiamo bisogno di una cultura realistica dei diritti umani. I quali sono fondati al meglio in una filosofia a base obiettiva e realistica (parlo del realismo filosofico come quello di Tommaso d’Aquino e, in tempi più recenti, di Maritain), che non cede alle sirene del relativismo e del contestualismo, secondo cui i diritti umani sarebbero una mutevole invenzione occidentale. Ritengo che i diritti umani siano un’esplicitazione della dignità della persona, che siano fondati nella legge morale naturale e che l’uomo li possieda in virtù di essa: proprio per questo spettano a ognuno e non dipendono dal benvolere o dal capriccio del potere politico in vigore in una certa società”. di Nicoletta Tiliacos

martedì 16 dicembre 2008

Scivolone di Fini: “Anche la Chiesa si adeguò all’infamia delle leggi razziali”

Faranno rumore. Facile prevedere che le parole pronunciate contro la Chiesa dal presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, durante un convegno organizzato a Montecitorio sui settant’anni delle leggi antiebraiche e razziste, avranno una grande eco. Eccole: “L’odiosa iniquità delle leggi razziali si rivelò in modo particolare contro gli ebrei che avevano aderito al fascismo. Ma l’ideologia fascista non spiega da sola l’infamia delle leggi razziali. C’è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata nel suo insieme alla legislazione antiebraica e perché, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno, mi duole dirlo, da parte della Chiesa cattolica”. Poi la terza carica dello Stato ha ribadito la sua posizione, già espressa più volte, contro quelle leggi che furono “una vergogna ed un’infamia”. Leggi con cui per Fini “il Paese si trova a fare i conti. Dobbiamo fare i conti con la memoria di questa infamia, dobbiamo fare i conti come nazione e come cittadini, senza infingimenti e ambiguità”. Per Fini fare i conti con le leggi razziali “significa avere il coraggio di perlustrare gli angoli bui della memoria italiana. Ricostruire con rigore la vergogna delle leggi razziali, guardare senza reticenza dentro l’anima italiana non serve soltanto per raccontare il passato nella sua completezza. Serve anche e soprattutto a preservare il nostro popolo dal rischio di tollerare in futuro, tra inerzia e conformismo, altre possibili infamie contro l’umanità”. Quindi il discorso dell’ex leader di An è virato sull’antisemitismo. Che per Fini si estrinseca sotto forma di antisemitismo di destra, di sinistra, ma anche religioso: “C’è l’antisemitismo esplicito dell’estrema destra e del neonazismo”, ma c’è pure quello “mascherato da antisionismo dell’estremismo no-global e dell’ultrasinistra”, poi anche quello “ammantato di pretesti pseudo-religiosi, dell’islamismo radicale, come quello che ha colpito recentemente a Mumbai”. Proprio per questo le “istituzioni devono impedire che ci producano fenomeni di assuefazione nell’opinione pubblica”. Poi alludendo all’Iran ha aggiunto: “Un’ideologia che sopprime i diritti dell’uomo e propugna l’annientamento di uno Stato e di un popolo può produrre grandi tragedie e sofferenze nella complicità silenziosa di una società distratta e indifferente”. Insomma “una democrazia vigile e attenta deve saper contrastare con efficacia l’antisemitismo nelle vecchie e nuove forme ideologiche che oggi questo assume”. Finale filosofeggiante per l’inquilino di Montecitorio, con citazione della grande studiosa del totalitarismo Hannah Arendt, tedesca con origini ebraiche : “Il mistero della propagazione del male è un mistero banale”. E poi ha aggiunto: “In uno dei suoi libri più famosi, che si intitola appunto La banalità del male, scritto a proposito del processo ad Adolf Eichmann che si celebrò a Gerusalemme nel 1960, la filosofa così descrisse l’imputato, reo di aver pianificato materialmente la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio: “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso. Solo grigio e incolore”. Per Fini, quelle dell’allieva di Heidegger “sono parole che devono scuotere ancor oggi le nostre coscienze, perché il male si può riprodurre. Per questo è un dovere ricordare l’infamia di 70 anni fa. Ricordare. Cioè ri excorde. Riportare al cuore. Perché accanto al giudizio della storia ci sia il dovere morale di una profonda indignazione. Azioni che erano mostruose, a chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”. D’altronde, non da oggi Fini ha messo in atto strappi ideologici, storici e culturali dalla tradizione fascista. Il suo percorso segnò una svolta radicale con la dichiarazione del fascismo come “male assoluto”, durante la sua visita in Israele del 2003: allora Fini era presidente di An e vice presidente del Consiglio. E così sentenziando fece sobbalzare molti all’interno del partito. Ora da presidente dei Deputati italiani pare voglia dare un’ulteriore sterzata al percorso. E stavolta a sobbalzare saranno gli ambienti cattolici, al di qua e al di là del Tevere. E infatti la levata di scudi cudirispetto alla netta presa di posizione del presidente della Camera è bipartisan. Il vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi (Pdl), afferma: “Qualunque storico, anche lontano dalla Chiesa cattolica e indifferente alla sua dottrina, può illustrare centinaia di documenti che dimostrano l’agire corretto per la tutela dei diritti dell’uomo, così come l’impegno mai venuto meno e finalizzato alla difesa della persona umana e, in particolare, a quella del popolo ebraico”. A Lupi: “Dispiace che anche Fini, di cui ho altissima stima, si sia adeguato a luoghi comuni che si sono imposti in questi anni”. Il deputato del Pd, Enrico Farinone, incalza: “Sul fatto che leggi razziali fossero un’infamia siamo d’accordo. Sul fatto che nemmeno la Chiesa si sia opposta no. Il presidente Fini dimentica figure come quelle del cardinale Schuster a Milano o di don Pappagallo a Roma”.

Il Colonialismo e le leggi razziali

Alem Woldezghi * da ww2.Carta.org A distanza di 100 anni l'Italia è ancora preda e vittima di rappresentazioni di gloria e vendetta, quando non di amnesia istituzionale rispetto al proprio passato coloniale e al contatto con l'altro: l'immaginario collettivo degli italiani sull'Africa e sugli africani resta tuttora rappreso a forme di rappresentazione esotiche e subliminali. L'Italia repubblicana non commemora il proprio passato coloniale. Sembra solo volersi disfare del proprio passato: non ama ricordare. Eppure l'Italia democratica ha una responsabilità storica e morale nei confronti dell'ex-colonia primogenita, l'Eritrea. I sostenitori del colonialismo sono sempre stati del parere che gli italiani, al contrario degli inglesi, hanno assunto in Abissinia un atteggiamento umano e mai razzista, anche nei momenti in cui veniva richiesta particolare durezza. Secondo gli studiosi non andò così: i massacri, la sempre presente discriminazione razziale, l'esplosione del razzismo fascista possono testimoniare il contrario. Tutto il colonialismo italiano fu caratterizzato dal razzismo e dalla sopraffazione, che sono la base di ogni conquista coloniale. Del resto intervenire contro un popolo militarmente più debole dimostra violenza e prevaricazione. E' significativa l'assoluta incomprensione sempre dimostrata nei confronti di una civiltà di antica tradizione come quella eritrea che la politica italiana mirò a distruggere radicalmente. Su queste radici si sviluppò il razzismo fascista che, secondo me, si deve considerare una chiara estrinsecazione della violenza insita in tutto il colonialismo, un richiamo pesante e pressante per chi oggi non vuole chiudere occhi e orecchie di fronte alla tragica realtà. Per esempio: è possibile parlare di specifici crimini sessuali del colonialismo fascista in Aoi [Africa orientale italiana]? Di sicuro sì, se per crimini sessuali si intendono in primo luogo le forme di rappresentazione delle donne eritree e il loro sfruttamento sessuale legittimati dal fascismo per coartare forza-lavoro maschile nelle colonie ma anche l'estremo dello stupro coloniale, che in certo senso era autorizzato da quelle stesse rappresentazioni. Il fascismo dichiarò: «La donna torni a essere inferiore, suddita del padre o marito...» ma anche che i cittadini italiani non potevano convivere con un suddito africano. Non solo: anche il rovesciamento di queste rappresentazioni, conseguente alla dichiarazione dell'Impero nel maggio 1936 e poi la legge del 1937 con le sanzioni per i rapporti di «indole coniugale» fra cittadini e sudditi va letto in questo senso e porta alla luce il nesso fra politiche sessuali e razziali del colonialismo fascista. Secondo le definizioni del colonialismo fascista la donna nera era adatta solo per il sesso e quella bianca invece per il sentimento amoroso. Già il percorso di costruzione nazionale aveva portato alla definizione di un'identità razziale per gli italiani. Con la dichiarazione dell'Impero questa identità fondata sulla purezza di sangue svolse un ruolo centrale nella definizione delle politiche coloniali: la purezza razziale, intesa in senso biologico, diventò progetto, si proiettò nel futuro. In Italia, il passaggio da una coscienza coloniale a una imperiale ha implicato l'assolutizzare l'idea suprematista fondata sulla cosiddetta razza. Fra colonizzatori e colonizzati non erano più tollerabili incerti confini «razziali»: diventava necessaria una netta separazione sostenuta da una disciplina e un'auto-disciplina che coinvolgesse tutti gli aspetti della vita quotidiana. In questo processo l'antropologia andava acquisendo uno status che l'avrebbe portata al di là dell'ambito meramente scientifico o accademico per arrivare ad affrancare e sostenere le scelte politiche del regime di Mussolini. Con la guerra d'Etiopia e la fondazione dell'Impero la discriminazione razziale si trasforma, da prassi, in materia giuridica diventando legge dello Stato: l'Italia, unica fra le potenze europee, si fa promotrice di una forma di segregazione razziale che non ha paragoni in Africa se non nell'esperienza dell'apartheid sud-africano. La colonia Eritrea diviene così il primo laboratorio di sperimentazione delle leggi razziali che nel 1938 saranno estese a colpire anche la comunità ebraica del Paese. Il rapporto con l'alterità africana si basò su esclusione, violenza, sfruttamento e stragi: pagine ancora rimosse o apertamente negate, in nome di un mito fortemente radicato nell'immaginario collettivo, che continua rivendica l'atipicità italiana come se si fosse trattato di un «colonialismo dal volto umano». Non mancano in Italia seri studi storici sul colonialismo ma difficilmente hanno accesso nel circuito formativo e in quello scolastico.

