mercoledì 7 ottobre 2009
Il paese naufragato.
L'Eritrea è un paese di fuggiaschi: da qui arrivavano i naufraghi
della tragedia dello scorso agosto.Si scappa dalla guerra permanente,
dalla fame, dal regime.
La mia storia con l’Eritrea è finita in un giorno di una primavera
africana di nove anni fa. Nel pomeriggio, arrivammo, giornalisti nelle
retrovie della nuova e oscena guerra fra Eritrea ed Etiopia, ad Adi
Qwala. Terra di trincee, questo villaggio di frontiera fra i due
paesi. Sapevamo che poche ore prima, qui, vi era stata battaglia. Era
l’ultima offensiva etiopica. Quella guerra si combatteva a ondate
umane. Come un secolo prima, ma con le armi del 2000. Ha lasciato
dietro a sé oltre centomila morti (ma nessuno potrà mai censirne i
caduti).
Ci sporgemmo sul dirupo che saliva verso Adi Qwala: era più che un
cimitero o una colossale fossa comune. Per ore camminammo fra i corpi
sventrati di soldati etiopi. Erano centinaia e centinaia, avvinghiati
alle rocce in cerca di un disperato riparo, rannicchiati in un ultimo
orrore. Quel pomeriggio, a volte, mi riappare. L’odore, soprattutto.
Ma- allora- scattai le foto che dovevo scattare. Capii, mentre mi
muovevo con una lentezza esasperata, che il sogno di una Nuova Africa,
la speranza dell’Eritrea, si era spezzato. Peggio: era diventato un
incubo. Si era trasformato in una indicibile tragedia greca.
Un anno dopo, settembre del 2001, dopo un’ambigua tregua (uno stato di
non-pace non-guerra che dura ancor oggi) il presidente dell’Eritrea,
Isaias Afewerki, ordinava l’arresto di undici vecchi compagni della
guerra di liberazione. Erano ministri e parlamentari. Vennero
sotterrati in galere sconosciute anche un pugno di giornalisti e
chiuse tutti i giornali del paese. Era passata una settimana
dall’abbattimento delle Twin Towers, il mondo non alzò nemmeno un
sopracciglio sulla sorte di quegli uomini destinati a scomparire per
sempre. Non saranno soli: da allora, a leggere i rapporti di Amnesty
International, sono migliaia i desaparecidos (religiosi, sindacalisti,
altri giornalisti, dissidenti, giovani in fuga dal servizio militare,
impiegati di organizzazioni umanitarie) nelle prigioni dell’Eritrea.
Human Rights Watch ha censito 35 centri di prigionia inaccessibili a
chiunque. Otto anni dopo quel settembre maledetto nessuno conosce il
destino di chi è stato sepolto nelle carceri eritree. Un balzo
indietro. Per capire. Molto indietro. Maggio del 1993. Nasceva allora
l’Eritrea, 53esimo stato africano, figlio di una guerram di
liberazione e indipendenza durata trent’anni. Un referendum aveva
confermato, quasi all’unanimità, la volontà degli eritrei, anche di
quelli dispersi in una diaspora mondiale, di avere un proprio paese.
La piccola Eritrea era un miracolo. Tutti, giornalisti e cooperanti,
ci innamorammo del paesaggio dei suoi altopiani, della bellezza del
suo mare e, soprattutto, della tenacia dei suoi abitanti. Gli eritrei
ci apparivano fieri, orgogliosi, determinati, incorruttibili. Erano
gli anni dell’afro-ottimismo.
E su Isaias Afewerki, il leader della lotta del popolo eritreo, tutti
noi avremmo messo la mano sul fuoco. Per sette anni, fra il 1991 e il
1998, l’Eritrea ha davvero rappresentato una speranza felice. La gente
sembrava rinascere dopo anni e anni di miserie, coprifuoco e violenze.
Ma, in quegli stessi anni, abbiamo ignorato sinistri scricchiolii che
ci sono apparsi chiari solo quando, nel 1998, a maggio, senza logiche
comprensibili a noi occidentali, un’altra guerra divampò fra Eritrea
ed Etiopia. Da allora è stata la deriva.
Guardo le foto dei gommoni vuoti in balia delle onde del Mediterraneo.
