di Emilio Drudi
Una intera squadra
navale della Marina Militare. Rafforzata da aerei ed elicotteri da
combattimento. La compongono la nave d’assalto “San Marco”, l’ammiraglia, sede
del comando dell’intera missione, dotata anche di elicotteri a lungo raggio;
due fregate lanciamissili con 250 uomini d’equipaggio e un elicottero; due
corvette, due pattugliatori d’altura e una unità da trasporto per il supporto
logistico. La copertura aerea è assicurata da due elicotteri della Marina,
muniti di apparecchiature di ricerca elettroniche e agli infrarossi, dislocati a
Lampedusa o a Pantelleria ma che possono essere imbarcati direttamente sulla
“San Marco”; altri quattro elicotteri e un aereo pattugliatore, destinati al
presidio di Lampedusa; un bimotore per la vigilanza notturna, che opera in
collaborazione con due elicotteri specializzati in voli di ricerca e soccorso.
In più, un velivolo senza pilota, uno dei droni-spia dell’Aeronautica che, in
grado di operare per venti ore consecutive, realizzando riprese
elettro-ottiche, all’infrarosso e radar, completa la fitta rete di sorveglianza
sul Canale di Sicilia già assicurata dai radar della Guardia Costiera, della
Finanza e dalle stazioni del sistema di identificazione della Marina Militare. Tra
equipaggi imbarcati, piloti e personale di terra negli aeroporti, una forza di
circa 1.500 marinai, avieri e militari delle forze speciali, incluso il
contingente di fanti di Marina della brigata San Marco. E’ quanto ha schierato l’Italia
per il programma “Mare Nostrum”, la missione di controllo del Mediterraneo decisa
dopo la strage di Lampedusa ed entrata a regime circa due mesi fa.
Il Governo e, in
particolare, i ministri della difesa Mario Mauro e dell’interno Angelino Alfano,
hanno insistito sul carattere pacifico e umanitario dell’operazione. In
sostanza, però, è stata predisposta una grossa task-force che si direbbe
destinata ad un quadro di guerra, fa notare Antonio Mazzeo, un giornalista
impegnato sui temi della pace e dei diritti umani, che ha analizzata il piano nei
dettagli, sottolineando come i mezzi davvero pacifici siano soltanto i due
elicotteri attrezzati per la ricerca e il soccorso, dirottati a Lampedusa dalla
base di Cervia. Esattamente l’opposto, dunque, di quanto era lecito aspettarsi
per una “missione umanitaria”.
Al pari di Antonio
Mazzeo, sono arrivati a questa stessa conclusione non soltanto istituzioni e
organizzazioni che da sempre chiedono all’Italia e all’Europa una politica più
aperta nei confronti dei migranti, ma anche fonti non certamente imputabili di
“buonismo”, come il Sole 24 Ore, il
quotidiano della Confindustria. “Anche se la missione annunciata è stata
definita umanitaria e di soccorso, desta qualche sospetto la composizione dello
strumento aeronavale messo in campo”, ha scritto il giornale economico,
evidenziando le caratteristiche operative della potente unità da sbarco e delle
fregate lanciamissili, certamente inadatte per soccorrere gente in balia delle
onde o barconi in procinto di affondare. “Si tratta – ha spiegato il Sole – di navi di oltre tremila
tonnellate, pesantemente armate, con poco spazio a bordo per ospitare naufraghi
e molto onerose”, mentre risultano l’ideale per azioni militari “da coordinare
magari con il governo libico”.
La contraddizione
implicita in questa imponente task-force appare evidente. O meglio, è evidente
rispetto agli “scopi umanitari” di soccorso a mare con cui è stata dipinta dal
Governo la missione “Mare Nostrum”. Viceversa, la forza in campo è
perfettamente coerente con quello che sembra rivelarsi di giorno in giorno
l’obiettivo vero del programma. Cresce la sensazione, difatti, che si miri non tanto
a salvare i fuggiaschi che, spinti da fame, guerre e persecuzioni nel proprio
paese, sfidano il mare su carrette che a stento galleggiano, quanto a impedire
nuovi arrivi di profughi in Italia, bloccando gli imbarchi direttamente in
Libia o intercettando i tanti battelli della disperazione appena hanno lasciato
i porti africani e sono ancora all'interno o ai margini delle acque
territoriali di Tripoli. Lo ha evidenziato lo stesso Sole 24 Ore riferendosi, ad esempio, all'utilizzo dei droni e ai
compiti delle fregate o dei fucilieri di Marina. “Grazie alla loro autonomia di
volo – ha scritto il quotidiano – i droni possono sorvegliare costantemente i
porti di partenza dei barconi, consentendo alle navi militari di raggiungerli
appena al di fuori delle acque libiche”. Quanto ai battelli da sbarco e ai
fucilieri ospitati sull'ammiraglia, ha aggiunto, si tratta di “mezzi e truppe
idonei a riaccompagnare in sicurezza sulle coste libiche gli immigrati
recuperati in mare, sotto la scorta deterrente delle lanciamissili”.
Un’analisi analoga o
addirittura più esplicita – fa notare Antonio Mazzeo – l’ha fatta Leonardo
Tricarico, l’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica, invocando un accordo
diplomatico con Tripoli ed eventuali altre capitali nordafricane, “per far si
che i droni, anziché essere impiegati in una ricerca senza meta in mare aperto,
vengano utilizzati per il pattugliamento delle coste libiche, per individuare
in maniera precoce le attività preparatorie all'imbarco e fermarle per tempo”.