A settanta anni dalle leggi razziali

La scellerata scelta di Mussolini, avallata da Vittorio Emanuele III, era di arianizzare l’Italia eliminando ogni traccia di ebraismo MICHELE SARFATTI Settanta anni or sono, il governo fascista introdusse in Italia un corpus legislativo che istituiva la definizione giuridica di “appartenente alla razza ebraica” e assoggettava tali persone a un gran numero di divieti, escludendole progressivamente dal Paese. Con ciò, la dittatura di Benito Mussolini, con la controfirma del re Vittorio Emanuele III, trasformò l’Italia (il Regno d’Italia), in uno “Stato razziale”, in uno Stato razzista, in uno Stato antisemita. Qual è il significato di ciò nella storia d’Italia? Si trattò di un evento di rilevante gravità. Di una grave ferita, inferta agli ebrei, al Paese, alla società civile tutta (ovvero, anche ai non ebrei). Era la prima volta dal Risorgimento che si faceva distinzione tra cittadini e cittadini, tra italiani e italiani. Ed era la prima volta che si incardinava tale differenza sul criterio della razza, che veniva presentata come realtà scientifica esistente oggettivamente (sappiamo bene che essa non esisteva e non esiste nella realtà, ma ciò che qui interessa è riportare cosa ritenevano Mussolini e il gruppo dirigente del fascismo). Debbo aggiungere che il vocabolo “razza” aveva fatto il suo ingresso nella legislazione italiana sin dall’inizio del Novecento, con riferimento alle popolazioni delle colonie (specie l’Eritrea, poi anche l’Etiopia). Il vocabolo ebbe inizialmente anche una funzione definitoria e poi sempre più nettamente una finalizzazione discriminatoria-persecutoria, che portò l’Italia a causare enormi torti e immensi lutti a quelle popolazioni. Tuttavia la “razzizzazione” (purtroppo si dice così) e la persecuzione degli ebrei italiani contengono un ulteriore specifico elemento di gravità: le vittime del 1938 erano pieni cittadini e perfetti residenti dello Stato che decise di perseguitarli. L’iniziativa italiana del 1938 fu autonoma, sul piano internazionale? Nei decenni di inizio Novecento l’antisemitismo era in notevole crescita in tutta Europa e oltre Atlantico. E’ vero, molti europei e americani non partecipavano a tale processo, o lo combattevano nettamente. E non va scordato che negli anni Trenta nessuno ancora, pensando l’antisemitismo, poteva prefigurare le camere a gas di Auschwitz-Birkenau o le uccisioni di massa nelle boscaglie orientali. Ma quella crescita era in atto. Nel 1933 poi la Germania nazista aveva dimostrato concretamente che un Paese europeo dalla storia “evoluta” poteva introdurre nel proprio ordinamento una legislazione antiebraica che, mentre si riallacciava addirittura all’epoca precedente la rivoluzione francese, si presentava come “moderna”. In questo contesto, senza esservi in alcun modo obbligato o pressato, Mussolini decise in piena libertà di seguire la strada intrapresa da Adolf Hitler. E varò un corpus legislativo (ora riprodotto in www.cdec.it) che, appunto perché similare ma autonomo, in alcuni ambiti fu più grave di quello vigente in quel settembre-novembre 1938 a Berlino (ben presto il dittatore tedesco superò in gravità quei limitati primati italiani; che però mantengono la loro rilevanza storiografica). Quale tipo di razzismo prescelse l’Italia fascista? La risposta a questa domanda è resa complessa dallo scarso spessore dell’ideologia razzista e antisemita nostrana, rispetto a quelle d’oltre Brennero. (Per inciso, ciò dimostra che non occorreva un preventivo, prorompente e diffuso odio antiebraico per giungere a decidere la persecuzione). In termini schematici, possiamo osservare che nella pubblicistica prevalsero leggermente concezioni razzistiche di ordine spirituale o nazionale, connesse tra l’altro alla nuova esaltazione della “idea” di Roma più che della “razza” latina. Ma dobbiamo tenere conto che, nella legge, la definizione di “appartenente alla razza ebraica”, sulla cui base venne deciso chi doveva essere perseguitato e chi no, fu imperniata sulla concezione razzistico-biologica. Per dirla in poche parole: il discendente di quattro nonni ebrei fu sempre classificato “di razza ebraica”, anche qualora lui stesso e magari entrambi i suoi genitori fossero battezzati. E una discendente di quattro nonni cosiddetti “ariani” poteva anche essersi convertita all’ebraismo e avere prole cresciuta ebraicamente, ciononostante per la burocrazia statale rimaneva comunque “appartenente alla razza ariana”. Gli italiani non erano persone libere di scegliere, bensì semplici contenitori e trasmettitori di materiale biologico utile o disutile alla nazione. Quale relazione legò la legislazione antiebraica del 1938 alla consegna degli ebrei a killers specializzati stranieri del 1943-1945? Non vi fu alcun automatismo; Mussolini non cacciò nel 1938 gli ebrei dal lavoro, dall’esercito, dalla vita culturale col fine di, o comunque prevedendo di, farli deportare ad Auschwitz-Birkenau (peraltro, come detto, ancora fuori del raggio di prefigurazione degli europei dell’epoca). Mussolini voleva “solo” disebreizzare e arianizzare l’Italia. Ma gli arresti e le deportazioni attuati cinque anni dopo dall’occupante nazista e dalla Repubblica Sociale Italiana furono facilitati dal fatto che i morituri erano ormai identificati, schedati, impoveriti, separati. Nonché dal fatto che Stato e società li consideravano perseguitandi. Per questo è legittimo dire che la legislazione antiebraica si rivelò utile, funzionale, in parte necessaria, allo sterminio successivamente deciso. * Storico, direttore del C.D.E.C.

Fascismo: Leggi Razziali in Eritre ed Etiopia 1938

Ogni anno, nella stagione in cui, nel 1938, furono brandite clamorosamente dal fascismo le armi della persecuzione contro gli ebrei, si affollano in noi i ricordi e le sollecitazioni al dovere fondamentale di non dimenticare mai i delitti che nel mondo sono stati perpetrati dal fascismo e dal nazismo, che costituiscono parte integrante della eredità storica della umanità, di ogni popolo, di ogni comunità sociale, di ogni donna e di ogni uomo che siano stati anche soltanto spettatori di tali delitti. Come potremmo noi, in Italia, dimenticare il 5 settembre del 1938 e il decreto regio, emesso dal fascismo e promulgato dal re, per la “difesa della razza nella scuola” o come potremmo dimenticare il 7 settembre del 1938, con l’altro decreto regio, voluto dal fascismo e sempre promulgato dal re, che bandiva dal Paese, come nemici, tutti gli ebrei stranieri, oltre cinquemila, indesiderabili proprio perché e soltanto perché ebrei e, quindi, perché, essendo ebrei, erano nemici, addirittura ridotti allo stato di stranieri perché a loro veniva retroattivamente revocato il diritto di cittadinanza che ad essi era stato riconosciuto e ad alcuni addirittura sin dal lontano gennaio del 1919? Sempre più numerosi sono i paesi che, nel mondo ed in Europa, per ricordare e non dimenticare, si dotano di una legislazione che stabilisce quale debba essere il modo corretto di ricordare un determinato evento storico e dispongono che sia punito penalmente chi tale evento storico, come, appunto, la persecuzione ebraica del fascismo e del nazismo, non rivisiti e non rievochi secondo i canoni stabiliti dalla legge. Questo è pericoloso, perché il razzismo è uno scempio dell’anima e dell’intelligenza che non potrà mai essere efficacemente contrastato se non con la conoscenza, approfondita e non superficiale, storica e non revisionista, di quello che furono effettivamente sia il fascismo che il nazismo. Comunque, se è opportuno che la verità non possa essere imposta per legge dello Stato, ciò non significa che la menzogna, la manipolazione, il revisionismo riduttivo della storia debbano essere tollerati come libertà democratiche e non combattuti come veleni della coscienza democratica dei popoli. E’ importantissimo che le nazioni, gli Stati, i popoli, gli individui, culturalmente, politicamente ed eticamente riconoscano il male e la dimensione del male che nel loro paese e nel mondo è stato posto in essere. L’immagine del leader della Germania Willy Brandt, che a Varsavia si inginocchia in silenzio davanti al monumento delle vittime e agli eroi del ghetto, così come l’immagine del Presidente della repubblica federale tedesca che a Marzabotto chiede scusa per il delitto lì commesso dalle truppe tedesche nel settembre del 1944, sono le iconografie più nobili della storia europea del dopoguerra. Le leggi razziali sono, esse stesse e in se stesse, “leggi fascistissime”, del medesimo grado e della medesima intensità delle leggi fascistissime, liberticide varate dal fascismo nel 1924 nei confronti di tutti gli abitanti del nostro Paese, subito dopo il delitto Matteotti, dopo che la Camera dei deputati fu degradata da Mussolini al livello di un possibile bivacco delle sue camicie nere. Con tali leggi il fascismo creò gli strumenti di repressione della stessa libertà di pensiero di tutte le donne e di tutti gli uomini residenti nel nostro Paese, affidando la repressione della libertà del pensiero a un suo privato Tribunale speciale e a un suo personale confino di polizia. Le leggi razziali, in se stesse e per se stesse, sono leggi fascistissime perché scattano a seguito della maturazione della fascistizzazione totalitaria dello Stato, quando il fascismo può supportarle pseudoscientificamente con il coinvolgimento di scienziati e università italiani, quando può farle supinamente accettare dalla popolazione e può introdurle in istituzioni capaci di realizzarne tutte le finalità; leggi che vengono introdotte nel diritto positivo italiano quando tutti i poteri sono stati occupati e asserviti al fascismo: la monarchia, la chiesa, l’industria, l’agricoltura, il Senato, la Camera, le università, la scuola, la stampa, l’informazione. È a questo punto che il fascismo può finalmente aggredire anche il “giudaismo”, che è andato acquistando ai suoi occhi le dimensioni e la consistenza di un nemico da abbattere, nella prospettiva che negli ebrei vede il bolscevismo, la finanza internazionale, il cosmopolitismo antinazionale. Il problema ebraico esplode ed è aggredito perché esplicitamente accusato dal fascismo di essere antifascista e internazionalista e avversario del colonialismo, della sua nuova ideologia razziale per l’impero, della sua svolta legata a una rivoluzione antropologica globale che vuole fare degli italiani una razza di dominatori. Il problema ebraico è assunto a problema di un nemico interno ed esterno che deve essere abbattuto. Oggi, per molti – anche sinceramente schierati contro le leggi razziste del 1938 in Italia, a seguito del revisionismo storico in tutti questi anni posto in essere nel nostro Paese – il fascismo non appare più l’espressione di un male assoluto nel suo complesso, costituito cioè da tutta la sua storia e da tutta la sua condotta liberticida e criminale non solo di quella che va dal 1942 al 1943, ma anche di quella successiva all’8 settembre 1943 sino a comprendere anche tutta la sua storia di collaborazione criminale con il regime di occupazione dell’Italia da parte dei nazisti. Il fascismo non appare più come un male assoluto nel suo complesso, che ha straziato l’Italia prima della guerra, durante la guerra, dopo l’armistizio sino al 25 aprile 1945, ma appare soltanto per molti come un “fenomeno complesso”, nel quale, semmai, si può rilevare soltanto una deriva liberticida, condannabile, ma limitata agli anni che vanno dal 1938 con le leggi razziali all’8 settembre, con l’ulteriore considerazione che, in ogni caso, il fascismo è rimasto sempre fuori dal “cono d’ombra” dell’olocausto. In questo giudizio vi è una grave sottovalutazione dell’antisemitismo fascista, che fu sempre e soltanto, fin dal primo giorno, non un antisemitismo compreso e concluso in una visione spirituale, come quella che può essere stata la particolare visione di alcuni fascisti fortemente antisemiti, come Evola o Ciano, ma fu un antisemitismo biologico, nel quale lo stesso Mussolini sviluppò un ruolo centrale. Un razzismo biologico che si ricollega al colonialismo e al nazionalismo fascisti, che, nel momento in cui si accinge alla criminale avventura etiopica, introduce, nella legislazione della colonia eritrea dell’Africa orientale, il più chiaro dei razzismi biologici, con tutta una serie di violente repressioni dei rapporti degli italiani con le donne eritree, consentendo tra di loro soltanto fugaci rapporti carnali di sfogo (è questo il lessico fascista dei provvedimenti razziali coloniali) da consumarsi soltanto in postriboli segreti e segregati, con la condanna penale di qualsivoglia cenno anche il più vago a un concubinaggio tra italiani e donne eritree. La campagna di discriminazione razziale non cominciò in Italia nel settembre del 1938, ma partì, sul piano culturale, ancor prima che politico, già nell’aprile 1934, con la circolare di Mussolini sulla censura e sul sequestro di libri banditi, tra i quali il romanzo di Mura, Maria Volpi, “Sanbadù amore negro”, che mostrava in copertina una italiana che baciava un africano nero. L’inizio è a monte, dunque, della stessa impresa Etiopia, che era in preparazione e per la quale furono emessi decreti razzisti gravemente discriminatori e persecutori per la vecchia colonia italiana dell’Eritrea nell’Africa orientale. È vero che Mussolini nella “informazione diplomatica“ del 5 agosto 1938 fece scrivere che “discriminare non significa perseguitare”, ma è altrettanto vero che Mussolini, nel momento stesso in cui avviò la preparazione delle leggi razziali, fece scrivere, nel Manifesto degli scienziati razzisti del 23 luglio 1938 che “la creazione dell’impero ha messo la razza italiana in contatto con altre razze, per cui deve guardarsi da ogni ibridismo e contaminazione, tanto da rendere necessario introdurre nel diritto positivo dello Stato fascista quelle leggi razziali che furono immediatamente applicate con “fascistica energia”, come si esprimeva il lessico fascista, in tutti i “territori dell’impero”. E immediatamente fu prospettato che il medesimo trattamento sarebbe stato riservato anche agli ebrei, i quali “dovunque e anche in Italia hanno costituito coi loro uomini e con i loro mezzi lo stato maggiore dell’antifascismo”. E nella informazione diplomatica numero 18 Mussolini farà aggiungere che gli ebrei “si sono sempre ritenuti appartenenti a un’altro sangue, a un’altra razza al di sopra di ogni frontiera”, tanto da poter dire che è stata “accertata l’equazione, in questi ultimi 20 anni di vita europea, fra ebraismo, bolscevismo e massoneria”. E tanto evidente appare che queste leggi razziali del 1938 nascono nel cono d’ombra di un fascismo incancrenitosi in venti anni in tutto il tessuto istituzionale del Paese, che alla emarginazione abbina, fin dall’inizio, la persecuzione vera e propria degli ebrei. Di ciò vi è la prova inconfutabile nel fatto che Mussolini, quando realizza i suoi rapporti con il nazismo, per valutare quali siano i mezzi e i tempi delle persecuzione ebraica che nasce nel Reich, coeva alla persecuzione fascista e nazista, fa visitare anche il campo di Dachau dal capo della polizia italiana, il quale farà su tale visita una dettagliata relazione per il Governo italiano dell’epoca, precisando che in quel campo vi sono politici, omosessuali e “pure ebrei che hanno stuprato ragazze cristiane” e che in quel campo “gli ebrei sono confinati a tempo indeterminato solo sulla base di provvedimenti di polizia e sono sorvegliati con mezzi repressivi violenti”. E ancora, il 23 dicembre 1938, il professor Guido Landra, dirigente dell’ufficio studi sulla razza al ministero della cultura popolare, quando compì un viaggio in Germania, vi incontrò il capo dell’ufficio razza del partito nazionalsocialista dottor Gross e il capo della scuola di educazione razziale in Germania, e vi incontrò anche Alfredo Roserbergh e lo stesso Himmler, capo della polizia tedesca, e fece anche una visita al campo di concentramento di Sachsenhausen. Anche questa visita fu portata a conoscenza delle organizzazioni fasciste di Mussolini e alle istituzioni del Governo. Che cosa vogliamo di più per convenire che nel cono d’ombra dell’olocausto le leggi razziali fasciste si collocarono sin dal 1938, unitamente al confino di polizia, immediatamente aperto in tutta Italia per gli ebrei? Un ulteriore, preciso, puntuale, innegabile nesso tra le leggi razziali e il cono d’ombra dell’olocausto, già nel corso della guerra e prima dell’8 settembre 1943 è rappresentato dal provvedimento che il fascismo adotta nei confronti degli ebrei il 3 agosto 1942, con il quale, dopo averli estromessi dal diritto di cittadinanza, dopo averli privati di ogni diritto umano, trasforma gli ebrei anche in schiavi, perché li precetta per adibirli al lavoro manuale nell’interesse dell’Italia in guerra. Un preciso e puntuale nesso tra le leggi razziali e il regime di Salò è provato dal comando formulato a Verona nel novembre 1943 dalla Repubblica Sociale di Mussolini, che stabilì che tutti gli ebrei erano nemici e dovevano essere arrestati, come in effetti furono arrestati, per essere consegnati ai nazisti, come in effetti furono consegnati, per l’internamento in quei campi, come Dachau e Sachsenhausen di cui il fascismo conosceva perfettamente l’esistenza e di cui aveva fatto preventiva conoscenza sin dal 1938. Noi ci ricordiamo delle leggi razziali. Ricordiamo tutto e bene, ma abbiamo il timore che il ricordo possa essere, ogni anno che passa, in qualche misura eroso, sino al punto di vederne svaniti i contorni, tanto da sfumarne la sostanza nella nebbia di un “fenomeno complesso” come da molte parti si dice e si afferma che sia stato il regime fascista. Che sia stato, cioè un fenomeno complesso ridotto temporalmente ad una breve stagione intorno al 1938, avulso da ogni responsabilità genocida nei confronti degli ebrei. Nel nostro Paese l’epurazione dei razzisti delle leggi del 1938 fallì. Fallì l’epurazione di Nicola Pende, titolare della cattedra di patologia della Sapienza; fallì l’epurazione di Sabato Visco, ex capo dell’Ufficio razza del Ministero della cultura popolare; fallì l’epurazione dello zoologo Edoardo Zavattin, del demografo Franco Savorgnan, dello psichiatra Arturo Donaggio, di Guido Landra, estensore del Manifesto sulla razza, di Livio Cipriani, Lino Businco, Leone Franzi e Marcello Ricci. Fallì l’epurazione dei razzisti e fallì la condanna dei fascisti che gestirono la macchina dell’arresto degli ebrei e della loro deportazione nei campi di sterminio nazisti. Dio non voglia che la nostra memoria di quello che fu il fascismo veramente e di quella che fu la sua responsabilità nel secolo degli eccidi possa essere manipolata dai revisionismi del nostro tempo e possa mai affievolirsi. Gianfranco Maris

