Esseri umani in cambio di armi: con i profughi schiavi
un affare da 35 milioni di dollari l’anno
Per il ciclo di appuntamenti organizzati
dall’associazione “Rinascita Civile”, domenica prossima è in programma a Latina
un incontro sulla tragedia dei rifugiati e dei migranti africani. E’ il
racconto di migliaia di storie disperate: del grido di aiuto che sale dal Sud
del mondo, inascoltato dalle cancellerie occidentali e dalla comunità
internazionale. Ad introdurre il tema sarà il film documentario “Mare Chiuso”,
di Stefano Liberti e Andrea Segre, una testimonianza diretta della vicenda
crudele dei respingimenti indiscriminati in mare, che ha avuto un vasto
successo di critica e di pubblico nei maggiori festival nazionali ed europei.
Sarà presente Stefano Liberti che racconterà l’esperienza nel campo profughi di
Shousha, in Tunisia. Seguirà una tavola rotonda coordinata da Felice Costanti,
del direttivo di Rinascita Civile, con la partecipazione di Emilio Drudi,
giornalista, e Gabriella Tomei, legale della cooperativa Karibu di
Sezze-Roccagorga, che si occupa dei rifugiati dal Nord Africa.
L’appuntamento è alle ore 17, aula magna del liceo
scientifico “Grassi”, in via del Lido. Nel corso del dibattito verrà affrontato
anche il dramma dei profughi schiavi nel Sinai, spesso venduti sul mercato
degli organi per i trapianti clandestini. Una emergenza umanitaria, che è anche
il tema del servizio che segue.
di Emilio Drudi
Esseri umani in
cambio di armi: il traffico di schiavi e di organi per i trapianti clandestini
che ha base nel Sinai serve essenzialmente a rifornire gli arsenali di gruppi
fondamentalisti islamici o di movimenti jihadisti, di formazioni autonomiste
beduine ma anche, più semplicemente, di bande criminali. La denuncia viene da
Roberto Malini, portavoce di Everyone Italia, la Ong che, al pari dell’agenzia
Habeshia di don Mussie Zerai, da anni si batte per richiamare l’attenzione
della comunità internazionale su questa autentica emergenza umanitaria. “E’ una
tragedia – insiste don Zerai – che travolge e costa la vita ogni anno a centinaia
di giovani profughi africani. Soprattutto eritrei, etiopi e somali. Uomini e
donne, ma non di rado anche adolescenti e ragazzini, fuggiti dalla guerra e
dalle persecuzioni nel loro paese e poi finiti in balia di organizzazioni
criminali spietate. Nel silenzio quasi totale della ‘fortezza Europa’, sempre
più blindata nei suoi confini e sorda al grido d’aiuto di quei disperati”.
Il giro d’affari sulla
pelle di questi ragazzi è enorme. “Secondo le autorità egiziane, chiamate in
causa dalle denunce e dai dossier presentati da varie Ong internazionali –
riferisce Roberto Malini – si arriva a non meno di 35 milioni di dollari l’anno,
quasi tutti reinvestiti nel traffico di armi”. E il trend è in crescita. Basti
dire che il riscatto preteso per ogni prigioniero è salito a 50 mila dollari,
cinque volte di più della taglia richiesta nel novembre 2010, meno di tre anni
fa. Con l’incubo, per chi non è in grado di pagare, di essere consegnato al
mercato nero dei trapianti: persone usate come “serbatoio” da cui prelevare
reni, cornee ed altri organi vitali.
“Dopo anni di lotta
– dice Malini – qualcosa si sta muovendo per porre fine a questo orrore.
Istituzioni internazionali come le Nazioni Unite e il Parlamento Europeo hanno
iniziato ad esercitare pressioni costanti sull’Egitto perché questa forma
odiosa di crimine organizzato sia combattuta con mezzi adeguati. In Germania,
anzi, il Parlamento sta discutendo l’eventualità di un intervento diretto a
sostegno della lotta contro il traffico di schiavi nel Sinai. Ma non basta. Le
organizzazioni che gestiscono il mercato di esseri umani e di organi operano a
livello internazionale. Hanno radici, ad esempio, in Eritrea, in Sudan e in
Egitto, dove possono contare sull’appoggio di autorità o funzionari corrotti e
dei movimenti jihadisti. Collabora con i trafficanti anche un gran numero di
eritrei, etiopi e sudanesi vicini all’integralismo armato, rendendo ancora più
complesso e terribile questo fenomeno criminale. E i vertici
dell’organizzazione hanno basi di appoggio nei paesi arabi, in Israele e
perfino in paesi dell’Unione Europea o comunque occidentali, dove fluisce il
denaro dei riscatti e della vendita di organi, tramite banche o agenzie di
money transfer. Se davvero si vuole fermare il traffico di schiavi che alimenta
poi il contrabbando di armi, è fondamentale allora istituire un organismo di
controllo su questi grossi movimenti di valuta”.
