lunedì 2 agosto 2010

La verità di sugli eritrei “liberati” da Gheddafi. Intervista a Mussiè Zerai

A cura di Erica Balduzzi ed Emilio Fabio Torsello Stranded alle pendici del deserto libico, dimenticati dalla comunità internazionale e costretti a vivere in mezzo a una strada. Dopo la “liberazione” ufficiale decisa dal governo libico di circa tremila migranti rinchiusi nelle carceri di Gheddafi, Diritto di Critica torna sulla questione e intervista Mussiè Zerai, sacerdote eritreo a capo dell’ong Habeshia, impegnato sul fronte dei diritti umani per i profughi in fuga dall’Eritrea e bloccati in Libia. Dopo le denunce dello stesso Zerai per le condizioni disumane e l’iniquo trattamento a cui queste persone sono state sottoposte nelle carceri libiche, la questione è stata nuovamente dimenticata dalle istituzioni italiane dopo l’apparente “liberazione” dei migranti. Diritto di Critica ha cercato di fare luce su questa tragedia umana che prosegue, del tutto ignorata. Mosè Zerai, dei profughi eritrei bloccati in acque internazionali e respinti in Libia dall’Italia, ormai non si parla quasi più. Eppure la vicenda ha portato alla luce la problematica dei fenomeni migratori da un Paese – l’Eritrea- del quale in Italia non si sa praticamente nulla. L’Eritrea è un regime militare, una dittatura a tutti gli effetti che tiene il paese sotto un controllo così capillare da non garantire alcuna libertà né di stampa né di movimento né di espressione né tantomeno politica, tant’è che non esistono altri partiti al di fuori di quello che sostiene il regime. Non esiste una totale libertà di culto e le religioni diverse dalle quattro riconosciute dallo Stato vengono perseguitate. C’è poi la questione del servizio militare: ogni uomo al di sotto dei 45 anni deve prestare servizio nell’esercito per venti o trent’anni, per cui un giovane non ha la possibilità di crearsi una vita propria. Molti migranti fuggono anche da questa militarizzazione forzata che si aggiunge alla lunga serie di non-libertà che impediscono una vita serena e pacifica. Una volta arrivati in Libia cosa accade a questi giovani? I profughi eritrei sono spesso vittime dei giri d’affari sia dei trafficanti che della polizia libica, coinvolta nel commercio di esseri umani. Quando i migranti attraversano il confine tra il Sudan e la Libia e arrivano nella prima città oltre il confine, Kufra, vengono consegnati da un trafficante all’altro. Spesso viene chiamata la polizia che prende in custodia i profughi e li rinchiude in centri di detenzione come quello di Kufra, uno dei più terribili. Se poi queste persone riescono a mettere insieme una somma di denaro sufficiente, allora vengono liberate e possono tentare un altro tragitto per arrivare in Europa. Sempre che non vengano uccise dal deserto o dalle violenze della polizia libica e dei trafficanti. Dopo la firma dell’accordo tra Italia e Libia, però, anche quanti riescono ad arrivare sulla costa e a partire, spesso vengono riportati indietro. In pochi riescono a superare controlli. Secondo una lettera di cui Diritto di Critica è in possesso, nel maggio del 2010 un’imbarcazione carica di profughi eritrei sarebbe stata respinta a pochi chilometri da Lampedusa e riportata in Libia. Le risulta? Sì, certo. Tra i 250 profughi eritrei di cui si è parlato recentemente, 105 erano persone respinte tra il 2009 ed il 2010 dal mare territoriale italiano. Gli ultimi sono stati respinti a giugno 2010. Ci sono operatori italiani in territorio libico che coordinano le operazioni da terra? Per quanto riguarda le operazioni, l’Italia senza dubbio aiuta la Libia sul versante delle forniture logistiche. Dal punto di vista organizzativo, però, la gestione è libica. Quanto può costare per un eritreo un cosiddetto ‘viaggio della speranza’ verso l’Europa? Il costo si aggira attorno ai quattromila dollari per l’intero viaggio e corrisponde circa ad un anno di stipendio di una persona con un lavoro ben pagato. Qual è la situazione attuale di questi profughi che, a detta della Libia, sono stati liberati? Sono state liberate circa tremila persone di diverse nazionalità, tra cui anche eritrei. Il problema è che fisicamente non sono più nel centro di detenzione ma si trovano in condizione di totale abbandono. Gli eritrei di Sebah, per cui abbiamo lanciato l’allarme, sono stati liberati e lasciati in mezzo alla strada, vicino al deserto: vivono soltanto grazie alla carità della gente del posto, ad eccezione di chi è riuscito a farsi mandare qualcosa da amici o parenti che risiedono in altre città. Per il resto, non hanno ricevuto alcun tipo di assistenza. Il governo libico in un primo momento si era impegnato a