Leggi Razziali: L’Africa Orientale Italiana

Il fascismo e l’AOI (Africa Orientale Italiana) Anche se, dopo la sconfitta di Adua, non vi furono altri tentativi militari di conquista dell’Etiopia, tuttavia fu costante l’obiettivo di creare una continuità territoriale tra le colonie dell’Eritrea e della Somalia: nel 1906 era stato stipulato un accordo commerciale tripartito con Francia e Gran Bretagna che permetteva all’Italia l’utilizzo di una fascia di collegamento tra Eritrea e Somalia. Secondo l’interpretazione di Del Boca, anche la politica coloniale dei governi liberali conteneva il progetto, già crispino, di occupare il Corno d’Africa, Francia e Gran Bretagna permettendo. Il primo dopoguerra vide rinascere il nazionalismo che si era già affermato con la guerra di Libia, anche se l’interesse prevalente dell’opinione pubblica sembrava orientato più alla questione di Fiume che alle conquiste coloniali. La posizione di Mussolini è in quel periodo oscillante tra un nazionalismo moderato e un orientamento abbastanza deciso verso un’espansione che garantisca l’emigrazione, il commercio e la diffusione della cultura. Progressivamente compaiono però accenti più aggressivi: in un discorso a Trieste del 6 febbraio 1921 Mussolini dirà: “È destino che il Mediterraneo torni nostro. È destino che Roma torni a essere la città direttrice della civiltà in tutto l’occidente d’Europa. Innalziamo la bandiera dell’Impero, del nostro imperialismo che non dev’essere confuso con quello di marca prussiana o inglese.” In un discorso a Tripoli dell’11 aprile 1926 delinea le motivazioni che giustificano il colonialismo italiano: “Noi abbiamo fame di terre perché siamo prolifici e intendiamo restare prolifici… Quando io penso al destino dell’Italia, quando io penso al destino di Roma, quando io penso a tutte le nostre vicende storiche, io sono ricondotto a vedere in tutto questo svolgersi di eventi la mano infallibile della Provvidenza, il segno infallibile della Divinità.” Con questi tratti il colonialismo fascista si differenzia da quello liberale, sia perché quest’ultimo aveva sempre messo in luce la difficoltà di creare vere colonie di popolamento nei territori occupati sia perché non aveva mai vagheggiato per l’Italia destini imperiali e fatali. Dopo l’incidente, al confine somalo, per i pozzi di Ual Ual nel dicembre 1934, nonostante il ricorso dell’Etiopia alla Società delle Nazioni, l’azione di propaganda divenne massiccia, attraverso opuscoli nelle scuole, riviste e varie iniziative dell’Istituto Coloniale che riuniva tutte le precedenti società di geografia di fine Ottocento; si costruì così un vasto fronte di entusiastico consenso non solo tra i soldati e gli ausiliari impegnati in Eritrea e in Somalia, ma anche tra i giornalisti e gli intellettuali in Italia. De Bono ebbe, nel 1932, il compito di preparare un piano di invasione dell’Etiopia; nel biennio successivo i preparativi per la guerra in Eritrea e in Somalia allarmarono Hailé Selassié che iniziò a sua volta operazioni di riarmo e, attraverso le vie diplomatiche, cercava di attrarre dalla sua parte soprattutto la Gran Bretagna. L’invasione dell’Etiopia avvenne nell’ottobre 1935 senza dichiarazione di guerra; la Società delle Nazioni reagì approvando le sanzioni che non furono mai pienamente attuate ma servirono a Mussolini a rinsaldare il consenso interno su vari fronti. Una delle operazioni più efficaci nel creare compattezza tra gli italiani fu la raccolta dell’oro, che ebbe un impatto psicologico molto capillare anche nei ceti sociali più poveri, le donne donarono persino la loro fede matrimoniale, in un clima di dedizione assoluta al fascismo e al suo capo. La guerra fu molto popolare. Il generale Badoglio da nord e il generale Graziani da sud condussero la campagna contro l’Etiopia, campagna che fu rapida e vittoriosa (si concluse prima dell’arrivo delle piogge). Nel maggio 1936 l’esercito italiano entrò in Addis Abeba da cui Hailé Selassié era fuggito due giorni prima, rifugiandosi a Londra. Nel conflitto fu ampiamente usata l’aviazione contro i civili associata all’uso di gas autorizzato personalmente da Mussolini. L’uso dell’iprite, in particolare, avvenuto tra dicembre ’35 e gennaio ’36, segnò una svolta nel modo di condurre la guerra, infatti il gas tossico non era usato solo contro i militari ma veniva irrorato sul territorio avvelenando persone, animali, acqua e vegetazione. Tale circostanza fu mantenuta segreta e a lungo negata: quando negli anni sessanta fu portata alla luce e documentata con studi d’archivio si scatenarono reazioni risentite e accuse di vilipendio del soldato italiano. Eppure Hailé Selassié aveva denunciato l’uso di gas tossici all’assemblea della Società delle Nazioni il 30 giugno 1936. Ma questo e altri crimini di guerra compiuti nel corno d’Africa, quali eccidi del clero copto ad opera di Graziani, rimasero impuniti per ragioni di politica internazionale. La proclamazione dell’impero avvenuta il 9 maggio 1936 portò all’unificazione di Eritrea, Etiopia e Somalia italiana nell’Africa Orientale Italiana (AOI). L’entusiasmo in Italia fu enorme e segnò il momento di più alto consenso al regime. La colonizzazione italiana fu di breve durata: nel 1941, nel corso della seconda guerra mondiale, il territorio fu occupato dalle truppe anglo-francesi: l’Etiopia riacquistò la sua indipendenza nel dicembre 1942 col rientro di Hailé Selassié; l’Eritrea, contrariamente alle aspettative italiane, fu dichiarata unità autonoma federata all’Etiopia con una dichiarazione dell’ONU del 1952, ma l’Etiopia, che rivendicava “diritti storici” sull’Eritrea proprio in virtù della fondazione dell’AOI, procedette di fatto all’annessione nel 1962, ponendo le condizioni per la trentennale guerra d’indipendenza dell’Eritrea; la Somalia venne affidata nel 1950 in amministrazione fiduciaria decennale all’Italia. Conseguenze dell’impresa etiopica Le ripercussioni in Italia della guerra d’Etiopia furono rilevanti su diversi piani. Sul piano economico le sanzioni della Società delle nazioni provocarono il lancio, nel marzo del 1936, della politica autarchica, che comportò un maggior coinvolgimento dello Stato nella produzione oltre che nel consumo, una gestione diretta da parte dell’IRI delle industrie legate alla guerra e l’affermarsi di un protezionismo spinto. Per altro il costo elevato dell’impresa provocò un calo del potere d’acquisto dei salari e una diminuzione degli investimenti soprattutto nelle zone meridionali che videro peggiorare la loro situazione, anche perché non si realizzò l’auspicato sbocco all’emigrazione nelle colonie africane. Sul piano politico l’Italia si spostò in modo deciso, nonostante le retoriche dichiarazioni che esaltavano il ritorno dell’impero sui colli fatali di Roma e l’entusiasmo unanime per tale evento, verso una subalternità alla linea bellicista della Germania, che sfociò nel Patto d’acciaio del 1939. Parallelamente si sviluppò una profonda avversione alle potenze coloniali di vecchia data, Francia e Inghilterra, che detenevano il dominio “plutocratico” del mondo. Ma la conseguenza forse più deleteria fu il sorgere in Italia di movimenti di opinione di tipo razzista, volti a salvaguardare la purezza della razza italiana. La missione civilizzatrice ha come presupposti la superiorità della civiltà italiana (fondata sulla superiorità della missione civilizzatrice di Roma) e l’inferiorità delle popolazioni indigene. L’atteggiamento tutto sommato bonario del canto “Faccetta nera, bella abissina, aspetta e spera, già l’Italia s’avvicina; quando staremo insieme a te, noi ti daremo un’altra legge e un altro re” si trasforma in una posizione assolutamente intollerante di qualunque forma di meticciato. Le motivazioni si rifanno talvolta ad un razzismo di carattere etnico-culturale, talvolta a quello biologico in senso stretto. Livio Cipriani, antropologo, scrive sul Corriere della sera il 16 giugno 1936: “Nell’uomo il conseguimento delle innovazioni continue caratterizzanti la nostra civiltà sembra pure legato ad uno speciale cervello, quale particolarmente la razza bianca ha finora mostrato di possedere… perché l’inferiorità mentale degli africani può asserirsi anche soltanto in base all’impossibilità congenita di un lavoro di creazione… nessun progresso è da sperarsi in futuro come promosso da un africano. Anche soltanto per il sospetto di una cosa simile, le razze superiori dovrebbero star guardinghe dagli incroci con gli africani; la legge anzi dovrebbe intervenire per prevenirli…”. Significativa è la presentazione dell’incidente di Ual Ual pubblicata sulla copertina di un quaderno scolastico: “In fondo all’Africa c’è un paese lontano e grande, chiamato Etiopia, vicino a una nostra colonia italiana, con la sua capitale Massaua. Una volta, anni fa, avevamo dovuto fare a quel paese una guerra che era andata purtroppo male, e molti nostri soldati morirono, battendosi come leoni contro quei neri selvaggi. Ma dopo si fece pace e da tanto tempo stavamo laggiù a fare strade e porti domandando solo che ci rispettassero e ci lasciassero lavorare tranquillamente. È difficile capire bene “questa terra è mia, e questa terra è tua” da quelle parti dove non vi sono villaggi fissi, neanche casolari, soltanto montagne e campagne, con qualche pozzo e qualche palma, e gente che gira a pascolare le bestie, oggi qua domani là, a gran distanza, secondo che trovi erba e acqua. Così ogni tanto quella gente andava a rubare fuori dalle loro terre. E strappava i bambini dalle braccia delle mamme, e gli uomini, le donne, i bambini che aveva rubati, li incatenava e li vendeva per schiavi al mercato, come le pecore. “Dovete prometterci di non fare più razzie per prendere schiavi che è orribile. E per il resto nominiamo d’accordo una commissione che stabilisca i confini”, disse il nostro Duce. “Va bene”, risposero loro. Invece continuarono a tenere gli schiavi, e un giorno, che la commissione lavorava da una parte, se ne approfittarono per attaccare i nostri soldati dall’altra parte, a Ual Ual. Ma i nostri fecero una gran sparatoria e vincemmo noi italiani”. Questa lunga citazione rende bene quale fosse il modo di pensare comune. Tra giustificazioni pseudoscientifiche e pregiudizi diffusi il duce può ben dire nel 1938: “Il problema razziale non è scoppiato all’improvviso come pensano coloro i quali sono abituati ai bruschi risvegli perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’impero; perché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime”. Il Manifesto della razza del 14 luglio 1938 e l’antisemitismo delle leggi razziali concluderanno questo percorso ideologico-politico. A livello internazionale l’impresa etiopica accentuò il declino della Società delle nazioni, infatti non solo le sanzioni ebbero scarsa efficacia, ma la conquista venne di fatto legittimata senza che l’appello di Hailé Selassié, nel suo dignitoso discorso del 30 giugno 1936 “Quale risposta dovrò riferire al mio popolo?”, ottenesse alcuna risposta, anzi, nel successivo dibattito, ci si pronunciò per la revoca delle sanzioni. Mussolini poté così tranquillamente affermare: “…nei rapporti internazionali non c’è che una morale, il successo. Noi eravamo immorali, quando, dicevano, abbiamo assalito il negus. Abbiamo vinto e siamo diventati morali, moralissimi”. Non è che gli altri colonialismi fossero più “morali” di quello italiano, anche nel modo di condurre le campagne militari, ma quello che aveva reso diversa questa impresa era l’appartenenza dell’Etiopia alla Società delle Nazioni come stato sovrano: era diversa la situazione giuridica. Ma ormai la forza prevaleva sul diritto internazionale e si profilava lo scontro della seconda guerra mondiale.

