sabato 2 ottobre 2010
Porte chiuse d'Europa
di Marco Benedettelli, Gilberto Mastromatteo - CALAIS
A Calais centinaia di migranti vivono in tendopoli e baracche. Sognano di raggiungere l'Inghilterra, dall'altra parte della Manica. Un viaggio che a volte finisce in tragedia. E ogni giorno devono fare i conti con gli sgomberi e le aggressioni della polizia transalpina
Gli agenti delle Crs, il reparto celere della Police nationale se ne sono andati da qualche ora. Hanno portato in commissariato due ragazzi eritrei senza documenti. Li rilasceranno dopo 24 ore. È il bottino dell'ennesima irruzione all'Africa House, un vecchio mobilificio abbandonato dove dormono gli africani di Calais. Il sonno di un migrante, qui dove Francia e Inghilterra sono separate da 34 chilometri di Manica, è sempre disturbato. I blitz della polizia sono praticamente quotidiani. Ad annunciarli spesso sono i fischietti dei «NoBorders», un gruppo di attivisti che ha sede in Uk. Si alternano continuamente, squattano assieme ai rifugiati, presidiano le jungle e tentano di filmare le aggressioni. I migranti lamentano continue provocazioni da parte delle forze dell'ordine, la notizia più recente è il pestaggio di un ragazzo sudanese eseguita da sette poliziotti.
Il 15 settembre è stato sgomberato un accampamento a Loon Plage, vicino Dunkerque, al confine con il Belgio. Al suo interno vivevano una dozzina di afgani tra i 14 e i 17 anni, di cui si è persa ogni traccia. A darne notizia è stata l'associazione Médecins du Monde, che sta tenendo il diario della diaspora. Lo scorso anno, infatti, erano almeno 1200 i migranti che vivevano ammassati attorno al porto di Calais. Poi ci furono gli sgomberi e le espulsioni volute dal governo sarkozista. Oggi sono circa duecento, un terzo dei quali minorenni. «Mai come ora, però, la loro situazione è precaria - denunciano i volontari di MdM, che da gennaio ad agosto 2010 hanno svolto più di 1.200 interventi con le loro cliniche mobili - la maggior parte delle patologie sono legate alle condizioni sanitarie: ripari di fortuna, difficile accesso all'acqua e ai servizi igienici, mancanza di una gestione dei rifiuti».
Nati per scappare
Qualcuno ora, passato il pericolo, inizia a rientrare dopo essere rimasto nascosto al parco Richelieu o sotto un ponte. Nessuno sembra sorpreso. «Ormai siamo abituati a scappare» spiegano intorno a un fuoco acceso fra le tavole di legno dell'edificio che cade a pezzi. «Tra poco questo squat verrà sgomberato, è solo questione di tempo. È già successo con la vecchia Africa House, dove dormivamo prima».
Mohamed, 19 anni, viene dal Ciad: «Attraversare la Manica è difficile e pericoloso. Ma non abbiamo altra scelta - racconta - dobbiamo aspettare che gli smugglers ci diano il via libera. C'è chi si attacca sotto i tir e chi si cala sui treni da un ponte qui vicino. Spesso qualcuno cade e muore». In questi anni è successo più di 30 volte. Il 21 aprile scorso un ragazzo afgano di 16 anni è morto a Dunkerque, investito dal camion sotto il quale si era nascosto per imbarcarsi su un traghetto diretto in Inghilterra. Ma c'è chi perde la vita sventrato dai treni che sfrecciano a 160 all'ora nell'Eurotunnel, la galleria che collega le due sponde della Manica. Qualcuno resta soffocato, all'interno dei tir, con un sacchetto sulla testa, nel disperato tentativo di sfuggire ai rilevatori di anidride carbonica. «Si può morire sempre» dice Mohamed, fissando il suolo. Come molti a Calais parla un discreto italiano. Qui, tra le varie comunità migranti, è quanto meno la seconda lingua. L'Italia è stata quasi per tutti il primo approdo all'Europa. Afgani e curdi, ma ormai anche sempre più africani arrivano nei porti dell'Adriatico - Ancona, Bari, Brindisi, Venezia - seguendo il vettore migratorio che passa dalla Turchia e dalla Grecia e salgono poi verso la Francia. Incontriamo due giovani sudanesi che avevamo conosciuti a luglio, alla railway di Patrasso. Dormivano dentro un convoglio di vagoni abbandonati, in un'area poco distante dal porto, assieme ad altre centinaia di migranti in attesa di partire per l'Italia. «Ci siamo imbarcati sotto un tir e siamo approdati ad Ancona - raccontano - poi abbiamo preso il treno e abbiamo sconfinato». Perché Calais? «È l'ultima tappa per arrivare in Inghilterra - dicono sciogliendosi in un sorriso emozionato - lì abbiamo parenti e amici, cercheremo un lavoro».