pagare il trasporto da Sebah fino a Tripoli o a Misurata, ma non è accaduto nulla di tutto questo. I profughi hanno il divieto di lasciare la città. Alcuni migranti sono riusciti – anche in questo caso – a raggiungere Tripoli dopo aver pagato una somma di denaro ma chi non ha nulla è stranded, bloccato, e vive per la strada. Esattamente quanti eritrei sono stati liberati e secondo quali modalità? Sono stati liberati i 205 che erano nel carcere di Al Braq, insieme a quanti erano rinchiusi nel centro di detenzione di Misurata. È stato dato loro un permesso provvisorio di tre mesi, allo scadere del quale dovranno presentare un documento di riconoscimento rilasciato dalle autorità del paese di origine. Questa circostanza non si verificherà e molto probabilmente torneranno ad essere clandestini: il problema non è stato risolto ma solo rimandato. L’unica soluzione vera per queste persone è il reinsediamento, ovvero un programma per trasferire i richiedenti asilo e i rifugiati verso paesi in grado di riconoscere lo status di ‘rifugiato’ (cosa che invece la Libia non fa), e quindi di garantire a queste persone la protezione di cui necessitano. Mussiè qual è l’atteggiamento della comunità internazionale e di agenzie europee come il Frontex? Quella della comunità internazionale è una politica pilatesca. Frontex serve a poco: è una macchina che consuma moltissimi soldi in pattugliamenti ma non è stata in grado di salvare vite umane quando nell’agosto scorso sono morti nel Mediterraneo 73 eritrei. Non si capisce, in concreto, a cosa serva il Frontex. Più in generale, è stata messa in atto una politica di chiusura verso l’immigrazione e non si fa differenza tra chi è davvero bisognoso di protezione internazionale come i richiedenti asilo, i rifugiati e quanti stanno fuggendo da guerre e persecuzioni. L’Europa, ed è quello che noi chiediamo, dovrebbe aprire un percorso protetto di ingresso per queste persone. Sul fronte delle Organizzazioni non governative, quali sono le reali possibilità di operare in Libia? Sul territorio libico sono presenti ong come L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e istituzioni come l’Alto commissariato per i Rifugiati dell’Onu (Unhcr), il cui ufficio è stato prima chiuso e poi riaperto con un’operazione solo di facciata. Secondo quanto mi è stato riferito, infatti, gli operatori dell’Unhcr non sono neanche in grado di andare sul posto per controllare le condizioni dei rifugiati. Sono stati autorizzati - solo per città di Tripoli – ad andare dalla loro abitazione fino all’ufficio delle Nazioni unite. In concreto, possono continuare a seguire solo i casi che gestivano prima della chiusura ed è stata aperta una trattativa per capire se l’Unhcr possa continuare o meno l’attività. L’Oim, invece, si è occupato solo di alcun i casi di resettlement e non sono ben chiare le sue competenze nel Paese. Ci sono poi il Consiglio italiano per i Rifugiati (Cir), ma la sua è una presenza condizionata, e una ong libica di cui però i migranti stessi si fidano poco e mi chiedo se non sia la longa manus del governo. Mussiè come considera l’attuale politica italiana relativa all’immigrazione? C’è poco da commentare: l’Italia è stata tra i primi paesi a ergere un muro per impedire l’ingresso di quanti venivano e vengono a chiedere aiuto, senza fermarsi a esaminare la posizione giuridica dei migranti né assisterli, come è accaduto a fine giugno, quando le autorità italiane hanno atteso che giungesse una nave libica a recuperare un’imbarcazione carica di profughi, ferma a pochi metri dalle acque territoriali dell’Italia. Si tratta di una chiusura totale: si nega il diritto di richiedere asilo. Qual è la situazione di quanti riescono ad arrivare in Italia e si vedono riconosciuto lo status di rifugiato? Prendiamo il caso di Roma. Nella zona della Romanina ci sono edifici occupati mentre a Ponte Mammolo c’è una vera e propria baraccopoli dove vivono migranti rifugiati, quindi con un permesso di soggiorno di cinque anni, oppure stranieri a cui è stata riconosciuta la protezione sussidiaria. Tutte persone cosiddette “regolari”. Si tratta, dunque, di titoli validi solo sulla carta. Di fatto, a livello di assistenza, il sistema welfare dell’Italia non prevede garanzie che invece esistono in altri Paesi europei. Ai migranti viene dato un documento che gli permette di restare sul territorio italiano ma di fatto devono arrangiarsi da soli. Il passo successivo è il lavoro nero: al 90% queste persone finiscono nel circuito del sommerso, in una condizione di totale precariato. Scritto da Erica Balduzzi in data 2 agosto 2010.

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