Italo-somali: una minoranza che l'Italia vuole ignorare

Le tristi conseguenze della politica italiana coloniale e post-coloniale Intervista a Gianni Mari, Presidente dell'ANCIS, Associazione Nazionale Comunità Italo-Somala di Barbara Faedda (da www.diritto.it/materiali/antropologia/faedda16.html) Il dibattito sulla convivenza multiculturale ha coinvolto - come tutti sanno - da anni anche l'Italia. Quanto il nostro paese sia per certi versi impreparato a gestire il disappunto, la insoddisfazione e la conflittualità sociali è dato piuttosto noto. Ma, mentre ci si adopera giustamente alla elaborazione di politiche multiculturali e di integrazione per quanto riguarda gli immigrati, si continua ad ignorare una presenza numericamente esigua ma moralmente e storicamente ingombrante rappresentata dagli italo-somali, cittadini italiani di "serie C". Pare che l'Italia non voglia ancora fare i conti con un suo passato relativamente recente che non si è esaurito con la colonizzazione del Corno d'Africa e con il fascismo: non si può, infatti, mantenere nell'oblio l'esperienza legata all'Amministrazione Fiduciaria affidata all'Italia dalle Nazioni Unite dal 1950 al 1960. Questa intervista - soprattutto perché rivolta ad un protagonista nonché testimone diretto - vuole offrire un contributo affinché non si dimentichi e si rifletta su una parte di storia italiana e africana dalla quale il nostro paese non può emendarsi. Allo stesso tempo, con una visione tipicamente antropologica, ci si auspica un reale impegno scientifico per il raggiungimento di un totale e consapevole rispetto dell'identità culturale italo-somala e del desiderio di tale minoranza [1] di preservarla e arricchirla. Si intende, con questo primo contributo, lanciare una proposta di riflessione su quella che possiamo chiamare sicuramente "la questione italo-somala". Una minoranza viva e presente in Italia cui, soprattutto gli studiosi e gli intellettuali, non possono non rivolgere la loro attenzione. (L'intervista ha avuto luogo il 16 novembre 2001 nello "Studio Legale Associato Chiari-Zappasodi" in Roma alla presenza degli Avv.ti R. Chiari e L. Melchionna). Domanda: Signor Mari cosa è l'ANCIS? Risposta: L'ANCIS è l'Associazione Nazionale Comunità Italo-Somala, che raccoglie i figli di padri o madri italiani, tutti comunque cittadini italiani. L'associazione è aperta anche a somali e italiani che ne vogliano far parte. Censite sono 614 persone, con l'esclusione di mogli e figli. I figli non sono stati conteggiati perché la specificità dell'associazione è quella di essere proprio italo-somali. Siamo presenti in tutta Italia, in numero considerevole nel Triveneto, Lombardia, Piemonte e Lazio. D.: Come si pone lo Stato italiano nei confronti della vostra Associazione? R.: Lo Stato italiano in tutte le sue istituzioni non si è mai confrontato fattivamente con l'ANCIS. Abbiamo avuto molti colloqui con il Ministero degli Esteri, che ci ha a sua volta rimandato al Ministero degli Interni dicendo: "anche se siete nati all'estero, voi siete italiani e la sede istituzionale di confronto è il Ministero degli Interni ". D.: Lei è nato all'estero? R.: Siamo tutti nati a Mogadiscio o in Somalia. D.: L'Associazione è riconosciuta? R.: L'ANCIS esiste di fatto da sei anni, regolarmente registrata davanti ad un notaio. E' la controparte istituzionale che è latitante...Stiamo cercando di farla riconoscere. Abbiamo fatto innumerevoli richieste ai Comuni di Roma e Milano e alle Regioni Lazio e Lombardia, però per essere riconosciuti bisogna sottostare a procedure e a decreti leggi diversi da regione a regione - nel Lazio è la Legge 29/93 e la 18/96. Dapprima al Ministero degli Esteri ci ricevevano i sottosegretari, ultimamente i capiufficio. Di questo passo finirà che ci riceveranno le segretarie (senza mancare di rispetto alla figura della segretaria) e neanche più alla sala vip... In ogni caso, quando andiamo agli incontri non si parla mai di ciò di cui si dovrebbe parlare, cioè di ODG con le problematiche che poniamo e concordiamo. In uno dei nostri incontri, velatamente ci proposero di fare intelligence, una cosa che non sta né in cielo né in terra. Non siamo spie. Siamo somali di madre, provenienti da una società a cultura tribale; anche se le nostre madri appartengono a tribù differenti l'una dall'altra, loro per prime si sono unite per riconoscerci nella nostra specificità di italo-somali, superando di conseguenza le rivalità tribali. Non ci poniamo il problema tribale. In questo senso siamo molto solidali e così le nostre madri. Le mamme riconoscono il fatto che siamo tutti, comunque, figli di italiani. Quando noi proponemmo al Ministero degli Esteri questa specificità, loro risposero: "la diplomazia italiana ha un suo corso politico: non ha bisogno di doppioni in Somalia". Quello che chiediamo è di aiutare la diplomazia italiana a capire e gestire meglio questa situazione, non di porci in termini di doppioni o antagonisti. Sono passati cento anni dalla colonizzazione della Somalia: gli italiani tuttora continuano a non capire nulla dei somali. Si continuano a fare gli stessi errori. Nel 1990, all'inizio della guerra civile, la diplomazia italiana sbagliò: l'Ambasciatore Mario Sica e il Ministro degli Esteri De Michelis sostennero che Siad Barre dovesse rimanere Presidente. La diplomazia italiana non aveva colto l'evidenza che vi era una rivolta generale in tutto il paese contro un regime dittatoriale e quel governo era sostenuto dalla Farnesina. I somali lo ricordano. D.: Cosa chiedete esattamente allo stato italiano? R.: Molti di noi sono rientrati nelle leggi razziali (200 circa sono anziani, nati fra il 1920 e il 1940) e si dice addirittura che le leggi razziali non fossero indirizzate specificamente ed esclusivamente agli ebrei, quanto soprattutto finalizzate ad evitare il "meticciato". Un problema che era esploso nel 1926 quando il Governatore della Somalia, De Vecchi di Val Cismon, informò Federzoni, Ministro delle Colonie, che era necessario prendersi cura di questi figli di compatrioti perché erano pure fratelli di altri italiani. Oltre al Governatore, vi erano altre personalità del Regime fascista coloniale che si opponevano all'atteggiamento del governo centrale verso i meticci e alla loro posizione giuridica che non era chiara né in armonia con la giustizia italiana, tra cui Alberto Pollera, già funzionario coloniale ai cui figli era negato il diritto di diventare italiani, che si appellò al Duce sostenedo che bisognava punire i genitori e non i figli. Prima del 1936, ai bambini nati da padri italiani e donne somale era estesa la cittadinanza italiana se il padre li avesse riconosciuti come figli; ciò valeva anche per quei bambini i cui tratti fisici indicavano che uno dei genitori era bianco. La nuova legge n° 1019 del 1/06/1936 mancava di un riferimento ad essi ed era interpretata nel senso di estinguere il privilegio per la Somalia e Eritrea. La legge del 13/05/1940 (n.882) dichiarò esplicitamente che tutti i mulatti dovevano essere considerati sudditi: essi assumevano lo status del genitore indigeno e non potevano essere riconosciuti dal genitore italiano e portarne il cognome. Quella legge tuttavia disponeva che gli 800 meticci che avevano acquistato la cittadinanza prima del 1936 fossero riconosciuti come italiani. Molti italo-somali, già cittadini italiani, in quel periodo furono messi da parte e sottoposti a discriminazione a causa delle nuove leggi razziali, sebbene ci fosse nell'impero italiano una distinzione tra somali, etiopi ed eritrei. I somali, infatti, erano "cittadini Somali" al pari degli "eritrei", non sudditi coloniali come invece gli etiopi. Nel libro "Il colonialismo italiano in Etiopia 1936-1940" di Alberto Sbacchi, nel capitolo IV - RAZZISMO DI STILE ITALIANO da pag. 217 a 241, edito da Mursia, e a pag. 236 si riporta il risentimento di un Mussolini irato che diceva a Ciano: "Guarda che con questa storia dei meticci avete proprio stufato! Bisogna sterminarli tutti! Per i maschi meticci l'intenzione era quella di mandarli nelle zone malsane, a fare gli agricoltori, quasi con la speranza che si ammalassero e morissero, mentre le femmine venivano istruite circa il cucito e l'economia domestica affinché potessero diventare, una volta giunte in Italia, brave cameriere e domestiche nelle case dei gerarchi. Fortunatamente così non è andata ... Ma è proprio con la nascita della Repubblica Italiana e il subentro dell'AFIS [3] (con la risoluzione del 21.11.1949 l'ONU dava all'Italia un mandato decennale, un'associazione fiduciaria, che accompagnasse la Somalia fino all'indipendenza) - che in Somalia vi fu il vero boom delle nascite di italo/somali. Molti italiani inviati in Somalia in quel periodo e con precisi compiti erano persone in maggioranza sposate e con la loro vita in Italia, eppure hanno avuto altri figli con donne somale. E pensare che con l'AFIS l'Italia si era proposta di riparare ai danni compiuti durante il fascismo in Somalia, mentre di fatto in Somalia, si continuavano ad applicare le leggi razziali del periodo fascista, pur essendo l'Italia all'epoca già diventata Repubblica. Tant'è vero che, al momento della nascita dei bambini con padre italiano, le madri dichiaravano la parternità e così veniva segnalata l'appartenenza del neonato alla cosiddetta "etnia euro-africana", come era definita in quel periodo; essi venivano registrati in un registro a parte. Ritrovare questi documenti è particolarmente difficile ora perché la Somalia è stata letteralmente distrutta, soprattutto nella parte più rilevante delle trascrizioni anagrafiche. Questo perché la maggior parte delle registrazioni delle nascite di questi bambini veniva segnalata alla chiesa cattolica presente in Somalia. La nostra registrazione di nascita sta lì. Nei collegi [4] dove venivano tenuti questi bambini italo-somali avveniva un fatto particolare (soprattutto nel collegio di Brava): di volta in volta venivano affisse le comunicazioni dell'avvenuto cambiamento "ufficiale" dei cognomi di alcuni bambini. D.: E questo perché? R.: Perché evidentemente erano figli di padri sposati e quant'altro. Prima di arrivare a Mogadiscio, il bambino doveva abituarsi al nuovo cognome. D.: A chi apparteneva questo secondo cognome? R.: Era inventato. Totalmente. D.: E del padre naturale, se mai se ne avesse avuto traccia, cosa accadeva? R.: Per molti ragazzi che, fortunatamente, fino ad allora avevano traccia del padre naturale subentrava una rottura definitiva. Questi ragazzi non venivano considerati né cittadini somali né cittadini italiani: di fatto erano "apolidi". E molti sono rimasti apolidi: venivano portati in Italia con i lasciapassare e rinchiusi in collegi con le sbarre alle finestre. Possiamo civilmente considerarla deportazione? Non era una deportazione. Ma quasi... Un bimbo di pochi anni strappato al suo genitore naturale per chiuderlo in un collegio è abberante. D.: Quando avveniva il cambio anagrafico? R.: Come detto, nei collegi venivano affissi ogni tanto gli elenchi di tutti coloro che, non avendo ricevuto il riconoscimento della paternità, automaticamente subivano il cambiamento del cognome. Ma c'era di peggio. Per coloro i quali vi era un riconoscimento da parte del padre italiano, scattava la "cancellazione" del nome materno: il bambino diventava quindi figlio del Sig. Tizio, ma di "madre ignota". O avevi un padre ... o avevi una madre si riferivano alla leggi precedenti del fascismo. Impossibile la registrazione ufficiale di entrambi. Questo fino agli anni sessanta. D.: Quale percentuale di quei bambini compone oggi l'Associazione? R.: Direi un 60%. La maggior parte dei nostri associati è nata tra il 1948 e il 1960, quindi assolutamente dopo le famose leggi razziali. Il numero di italo-somali inizia a diminuire con gli anni sessanta e con l'indipendenza della Somalia. Per riassumere: il grande numero di nascite "miste" coincide proprio con l'arco di tempo che va dalla Repubblica italiana all'indipendenza somala [5]. Per iniziare a parlare di cittadinanza italiana (per la maggior parte dei ragazzi) dobbiamo riferirci alla visita di Aldo Moro a Mogadiscio (non ricordo se allora fosse Presidente del Consiglio o Ministro degli Esteri), prima della rivoluzione che ci fu in Somalia nel 1969. D.: Che richieste avanzate allo stato italiano? R.: Durante gli incontri avuti con il Ministero degli Esteri abbiamo chiesto di riconoscere la nostra storia e la nostra situazione ed approntare una sorta di