Ma la situazione dei
profughi, intanto, continua peggiorare.
Le frontiere europee, come denuncia don Mussie Zerai, sono sempre più blindate.
La via della Libia verso l’Italia si è quasi totalmente chiusa con gli accordi
bilaterali stipulati tra i governi di Roma e di Tripoli. Prima Berlusconi e poi
anche Monti hanno creato una specie di “sbarramento per delega” nel
Mediterraneo, affidando di fatto alla polizia e alle carceri libiche il
controllo dell’emigrazione dal Nord Africa verso la Sicilia. “Ma è in pratica
tutta l’Europa, appena insignita del premio Nobel per la Pace – accusa don
Zerai – ad aver adottato una politica di chiusura e di ‘esternalizzazione’ dei
confini continentali nel sud del Mediterraneo, delegando a paesi come la Libia
il lavoro criminoso di relegare in autentici ghetti migliaia di profughi
africani. In modo che non possano venire a ‘bussare’ direttamente alle sue
porte. Finora ha fatto eccezione la Svizzera, che prevede la possibilità di
accogliere le richieste di asilo anche presso le sue sedi diplomatiche sparse
in tutto il mondo. Ma dal prossimo mese di giugno anche questo canale rischia
di venir meno: è in programma un referendum proprio per chiedere l’abolizione
totale anche di quella che appare ormai l’unica via rimasta. Se la proposta
passerà, le mura dell’Europa si chiuderanno del tutto. Una scelta che ha un
duplice, terribile risultato: espone a sofferenze indicibili profughi e
rifugiati costretti in lager come quelli libici e favorisce il traffico
clandestino di esseri umani”
La stessa politica
viene adottata in Israele che, come “avamposto dell’Occidente”, è la meta dei
profughi che cercano di fuggire attraverso il Sinai. Da circa un anno il
governo ha iniziato una campagna contro i migranti senza documenti provenienti
da Eritrea, Etiopia, Sudan e da altri paesi africani. Lungo tutto il confine,
oltre a intensificare la vigilanza, con pattugliamenti continui via terra e
ricognizioni aeree, è in fase di costruzione una barriera lunga 250 chilometri.
Il primo obiettivo è bloccare le infiltrazioni di nuclei terroristi islamici e
il contrabbando di armi che rifornisce i movimenti armati nella striscia di
Gaza. Ma, di riflesso, si è creata una chiusura totale anche nei confronti dei
rifugiati. Una chiusura non casuale, secondo Roberto Malini: “Contro i profughi
sono state adottate misure draconiane che consentono di detenerli e deportarli
senza alcun rispetto per i loro diritti. L’anno scorso la Knesset, nonostante
le proteste del Gruppo Everyone discusse nella stessa seduta parlamentare, ha
approvato un emendamento alla legge per la prevenzione delle infiltrazioni che
consente l’imprigionamento senza processo, nei confronti dei migranti
provenienti dall’Africa sub sahariana, nel campo di detenzione di Saharonim,
nel Negev settentrionale. Non solo. Attualmente circa 60 mila profughi eritrei,
etiopi e sudanesi vivono in Israele senza documenti e senza che siano valutate
le loro richieste di asilo o di protezione temporanea, in violazione delle
stesse leggi israeliane, oltre che della Convenzione delle Nazioni Unite sui
rifugiati”. Sessantamila giovani – aggiunge don Zerai – il cui destino appare
segnato: se non interverranno cambiamenti, al momento del tutto improbabili,
nella politica israeliana, il governo è deciso a rimpatriarli o comunque ad
espellerli dal paese. Verso il Sudan e il Sud Sudan i rimpatri, anzi, sono già
iniziati”.
Il “Nord del mondo”,
insomma, continua a blindarsi proprio mentre in Africa si moltiplicano le
emergenze e migliaia di profughi sono costretti a fuggire da nazioni dove sono
in corso gravi persecuzioni o imperversa la guerra. Non a caso sono sempre più
affollati i campi di accoglienza nel Sudan, in Etiopia, nello Yemen. Ed è
proprio lì, in quei campi, che monta la disperazione che spinge poi centinaia,
migliaia di giovani a tentare il tutto per tutto pur di arrivare in qualche
modo in Europa o in Israele. Fornendo così una riserva infinita di vittime ai
mercanti di schiavi. Nella mancanza totale di altre prospettive, infatti, per
le “guide” in contatto con le organizzazioni criminali è sempre più facile
attirare quei giovani, facendo balenare il miraggio di un “passaggio”
clandestino attraverso il Mediterraneo o il Sinai, in cambio di 4 o 5 mila
dollari. Salvo poi, una volta intascato il ticket, consegnarli in realtà ai
trafficanti. E, a quel punto, il cerchio si chiude: chi non riesce a pagare il
riscatto, viene messo in vendita. Qualche volta, specie le ragazze più giovani,
nel giro della prostituzione internazionale o dei matrimoni forzati. Quasi
sempre sul mercato dei trapianti clandestini.