Altri sono approdati in Europa un paio di anni fa, prima che il canale di Sicilia divenisse un'aera off limits, pattugliata dalle motovedette di Gheddafi. Conoscono i Cie e le prefetture. Città come Ancona, Bari, Brindisi, Venezia, Rosarno, Roma, Crotone sono note più di Marsiglia, Lione, Nantes o Parigi. In prevalenza sono rifugiati, molti sotto protezione sussidiaria. E in Italia hanno lavorato, senza riuscire a sistemarsi. Ora cercano fortuna in Gran Bretagna, passando dalle forche caudine del passo francese più settentrionale. Anche Mahmoud, eritreo, pensa solo a come arrivare dall'altra parte. È sbarcato a Porto Empedocle nel 2007. Poi, per due anni e mezzo è vissuto nei pressi di Agrigento, lavorando in nero in un albergo. Canta in perfetto italiano il ritornello rap di un noto pezzo di Fabri Fibra: Voglio andare in Inghilterra. Qui è il sogno di tutti.
A ogni guerra una nuova ondata
Calais è una delle città simbolo, la valvola migratoria d'Europa. Un confine interno all'area Schengen, così lontano eppure così simile alle frontiere che cingono la «fortezza» a sud. I primi migranti sono arrivati alla fine degli anni '90. Ad ogni guerra una nuova ondata di arrivi. Storie racchiuse nell'epopea di Bilal, il giovane curdo in fuga dalla guerra che voleva attraversare la Manica a nuoto, raccontata lo scorso anno dal film «Welcome».
Oggi pare che la rotta si stia spostando più a est, lungo la Danimarca e verso i paesi scandinavi. Eppure i trafficanti di uomini non hanno mai smesso di operare, raccontano i volontari dell'associazione Salam, che ogni giorno servono ai migranti un pasto caldo, oltre a medicine e vestiti. «Un viaggio dall'Afghanistan a Londra costa circa 15 mila euro - spiega Sylvie Copians - solo il passaggio da Calais e Dover ne costa 1500. Vogliono andare in Inghilterra perché credono che sarà più facile trovare lavoro e così potranno ripagare questi soldi alle loro famiglie. Troppo spesso, specie per i sans papier, non è così semplice». Ma non è semplice neppure dare una mano ai migranti. L'associazione Salam è stata chiamata in giudizio per ben sette volte, dal 2003 a oggi. La prima volta fu Jean Claude Lenoir, il fondatore, a venir denunciato, perché ospitava in casa sua dei rifugiati.
Intanto la mappa delle tendopoli, degli slum e degli squat cambia continuamente a causa degli sgomberi operati degli agenti della Crs. Somali ed eritrei oggi vivono nell'Africa House, i sudanesi in alcune case abbandonate, tutt'attorno a Calais. Uno degli accampamenti afgani è sotto al ponte che separa il Bassin de la Batellerie dall'Arrière Bassin, nei pressi di Place de Norvège. Poche tende. La maggior parte degli afgani, divisi tra hazara, tagiki e pashtun, sono accampati nelle jungle, che si estendono a un'ora di cammino dal centro, in un'area di dune e macchie boschive.
Solo un anno fa, il 22 settembre, la zona fu teatro di un eccezionale sgombero. Il vecchio campo, dove vivevano fino a 800 migranti afgani pashtun, venne completamente smantellato. In manette finirono 276 afgani, 130 erano minorenni non accompagnati. Per decisione del governo, e in particolare del ministro dell'immigrazione Eric Besson, vennero espulsi quasi tutti dalla Francia, senza tener conto del loro status di rifugiati da paesi in guerra e in barba alla Convenzione di Ginevra. Chi era riuscito a sfuggire agli arresti del 2009, è presto rientrato fra quelle sterpaglie. Tocchiamo con mano la paura in cui vivono gli afgani quando ci spingiamo nella jungle, alla loro ricerca. L'area, presso la zona industriale, è un «non luogo» piatto e schiacciato dal cielo plumbeo. Sentiamo il loro vociare dietro un cespuglio, sono una ventina e stanno cucinando. Appena ci avviciniamo, scappano fino a perdersi nella macchia, terrorizzati. Una fuga iniziata per scappare dalla guerra nel loro paese. E che ora continua sotto l'incubo dei rimpatri.
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