risarcimento, che, badate bene, non è monetizzabile. Noi non chiediamo risarcimento in denaro. Abbiamo chiesto di istituire un ente morale gestito dagli italo-somali che sia presente a Mogadiscio, per rappresentare la storia e la specificità degli italo-somali che sono la più piccola Comunità presente oggi in Italia. Sebbene la maggior parte di noi sia perfettamente integrata, ha una famiglia e un lavoro regolare, vi sono alcuni che ancora vivono lo choc e il trauma psicologico subiti nell'infanzia: nei collegi si era comunque "figli del peccato" e la vita non era facile... Quando poi questi stessi giovani uscivano dai collegi - dove vi ricordo che l'educazione era assolutamente e rigorosamente cattolica e in lingua italiana - incontravano coetanei e compaesani che, ovviamente, parlavano il somalo e convivevano senza limitazione con la cultura materna. Questi ragazzi che vivevano nei collegi erano spaesati e confusi nella loro terra natia. Molti italo-somali non sapevano parlare la loro lingua materna. La cultura originale non esisteva più: era stata completamente sradicata, rimossa e cancellata. Erano stati educati oramai a sentirsi "figli di italiani" e diversi. Quando poi arrivavano in Italia, subivano la discriminazione di essere considerati "neri", africani. Scoprivano che non erano neanche italiani. In Somalia erano bianchi; in Italia sono neri. D.: Avete mai fatto un censimento interno attraverso i documenti e la storia di ognuno? R.: Stiamo cercando di raccogliere la documentazione. Ma non tutti hanno una documentazione completa. D.: State studiando azioni sia a livello nazionale che internazionale. Come vi muoverete? R.: L'ultima volta che siamo andati al Ministero degli Esteri ci hanno detto: "se volete proprio creare un caso, ponetelo in termini politici. Andate da uno sponsor del parlamento italiano, presentate la questione e ponete la questione in termini politici". Ovviamente, per noi il problema della cittadinanza non si pone: noi siamo tutti cittadini italiani. Ecco perché siamo stati rimandati al Ministero degli Interni... Il fatto che inizialmente il nostro interlocutore fosse il Ministero degli Esteri dipendeva dall'esperienza precedente di un'altra associazione denominata APIS - Associazione Profughi Italo-Somali - che era un'altra organizzazione, diversa dalla nostra. Si trattava di una associazione formata, a suo tempo, con scopi risarcitori nei confronti dello stato italiano che nel 1990 aveva evacuato dalla Somalia, a causa della guerra civile, tutti gli italiani che quindi avevano lasciato casa, lavoro e i loro averi. Dopo oltre dieci anni l'APIS ancora aspetta una concreta risposta risarcitoria dallo Stato italiano... Il nostro avvocato, un italo-somalo che vive e lavora a Londra, sta studiando cause internazionali collegate al cosiddetto "meticciato", soprattutto nei rapporti con le legislazioni inglesi e francesi di nota tradizione coloniale. Egli intende approntare una buona base giuridica per poter successivamente avanzare una solida azione legale, soprattutto tenendo presente e conto degli ultimi sviluppi avvenuti alla Conferenza sul razzismo di Durban. D.: Prevedete di avanzare un'azione legale allo stato italiano? R.: Abbiamo pensato che se l'Italia non provvederà da un punto di vista legislativo alla nostra questione, è praticamente inutile sottoporre un'azione legale. Non abbiamo con l'Italia nessuna chance giuridica. Non essendoci nessun provvedimento legislativo sul meticciato di conseguenza il problema per l'Italia non esiste. Il nostro caso va portato davanti al Tribunale Internazionale per poi passare alla Corte Europea. Con le sentenze esecutive di questi tribunali potremo rivolgerci poi ai tribunali italiani. A onor del vero abbiamo un'interrogazione parlamentare in corso risalente alla precedente legislatura, indirizzata al Ministero degli Esteri retto dal ministro Dini, che non ha avuto seguito. L'interrogazione era stata presentata dall'on. Landi di Chiavenna di An che ora la ripresenterà. Speriamo... ora al governo c'è il centrodestra. D.: Per quanto riguarda il discorso religioso, c'è qualcuno di voi che è tornato alla fede musulmana? R.: A Genova ci sono stati un paio di casi: in generale si contano - come vede - sulle dita di una mano. Siamo comunque tutti cattolici. D.: Foste battezzati tutti da bambini? R.: Era il primo passo che si faceva. D.: Che rapporti avete oggi con la Somalia? R.: La maggior parte di noi non parla somalo. Forse qualcuno lo capisce, ma non lo parla. Siamo sradicati. Qualcuno mantiene ancora rapporti di parentela materna. D.: Esiste in Somalia una comunità di italo-somali? R.: No. Oggi no. Dal 1990 non esiste più. D.: E le autorità somale? L'Ambasciata in Italia? R.: Bisogna dire che sono undici anni che non esiste la Somalia. L'ambasciata somala è solo un punto di ritrovo per i somali; non vi è ambasciatore, non vi è uno stato democratico somalo. E' rimasto il vecchio ambasciatore che si fregia di questo titolo ma non lo è più. Il fatto è che se dobbiamo chiedere un documento o un certificato andiamo nei rispettivi comuni di residenza, come tutti i cittadini italiani. Ben 153 metri lineari di documenti dell'AFIS sono negli archivi del Ministero degli Esteri. A noi interessa individuare i documenti che attestano l'accordo e le intese tra il Vicariato e il governo italiano. Altrimenti non si spiega perché siano stati tolti tanti figli alle proprie madri sotto la giustificazione, spesso falsa, che queste madri fossero indigenti. Su dieci nati nove passavano per il collegio... mi sembra un po' squilibrato il rapporto ... C'è qualcosa di strano che mi sfugge ... D.: Il Vicariato in Somalia ora non c'è più... R.: La sede del Vicariato è stata bombardata e rasa al suolo con le due chiese esistenti a Mogadiscio all'inizio della guerra civile. Sono rimaste poche suore che operano come volontarie. La Somalia è oggi "terra di nessuno". D.: Il processo di sradicamento culturale è stato totale? Nei collegi dove andavate voi c'erano bambini che fossero figli esclusivamente di somali? R.: C'erano ma non erano più somali: erano stati cattolicizzati anche loro. Nel collegio di Baidoa anche ai bambini esclusivamente somali veniva dato un un nome cattolico. Da Baidoa passavano poi a Mogadiscio: era un processo inverso. Essendo somali, loro si trovavano - se possibile - in una posizione peggiore rispetto alla nostra: erano neri, somali e non parlavano più la loro lingua e non professavano più la loro religione. Ce ne stanno molti di questi casi, ma non sono venuti in Italia. Sono rimasti in Somalia. D.: Per tirare le somme, oggi voi che siete cittadini italiani siete più trascurati dallo stato rispetto, ad esempio, agli immigrati? R.: Noi siamo "extracomunitari con passaporto italiano". D.: Avete scritto lettere a sindaci ed assessori? R.: Abbiamo scritto ai diversi sindaci che si sono avvicendati a Roma, così come a molti assessori, chiedendo anche una sede ufficiale. D.: Avete inoltrato una stessa lettera anche all'attuale sindaco? R.: No. Ci abbiamo rinunciato. Pare che la Regione Lazio sia stata un po' più attenta rispetto al Comune. Il presidente Storace ci ha fatto ricevere dal capo del gabinetto, un generale in pensione, che ci ha chiesto perché insistiamo tanto con una localizzazione della questione. Abbiamo risposto che vogliamo, non solo ragionare in termini europei, ma anche conquistare il riconoscimento di una storia contemporanea della Repubblica italiana che nessuno vuole ammettere. Al di là di aspetti storiografici, culturali e di ricordi che stanno a cuore più alla nostra Comunità che al resto del paese qualcuno potrebbe obiettare: ma questi italo/somali cosa vogliono? In Italia c'è una moltitudine di matrimoni misti e non si creano problemi ne risarcimenti morali etc etc. Vero! La società italiana odierna ha superato tante volte molti di questi aspetti, ma ... sono matrimoni voluti e non imposti con l'inganno, la sopraffazione, il colonialismo. Questa è la differenza sostanziale della storia degli italo/somali, italo/eritrei e italo/etiopi. La Costituzione repubblicana della Somalia si rifaceva ai Regi Decreti dello stato italiano. In essa vi erano delle postille che escludevano gli italo-somali da ogni ruolo amministrativo di un futuro governo somalo. Motivarono ciò sottolineando che noi italo-somali eravamo più colti ed istruiti rispetto ai somali che erano in via di formazione: ciò non era assolutamente vero perché io personalmente ricordo miei coetanei studenti che successivamente entrarono nella diplomazia e nei ruoli dirigenziali della Somalia e vi assicuro che non erano né meno dotati né meno abili. Se fossi rimasto in Somalia e avessi voluto partecipare alla vita pubblica somala sappiate che ciò non sarebbe stato possibile né fattibile: vi era un invisibile veto. In passato, prima della guerra civile, chiedemmo di prevedere nella nuova costituzione somala la doppia cittadinanza per gli italo/somali. Di noi non si parla e quando se ne dovrebbe parlare succedono fatti o avvenimenti più grandi e l'attenzione viene rivolta sempre altrove, come successe con la famosa missione IBIS [6], la morte della povera Ilaria Alpi, Ben Laden e la Barakaat oggi e così via ... Gli italo/somali sono una realtà, e direi il frutto proibito, della lunga relazione coloniale dell'Italia e della Somalia. Gli italiani non conoscono la nostra situazione. Molti non sanno neanche che la Somalia è stata una colonia italiana... Ci si chiede e si chiede - a 50 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, dopo aver riconosciuto gli errori razziali commessi contro gli ebrei italiani, 40 anni dopo l'AFIS - che paura possa avere uno Stato democratico e forte come l'Italia repubblicana di oggi a riconoscere i propri errori e a riconoscere senza preclusioni il male che è stato fatto agli italo/somali, la più piccola minoranza dello stato italiano. Barbara Faedda NOTE: [ 1 ] La definizione di minoranza forse più nota è quella elaborata nel 1977 da Francesco Capotorti: "Con il termine minoranza viene designato un gruppo che è numericamente inferiore al resto della popolazione di uno stato, in una posizione non dominante, i cui membri, essendo cittadini dello stato, possiedono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche che differiscono da quelle del resto della popolazione e mostrano, quanto meno implicitamente, un senso di solidarietà inteso a preservare la loro cultura, le tradizioni religiose o la lingua". [ 3 ] Sull'AFIS si riporta così come dal sito ufficiale www.italosomali.org/afis.htm: "C'è un lato oscuro della recente storia italiana post bellica. Esattamente, ci riferiamo alla Amministrazione Fiduciaria affidata all'Italia dalle Nazioni Unite nel 1950 e proseguita fino alla indipendenza della Somalia, sia britannica il 26 giugno 1960, che italiana al 1 luglio 1960. Questa documentazione recente è tutt'ora sotto chiave e chiusa al pubblico presso il Ministero degli Affari Esteri italiano. Tale documentazione è un insieme di atti che andrà letto, capito e interpretato in maniera scientifica, seria, attenta e scrupolosa. In questi atti, sicuramente, c'è una fetta importante che riguarda la Comunità Italo/Somala e ci riproponiamo di poter accedere a questa documentazione e di monitorizzarla in tutti i dettagli". [ 4 ] I collegi erano essenzialmente tre: Ionte, dove stavano i bambini più piccoli, da tre mesi a tre anni; Braava, per i bambini fino alla quinta elementare; Mogadiscio, per le scuole medie e il Liceo. [ 5 ] La Somalia diventa indipendente e nasce come Stato sovrano il 1° luglio 1960. Cessa in quel momento l'amministrazione fiduciaria italiana. [ 6 ] Sulla missione italiana denominata "IBIS" si rimanda, tra i tanti, all'articolo "Somalia. Le nuove foto della vergogna" di M. Gregoretti, pubblicato da Panorama il 13 giugno 1997. Nello stesso sito ufficiale dell'ANCIS è consultabile un amaro articolo di commento alle decisioni della Corte d'Appello di Firenze relative agli illeciti compiuti dai militari italiani dal titolo "Tutti assolti, anche l'unico soldato inquisito nella missione IBIS. Nessun colpevole tra i militari italiani dell'operazione: la giustizia e i diritti umani irrisi e calpestati da una "forza di pace" in casa propria". L'autrice dell'intervista è Barbara Faedda. La rivista che ospita l'articolo è la Rivista giuridica telematica "Diritto&Diritti", diretta dal magistrato F. Brugaletta all'indirizzo www.diritto.it/materiali/antropologia/faedda16.html.