Ecco il punto. Il
piano “Mare Nostrum” sembra finalizzato soprattutto a vigilare sul “confine”
mediterraneo dell’Italia e dell’Europa. Il ministro Angelino Alfano, del resto,
non ha esitato a dirlo anche all'indomani della strage di Lampedusa, quando, a
margine della cerimonia farsa di Agrigento in memoria delle vittime del tre
ottobre, ha insistito che, pur profondamente partecipe e scossa dalla tragedia,
l’Italia non avrebbe potuto dimenticare il dovere di difendere la sua frontiera
perché, ha specificato, “una nazione che non sa difendere i propri confini non
è una nazione degna di questo nome”. Come se alle porte ci fossero un’orda di
terroristi sanguinari o un esercito invasore e non frotte di disperati. Senza
contare che questa “frontiera” è stata spostata molto più a sud delle acque
territoriali italiane: coincide con le sponde africane del Mediterraneo, in
attesa magari di spingerla ancora più lontano, lungo il confine sahariano della
Libia, per bloccare i fuggiaschi e i migranti in pieno deserto, prima che possano varcarlo, come si è impegnato a fare
il presidente Ali Zeidan nell’accordo firmato a Roma il 4 luglio scorso con il
premier Enrico Letta.
Ci sono fin troppi
elementi, insomma, per sospettare che l’operazione si riveli una
riproposizione, mascherata da aiuto umanitario, della sciagurata politica dei blocchi
indiscriminati in mare adottata dal governo Berlusconi nel 2009: quella
politica che ha portato ad autentiche deportazioni forzate a Tripoli di numerosi
uomini e donne e che è poi costata all’Italia, nel 2012, una umiliante condanna
da parte della Corte Europea per i diritti dell’uomo. Questo sospetto – come fa
notare Antonio Mazzeo – si è fatto strada con forza anche tra alcuni giuristi e
tra numerose associazioni antirazziste e di difesa dei diritti umani. Desta
perplessità, in particolare, il fatto che il ministro Alfano abbia indicato
come destinazione dei fuggiaschi intercettati in mare eventuali “porti sicuri”
in Africa. Il professor Fulvio Vassallo Paleologo, membro dell’Associazione
studi giuridici sull’immigrazione, ha rilevato che, riportando i migranti in
presunti “porti sicuri” non italiani, “c’è il rischio fondato che si ripetano i
respingimenti verso i paesi che non garantiscono la tutela dei diritti umani,
come è accaduto nel 2009, quando la Guardia di Finanza italiana riportò in
Libia decine di migranti”.
Già, in Libia.
Ancora una volta la Libia, grazie agli accordi bilaterali, continuamente
rinnovati dal 2009 fino ad oggi, con i quali Roma assegna a Tripoli il compito
di “gendarme” contro l’emigrazione. Dimenticando che in questo paese non ci
sono “porti sicuri” per i disperati in fuga da eccidi e persecuzioni, perché è
anche la Libia stessa a perseguitarli, considerando un crimine il loro ingresso
forzatamente clandestino, gettandoli in lager dove subiscono violenze e soprusi
di ogni genere, minacciando di riconsegnarli allo Stato dal quale sono scappati.
Accade tutti i giorni. L’ultimo caso è della mattina di Natale, quando 240
profughi eritrei rinchiusi nel campo di detenzione di Ajdabiya, in Cirenaica,
sono stati prelevati da un gruppo di militari armati, stipati su
camion-container a spintoni e a colpi di manganello e condotti fino a Misurata,
650 chilometri più a ovest, dove li ha presi in consegna un reparto di
miliziani. Ora la sorte di quei disperati è in balia di milizie irregolari
fuori controllo, che non rispondono a nessuno. Meno che mai al governo. Nessuno
sa chi ne ha deciso il trasferimento e perché. L’unica cosa certa è che ora
sono molto meno al sicuro di quanto fossero nella situazione, pure terribile,
di Ajdaniya. Lì, almeno, le famiglie non erano state separate: coniugi,
genitori e figli vivevano insieme. Secondo le ultime notizie arrivate dalla
Libia, invece, dopo Misurata uomini e donne, mogli e mariti, sono stati
costretti a dividersi. I maschi sono rinchiusi nel lager di Khoms, dove hanno
trovato altri 140 profughi in condizioni disumane, segregati da due mesi in uno
stanzone buio e senz’aria, tormentati da maltrattamenti e umiliazioni
quotidiane, bastonati a sangue al minimo cenno di protesta. Nel gruppo, 185 in
tutto, sono stati inclusi anche ragazzini di 15-16 anni, strappati con forza
alle madri, che cercavano di nasconderli e trattenerli. Le 55 donne, insieme
agli undici bambini più piccoli, fino a 11 anni di età, incluso un bimbo nato
proprio ad Ajdabiya il giorno prima del trasferimento forzato, si trovano nel
centro di detenzione di Garabulli, una vera e propria prigione, insieme ad
altre tredici giovani, alcune con i figli piccoli, catturate in una delle tante
retate condotte dalla polizia nella regione di Tripoli. Sono terrorizzate:
isolate dai mariti o comunque dagli uomini adulti della famiglia, i miliziani
possono abusarne in qualsiasi momento, senza che ci sia qualcuno a difenderle.
Sanno che è accaduto più volte. Che accade, anzi, quasi sistematicamente nei
centri di detenzione femminili. E c’è il timore che buona parte di loro,
uomini, donne e persino i ragazzini, possano essere venduti come merce: braccia
per il lavoro forzato o schiavi per le organizzazioni criminali che gestiscono
il traffico di esseri umani e che, sulla scia di quanto accade da anni nel
Sinai, hanno messo radici anche in Libia.
Ecco, l’operazione
Mare Nostrum, riconsegnando profughi e migranti ai “porti sicuri” libici,
rischia di moltiplicare episodi come questo. Legando ancora una volta il nome
dell’Italia ai soprusi, alle angherie, alle violenze, ai ricatti, alle torture
che si consumano nei centri di detenzione di Tripoli.