Leggi razziali, Civiltà cattolica: Fini non conosce la storia

Roma, 16 dic (Velino) - Levata di scudi bipartisan dal mondo politico cattolico per le parole del presidente della Camera Gianfranco Fini che oggi, al convegno “Settant’anni dalle leggi antiebraiche e razziste, per non dimenticare” a Montecitorio, parlando dell’”infamia storica” delle leggi razziali introdotte in Italia nel 1938, ha chiamato in causa la Chiesa cattolica. “L’ideologia fascista non spiega da sola l’infamia - ha osservato il presidente Fini -. C’è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata, nel suo insieme, alla legislazione antiebraica e perché, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno da parte della Chiesa cattolica”. Un'affermazione rispedita al mittente dal vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi (Pdl): “Qualunque storico, anche lontano dalla Chiesa cattolica e indifferente alla sua dottrina, può illustrare centinaia di documenti che dimostrano l’agire corretto per la tutela dei diritti dell’uomo, così come l’impegno mai venuto meno e finalizzato alla difesa della persona umana e, in particolare, a quella del popolo ebraico” ha commentato Lupi. “La Chiesa ha sempre con forza contrastato le leggi razziali, cercando di aiutare gli ebrei perseguitati anche a rischio della vita di numerosi sacerdoti, suore e laici. Questi sono i fatti - continua Lupi -, lo testimoniano le pagine dalla storia. Dispiace che anche Fini, di cui ho altissima stima, si sia adeguato a luoghi comuni che si sono imposti in questi anni”. Sulla stessa linea il deputato del Pd, Enrico Farinone: “Sul fatto che leggi razziali fossero un’infamia siamo d’accordo. Sul fatto che nemmeno la Chiesa sia opposta no. Il presidente Fini dimentica figure come quelle del cardinale Schuster a Milano o di don Pappagallo a Roma. Per non parlare delle migliaia di ebrei che furono ospitati nei palazzi del curie o nei conventi e dei laici che si opposero alla barbarie. Generalizzare non serve”. E per Luca Volontè dell'Udc, dare "credito" a un "falso storico come la mancata opposizione della Chiesa alle leggi razziali" è "una scelta ideologica e opportunistica". (segue) Ma l’affondo più duro è arrivato a Fini da padre Giovanni Sale, scrittore della Civiltà Cattolica e autore tra l’altro di due recenti articoli sulle leggi razziali che illustrano la posizione del Vaticano contro il manifesto della razza. In una intervista all’Ansa, Padre Sale definisce le dichiarazioni di Fini “sconcertanti”. “La posizione della Santa Sede fu chiara – spiega padre Sale -, è riconosciuto dalla storiografia più recente e dagli studiosi più seri che Pio XI fu l’unica personalità in Europa ad opporsi a viso aperto sia a Mussolini che a Hitler sull’antisemitismo e sul razzismo”. Evidentemente Fini “non conosce una pagina di storia nazionale che vede contrapposti Mussolini e Pio XI”, attacca il religioso, o forse le dichiarazioni del presidente della Camera sono frutto di una “svista, di un cercare un correo a delle responsabilita’ che il presidente Fini vuole in parte coprire che fanno parte della sua storia, anche se non di quella recente”. Padre Sale ricorda che Pio XI prese posizione di “aperta condanna” sia contro il razzismo sia contro le leggi razziali: “dagli inizi del pontificato condanno’ il razzismo eugenetico cosi’ come era praticato in Germania ma anche negli Stati Uniti”. E in l’Italia, condanno’ “il manifesto della razza, atto ideologico da cui scaturirono le leggi razziali”. “Disse a Mussolini - ricorda padre Sale - che non era bene che si mettesse sullo stesso piano del suo collega tedesco, ci fu una schermaglia molto forte tra Mussolini e il Papa su questa vicenda”. A partire da settembre e poi fino a novembre del ‘38, durante i mesi di elaborazione delle leggi razziali, ricorda lo storico di Civiltà Cattolica, Pio XI fece di tutto “per bloccare innanzitutto l’emanazione di questa legge e non potendo ottenere questo, per ridurne al minimo gli effetti nocivi e discriminatori nei confronti degli ebrei, naturalmente dal punto di vista diplomatico e nei limiti di cio’ che poteva fare”. “Alla fine – conclude padre Sale - Pio XI fu sconfitto su tutta la linea e Mussolini ebbe la meglio, pero’ va detto che il Papa fu l’unico in quel tempo che si oppose con le sue forze e nell’ambito della sua competenza alle leggi razziali”. A partire da settembre e poi fino a novembre del ‘38, durante i mesi di elaborazione delle leggi razziali, ricorda lo storico di Civiltà Cattolica, Pio XI fece di tutto “per bloccare innanzitutto l’emanazione di questa legge e non potendo ottenere questo, per ridurne al minimo gli effetti nocivi e discriminatori nei confronti degli ebrei, naturalmente dal punto di vista diplomatico e nei limiti di cio’ che poteva fare”. “Alla fine – conclude padre Sale - Pio XI fu sconfitto su tutta la linea e Mussolini ebbe la meglio, pero’ va detto che il Papa fu l’unico in quel tempo che si oppose con le sue forze e nell’ambito della sua competenza alle leggi razziali”. Parlando alla presentazione del libro di Renato Venditti “La cricca” Fini è poi tornato sulla questione, respingendo le polemiche definite “segno di un brutto segnale dell'imbarbarimento della fase in cui ci troviamo”. Il presidente della Camera ha quindi ribadito le sue le sue parole sulla Chiesa: “Riscriverei pari pari questo concetto che ho elaborato leggendo qualche giorno fa un documento del Vaticano del 2000 dal titolo ‘Memorie e riconciliazione: la Chiesa e gli errori del passato’”. “Allora ci fu indifferenza – insiste il presidente della Camera -, non vi fu la necessità morale di una ribellione. Il fascismo aveva monopolizzato l'informazione e l'educazione, era un regime – ha concluso - che non tollerava il dissenso anche se ci furono esempi luminosi di dissenso”.

Il Presidente della Camera On. Gianfranco Fini

Caro Presidente Fini, Lei fa bene a prendere distanzia dalle leggi razziali, ma non lo faccia acusando gli altri piutosto faccia un autocritica seria e profonda di se e del suo partito. Le vittime delle leggi razziali in Eritrea in parte sono ancora in vita attendono giustizia la non c'era chiesa cattolica dominante, anzi qualche vescovo che levo la sua voce per condannare il fascismo, fu chiesta l'espulsione dal territorio da parte di Mussolini. ---------------------------------------0--------------------------------------------- LEGGI RAZZIALI: STORICI CATTOLICI A RADIO VATICANA, CHIESA REAGI' SUBITO (ASCA) - Citta' del Vaticano, 16 dic - ''La Chiesa reagi' subito alle Leggi razziali del 1938'': il Vaticano affida la risposta alle critiche del presidente della Camera Gianfranco Fini a due storici cattolici, Francesco Malgeri e Andrea Riccardi, intervistati dalla Radio Vaticana. ''Non e' vero che la Chiesa italiana non si oppose alle Leggi razziali del 1938. Dal mondo cattolico arriva secca la smentita alle parole del presidente della Camera, Gianfranco Fini, che oggi a Montecitorio ha definito le Leggi razziali un'infamia verso la quale neanche la Chiesa cattolica manifesto' resistenza'', spiega l'emittente pontificia nel servizio, che definisce quelle di Fini vere e proprie ''accuse'' e ricorda come la ''storia abbia visto contrapposti Mussolini e Pio XI, il quale sia contro il razzismo che contro le leggi razziali prese posizione di aperta condanna''. Per Malgeri, docente di storia contemporanea alla Facolta' di Scienze politiche dell'Universita' La Sapienza di Roma, dire che la Chiesa cattolica non manifesto' nessuna resistenza nei confronti delle leggi razziali e' ''un'affermazione eccessiva''. ''La Chiesa - aggiunge - deve muoversi su un piano legato anche alla sua collocazione sul piano diplomatico e doveva tener conto anche dei rischi che determinati atteggiamenti, particolarmente forti, potevano avere sul mondo cattolico, sulle popolazioni, sui complessi problemi che in quel momento erano al centro della vita internazionale. Anche in occasione delle Leggi razziali, la Chiesa forse uso' in un primo tempo un atteggiamento piu' prudente, ma non mancano indubbiamente prese di posizione da parte del clero, delle gerarchie ecclesiastiche, di condanna e comunque di presa di distanza molto ferma rispetto a quelle leggi''. Riccardi, invece, fondatore della Comunita' di Sant'Egidio e docente di Storia contemporanea presso la Terza Universita' degli Studi di Roma, definisce quello di Fini ''un buon testo in un momento come questo'', ''una bella presa di distanza'' in un'epoca segnata da ''una risorgenza di antisemitismo, di antigitanismo, di movimenti di destra''. Ma, aggiunge, non e' vero che la Chiesa non oppose resistenza alle leggi razziali. ''Resistette come una forza debole quale era la Chiesa in una realta' di regime autoritario. E poi, la Chiesa resistette durante l'occupazione tedesca con l'aiuto agli ebrei. Quindi, mi sembra che la Chiesa, a suo modo, resistette. Il vero, grande problema e' che quello era il fascismo, una dittatura che non lasciava spazi e mortificava la liberta'''. Piu' in generale, Riccardi nota come la ''Chiesa del 1938, del 1943, non era la Chiesa di oggi''.

domenica 14 dicembre 2008

Misratah: appello di sei studenti eritrei perseguitati

Pubblichiamo questo appello, in inglese, scritto da un gruppo di sei studenti universitari eritrei detenuti nel carcere di Misratah, in Libia, come migranti irregolari. Hanno lasciato l'Eritrea perchè perseguitati politicamente dopo le manifestazioni universitarie del 2001. Sono stati arrestati dalla polizia libica mentre tentavano di raggiungere l'Italia per chiedere asilo politico. L'appello è stato scritto nel mese di agosto 2008. Oggi, alcuni degli studenti firmatari di questo appello sono riusciti a arrivare in Italia. Altri vivono clandestinamente a Tripoli, in attesa di partire per Lampedusa. Altri invece sono ancora dentro il campo di detenzione. To whom it concerns Dear Sirs, first of all we would like to extend our warmest and deepest greetings. Indeed we would like to say thank you for your endless effort that you have done to rescue us from being deported and falling into problems. We are writing this letter regarding our unique problem. We are a group of university and colleague students who escaped out from our country, for safety and security reasons, due to the dictatorial regime existing in our country. PFDJ is the only single political party which is owned and backed by government. The party has plotted a lot of conspiracies to undermine and dismantle the foundation of higher level education institutions, to mention some of them: - introducing new curricular meters - dispatching high school completed students to Sawa - implementing a compulsory summer work campaign - forbidding individuals to work in private sectors - inception salary payment A typical example of all mentioned above is the August 2001 clash between the government and the university students. The clash was broken out after the proclamation of compulsory summer work campaign and the argument of the Students Union of Asmara University. On this circumstance the government initially fabricated lies upon us and broadcasted it through the media, so that we would be assumed as betrayers to the nation. Besides on its propaganda the government distributed to the society as if we had advice with and were fully supported by the foreign powers and to be assumed the country’s security is in danger. Consequently we are condemned to be jailed in Wea area, where temperature often reaches 45 degrees, which took the lives of two innocent students. In continuation of its weakening policy against higher education the government was determined to and closed down the University of Asmara, the only University in the history of the country. Without any opposition from the society the government in replacement opened Eritrean Technology Institute, a colleague which is totally under military administration and aimed to turn individuals into military scholars. At the moment anybody who is a member of higher education society faces: 1. Control over his daily movements from the society even his closest friends; 2. Opposition against him, no matter weather his suggestion was productive; 3. Interrelating his opinions with politics, so that he wouldn’t get involved in any social activities again; 4. Compulsory forced employment under PFDJ-Organisation and putting more pressure on him to take responsibilities; 5 While imprisoned in different occasions he would be blamed for the 2001 clash as main designer; 6. Banning individuals from holding education documents By changing the attitude of the society towards the worthless of higher educational society and extracting more pressure on us the government came out victorious on its policy against higher educational society. They seal the hatred and atrocity that had been practiced when we are in our country or are implemented here in this detention camp of Misratah. And any minute, if we are deported this community will be on the government in charging us. This will make us suffer more than anybody else of even loose our lives. This all is only because they think we are educated. But jet we do not feel so, even our education appetite is not fulfilled. Looking all the facts behind us, we are afraid and under heavy mental pressure. So we apply collectively, believing we would get a solution to all our problems including this two years imprisonment. We kindly request our secrets and opinions be kept as much as possible. Thank you. 6 Students, Misratah August 2008 testo raccolto da Roman Herzog

Le giornate di Amnesty ad Agrigento

Oggi e domani in tutto lo stivale, si celebrano le Giornate Amnesty 2008. Anche ad Agrigento, come nelle principali città d'Italia, un gazebo di Amnesty International è presente per distribuire materiale informativo e offrire un panettone artigianale prodotto da una pasticceria locale, in cambio di un'offerta minima di 10 euro. Il ricavato dell'iniziativa servirà a finanziare le attività dell'organizzazione per i diritti umani. Nel stesso tempo, Angelo Palillo, responsabile delle relazioni esterne di Amnesty della città dei templi, insieme ad altri volontari, stanno raccogliendo adesioni. Attraverso l'apposizione di una firma si possono sostenere i diritti di tre prigionieri. Nello specifico, si tratta di una donna attivista dei diritti umani in Eritrea, arrestata nel 2001, senza una ragione valida e tenuta in cella senza un regolare processo. Una messicana, carcerata e violentata dagli agenti di polizia e ancora un prigioniero di "coscienza" dell'Iran, Paese dove non esiste la tutela dei diritti umani. "Le firme - ha spiegato Palillo - [i]verranno inviate ai governanti dei Paesi in questione. In questo modo, nella maggior parte dei casi, siamo riusciti ad ottenere la tutela dei loro diritti. Salvarne almeno uno, per noi è già un grande risultato. In realtà da studi statistici fatti dalla nostra associazione, di solito riusciamo a salvare oltre il 30 per cento dei sostenuti"[i/]. Amnesty International, infatti, premio Nobel per la pace, costituita nel 1962 da un avvocato inglese, in tutti questi anni si adopera al fine di garantire la tutela dei diritti umani in tutto il globo. L'associazione promuove, inoltre, campagne su una Nazione o su un tema specifico, realizza progetti educativi per favorire l'adesione ai valori della Dichiarazione universale dei diritti umani e organizza eventi al fine di sensibilizzare l'opinione pubblica. Il gazebo, collocato a Porta di Ponte, rimarrà a disposizione dei passanti nella giornata di oggi e domani.

L'Africa incontrata nel cuore delle Langhe

Il missionario nel ricordo del decano del collegio cardinalizio di Angelo Sodano Personalmente, ho un dovere di riconoscenza al nostro amato cardinal Massaja, perché la sua figura di intrepido missionario sempre mi accompagnò nel corso della vita, come faro luminoso sul mio cammino. Nel seminario di Asti, ove mi preparai al sacerdozio, la tipica personalità del Massaja si ergeva dinnanzi a noi circonfusa di grande luce, insieme ai santi della nostra terra, insieme a don Bosco, al Cafasso, al Cottolengo, al Marello, al Murialdo e a tanti altri benemeriti sacerdoti e religiosi che hanno scritto pagine bellissime nella storia della Chiesa. Ricordo come fosse ora l'impatto che fece in me, appena tredicenne, la celebrazione del cinquantenario della santa morte del Massaja. Tale celebrazione avvenne proprio nella bella chiesa parrocchiale di Piovà. Con i seminaristi di Asti, ben stipati in due corriere, mi avviai anch'io verso quel bell'angolo del nostro Monferrato. Fu una manifestazione che mi impressionò particolarmente, dopo aver sentito parlare diffusamente delle gesta eroiche del generoso figlio di quella terra, tanto da parte del nostro venerato vescovo monsignor Umberto Rossi, quanto da parte di monsignor Leone Giacomo Ossola, vicario apostolico di Harar in Etiopia. Le parole di quest'ultimo vescovo, cappuccino come il Massaja e profondo conoscitore delle eroiche gesta del suo confratello, mi rimasero scolpite nel cuore. Veniva proprio da quelle terre che videro l'apostolato del Massaja e ci parlava della profonda gratitudine di quelle comunità cristiane verso il loro antico pastore. Nel corso dei miei lunghi anni di servizio alla Chiesa, prima come presbitero e poi come vescovo, cercai poi di conoscere meglio la figura del Massaja; scorrendo i volumi da lui scritti per ordine del Papa Leone xiii, I miei trentacinque anni di missione in alta Etiopia e leggendo i numerosi scritti che trovavo nelle nostre biblioteche. La bella foto del Massaja, con la sua croce pettorale, con la sua fluente barba bianca e il suo inseparabile bastone, divenne familiare anche per me e sempre mi ricordava quest'eroico araldo del vangelo. Conoscendo poi meglio la storia dell'evangelizzazione dell'Africa nel secolo xix, iniziai ad associare il nome del Massaja a quelli del santo monsignor Comboni, apostolo del Sudan, del Beato Justino de Jacobis, apostolo dell'Abissinia Settentrionale. Con monsignor Comboni, del resto, il Massaja aveva grande familiarità e il Padre Justino de Jacobis fu addirittura consacrato vescovo dell'Abissina settentrionale dallo stesso Massaja, vicario apostolico dei Galla. Vorrei anzi che oggi ricordassimo insieme queste tre nobili figure di vescovi missionari, che, durante il grande impegno missionario della Chiesa italiana nel 1800, segnarono una pagina importante nella storia religiosa del continente africano. Oggi sentiremo delle relazioni interessanti sull'opera del Massaja, da parte degli Accademici qui presenti. Da parte mia vorrei solo citare le parole autorevoli del quotidiano della Santa Sede che, dopo la santa morte del nostro Cardinale, così scriveva: "Con la morte del cardinal Massaja sparisce una delle più grandi figure del Sacro Collegio, uno dei campioni più venerandi della Chiesa, uno degli uomini più benemeriti dell'umanità". (cfr. "L'Osservatore Romano" 9 agosto 1889, pagina uno). Sono parole che ben descrivono la stima e l'affetto di cui il nostro cardinale era circondato nella Curia romana. Del resto viene comunemente citata l'esclamazione che avrebbe pronunziato il Papa Leone xiii, nell'apprendere la notizia della scomparsa del cardinale, in quel 6 agosto del 1889, Festa della Trasfigurazione, e cioè la nota esclamazione: "È morto un Santo"! Certo, anch'io credo che fosse un santo, ma dobbiamo pregare perché possiamo presto venerarlo come tale sui nostri altari, insieme a tante figure di uomini generosi che hanno sacrificato la loro vita per la diffusione del Regno di Dio nel mondo intero!

I settemila chilometri di Abuna Messias

Aperte le celebrazioni per il bicentenario della nascita di Guglielmo Massaja Il convegno "Guglielmo Massaja 1809-1909, all'Africa attraverso l'Africa", organizzato dalla Società geografica italiana, ha aperto a Roma le celebrazioni per il bicentenario della nascita del missionario cappuccino. Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento di uno dei relatori. di Mauro Forno Il nome di Massaja si lega oggi soprattutto all'esperienza da lui vissuta per quasi trentacinque anni nelle terre del vicariato apostolico dei Galla, nella parte sud-occidentale del grande altopiano etiopico. Fu una delle vicende di maggior rilievo e durata vissute da un missionario cattolico in terra africana. E fu anche un'esperienza umana pastorale dai caratteri sorprendenti, segnata come fu da non meno di otto traversate del Mar Mediterraneo, da dodici del Mar Rosso, da oltre settemila chilometri percorsi a piedi o sul dorso di animali, in luoghi in cui i missionari erano generalmente uccisi dal clima e abitudini di vita quasi insostenibili per un occidentale. Nel corso dei decenni la sua figura ha tuttavia incarnato anche altri significati, non sempre legati all'azione da lui effettivamente svolta sul campo, mentre ancora quando Massaja era in vita diverse ragioni contribuirono a farne un personaggio quasi leggendario tra l'opinione pubblica del suo tempo. Tra queste ultime, si potrebbero ricordare l'ascendente esercitato dalla sua figura affascinante e severa, la sua avventurosa esistenza, che lo condusse in diverse occasioni a un passo dalla morte e il suggestivo appellativo, Abuna messias, con cui fu ben presto identificato in Africa e in Europa. Altre ragioni si legarono invece a circostanze esterne alla sfera individuale, tra queste la straordinaria attrattiva esercitata, proprio negli anni in cui Massaja fu missionario, dalle grandi esplorazioni in terre esotiche e in Africa in particolare: una vera e propria febbre che si diffuse tra l'opinione pubblica europea, con in prima linea gli ordini religiosi più impegnati nel campo missionario. La vicenda massajana vide per giunta il suo dispiegarsi nel periodo in cui nuovi spiragli di navigazione attraverso il Nilo e i lavori per la costruzione del canale di Suez iniziarono a stuzzicare gli appetiti delle potenze europee verso terre sino ad allora quasi inesplorate. E va osservato che fu Massaja stesso a favorire - indirettamente - la prima "esplorazione geografica" post-risorgimentale dell'Italia in terra africana. Non fu dunque un caso se il 17 dicembre 1889, nel presentare al Parlamento italiano le carte diplomatiche per giustificare il suo interessamento all'Etiopia, Francesco Crispi attinse a piene mani dal carteggio massajano e fece riprodurre, proprio come primo dei documenti, una lettera indirizzata nel gennaio 1857 a Massaja dal direttore capo per i consolati e il commercio del ministero degli Esteri del regno di Sardegna, Cristoforo Negri, che sarebbe poi diventato presidente della Società geografica italiana. Alcuni studiosi, soprattutto in passato, hanno scorto proprio in questo specifico documento le radici di un interesse italiano per l'Africa orientale e per l'Etiopia in particolare. Sul piano ecclesiale, fu principalmente Papa Leone xiii a cogliere in Massaja una figura degna di attenzione, oltre che un'icona del mondo missionario, promuovendolo prima arcivescovo e poi cardinale, come segnale tangibile di approvazione del suo approccio all'evangelizzazione. Fu quello l'inizio di una stagione della memoria lunga e fortunata per Massaja, la cui fama, rafforzandosi negli anni a cavallo tra i due secoli, conobbe un deciso balzo soprattutto durante il ventennio fascista, ancora una volta in gran parte per ragioni di tipo politico. Gli assertori della vocazione "imperiale" del Paese, ponendosi nella prospettiva evocata da Crispi e forzando strumentalmente i documenti massajani, individuarono proprio in lui la figura dell'anticipatore, per non dire del propugnatore, dell'espansionismo coloniale italiano in Africa. Per giustificare le proprie tesi, questi ardenti celebratori del mito dell'Italia coloniale si riallacciarono questa volta a una diversa vicenda diplomatica che vide protagonista Massaja: l'appoggio fornito nel giugno 1872 - su pressioni esercitate dal futuro negus, Menelik ii - a un'ambasceria destinata a re Vittorio Emanuele ii, primo contatto "ufficiale" e "di vertice" tra un regno dell'Africa orientale e lo stato italiano. La conferma del notevole interesse sollevato nel corso degli anni dalle vicende massajane si ricava oggi dal numero di analisi a esse dedicate da giornalisti, esploratori, uomini di chiesa, politici, studiosi. Secondo un censimento compiuto nel 1967, la bibliografia massajana contava a quella data oltre 2.150 titoli. E va detto che nel computo generale non furono inseriti gli interventi di carattere giornalistico, i discorsi pubblici e altri importanti tipologie di testimonianze, come ad esempio quelle cinematografiche. Un discorso completamente diverso va tuttavia fatto se si guarda al livello scientifico di queste pubblicazioni. La gran parte di esse appare infatti quasi esclusivamente tesa a privilegiare gli aspetti fascinosi ed eroici della figura del missionario cappuccino, risultando viziata da un'inclinazione all'agiografia, da una sostanziale reticenza sugli aspetti spinosi della sua azione missionaria, da una certa approssimazione persino nella trascrizione dei documenti. Quest'ultimo limite non ha risparmiato nemmeno l'opera autobiografica di Massaja. I dodici volumi delle sue monumentali memorie, pubblicati in parte postumi tra il 1885 e il 1895 con il titolo I miei trentacinque anni di missione nell'alta Etiopia, presentano infatti differenze abbastanza vistose rispetto al manoscritto vergato dal cardinale cappuccino per desiderio di Leone xiii e recentemente riportato alla luce da padre Antonino Rosso (studioso a cui si deve anche la pubblicazione della raccolta documentaria di maggiore rigore e interesse su Massaja). Accostarsi oggi con un approccio scientifico all'esperienza massajana non è certo un'impresa di poco conto, soprattutto se si considera che il cardinale cappuccino fu missionario in Africa nel bel mezzo del fenomeno di accaparramento di territori avviato dalle potenze europee durante l'ultimo quarto dell'Ottocento. Particolarmente importante per la sua vita missionaria fu il periodo compreso tra il 1846, anno di fondazione del vicariato apostolico dei Galla, di cui egli fu nominato da Gregorio XVI primo vicario apostolico, e il 1880, anno in cui fu sottoscritta la rinuncia definitiva al vicariato stesso. All'interno di questo arco temporale, soprattutto il primo decennio missionario, trascorso nei territori degli oromo del sud-ovest dell'Etiopia, fu quanto mai intenso e anche particolarmente difficoltoso, a causa di condizioni ambientali precarie e di una quasi totale assenza di contatti con l'Europa e con le gerarchie ecclesiastiche romane. Dal punto di vista politico, piuttosto interessanti appaiono invece, per gli studiosi di oggi, le iniziative da lui avviate nella seconda metà del secolo presso i governi europei e le strategie da lui messe in atto nei rapporti con le varie presenze religiose in Africa orientale, soprattutto con quella musulmana e con i ministri della Chiesa cristiana ortodossa. Chiamato forse oltre le sue intenzioni - e gli strumenti culturali e politici di cui poteva disporre - a rappresentare uno dei bracci religiosi e diplomatici dell'azione missionaria pontificia in Africa, Massaja divenne da quel momento anche un punto di riferimento per le strategie francesi, inglesi e italiane nell'area del mar Rosso. La missione di Massaja in Etiopia ebbe di fatto termine il 3 ottobre 1879, vale a dire l'anno precedente quello della rinuncia ufficiale al vicariato, quando il missionario cappuccino fu espulso dai territori dell'impero per ordine dell'imperatore Johannes iv, insospettito dal ruolo - non ufficiale - di consigliere per gli affari politici e diplomatici, da lui svolto presso la corte del re Menelik ii, sovrano concorrente di Johannes per l'ascesa al ruolo di imperatore. Massaja si spense a San Giorgio Cremano il 6 agosto 1889 e nel 1914 fu avviato l'iter della causa di beatificazione, poi improvvisamente sospeso da Benedetto xv nel gennaio 1916, senza addurre alcuna motivazione scritta. Fu riavviato solo in tempi relativamente recenti, il 22 maggio 1993, quando il prefetto della congregazione delle Cause dei Santi rese pubblica una specifica determinazione in tale senso espressa da Giovanni Paolo ii. Forse proprio il nuovo impulso impresso dal riavvio della causa di beatificazione ha contribuito a produrre un tangibile ritorno di interesse per la figura di Guglielmo Massaja. (©L'Osservatore Romano - 13 dicembre 2008)