Guardo le foto dei prigionieri dei campi di detenzione libici. Uomini
svaniti nel mare mentre cercavano una disperata libertà. Uomini in
fuga imprigionati senza colpe. Le acque del canale di Sicilia hanno
inghiottito centinaia e centinaia di ragazzi che fuggivano
dall’incubo-Eritrea. Altri sono sepolti sotto le sabbie del Sahara. E
niente sappiamo di chi scappa verso la penisola arabica o verso
l’Etiopia, il vecchio nemico. Ogni giorno, secondo l’Alto
Commissariato per i Rifugiati, cento ragazzi eritrei fuggono in Sudan
attraverso i deserti. Molti vengono catturati durante le loro marce
notturne. Undicimila eritrei, da gennaio alla scorsa estate, hanno
chiesto asilo a Khartoum. Migliaia non si registrano e cercano di
proseguire verso il Mediterraneo. ‘Un ragazzo su due, ad Asmara, pensa
a fuggire’, mi dice un italiano che da anni vive ad Asmara.
Attenzione: in questo articolo non ci sarà mai un nome e cognome delle
mie fonti. Nessuno vuole apparire, troppo pericoloso. Per sé e per gli
amici ancora nel paese.
Come è potuto accadere tutto questo? Anche negli anni più bui
dell’occupazione etiopica, i ragazzi eritrei non fuggivano. O meglio:
molti passavano le linee della guerriglia e si arruolavano nelle file
del Fronte Popolare di Isaias Afewerki. Altri trovavano rifugio in
Sudan, ma vivevano nella speranza di tornare nel loro Paese. Ora
l’esodo appare di massa. Davvero: come è potuto accadere? Cosa sta
succedendo in Eritrea?
Gli eritrei, nel 1991, avevano vinto una guerra impossibile. L’Africa
e il mondo, per decenni, li aveva dimenticati e loro, testardi ed
eroici, avevano vinto contro ogni nemico. Quegli stessi eritrei hanno,
invece, perso la pace. ‘Sarà più difficile che combattere una guerra’,
mi disse pochi giorni dopo la liberazione di Asmara, Ascalù
Mencherios, una veterana della guerriglia (oggi è fra i più fedeli e
spietati alleati di Afewerki). Fu preveggente, Ascalù. ‘I guerriglieri
sono rimasti guerriglieri’, spiega Alfredo Mantica, sottosegretario
agli esteri del governo italiano, profondo conoscitore di questo
paese. Ha ragione: gli eritrei sanno fare i militari, sanno usare le
armi e la violenza. E hanno continuato a farlo. Hanno svestito in
fretta gli abiti civili e reindossato mimetiche (non più stracciate
come ai tempi della guerriglia). Cinque generali, oggi, governano le
regioni in cui il paese è diviso. Problemi complessi con l’Etiopia,
ingombrante vicino, rivale oggettivo per la supremazia nel Corno
d’Africa? L’unica soluzione è la guerra (e l’Etiopia non è certo
innocente in questa tragedia). E guerra, in questi anni, è stata con
tutti i vicini: dal Sudan a Gibuti allo Yemen. Asmara appoggia le
fazioni islamiste a Mogadiscio (probabile che lo faccia anche per
‘conto terzi’: sultanati arabi del Golfo o l’Iran). Offre retrovie e
rifugio alle guerriglie che cercano di disintegrare l’Etiopia. Gioca
ambigue partite nel puzzle impazzito del Darfur. ‘Noi abbiamo un solo
obiettivo: indebolire l’Etiopia. I nemici dei nostri nemici sono
nostri amici’, ha spiegato, una volta, Afewerki a politici italiani.
La rivalità mortale fra Asmara ed Addis Abeba è una delle chiavi per
comprendere il naufragio eritreo. L’Eritrea tratta con disprezzo
l’Onu. A maggio, l’Igad, l’associazione per lo sviluppo dei paesi
dell’Africa orientale, ne ha chiesto la condanna alle Nazioni Unite. A
giugno di quest’anno, perfino la prudente Unione Africana, ha
reclamato sanzioni contro l’Eritrea: è la prima volta che l’Ua chiede
la condanna di un proprio stato membro. Sdegnata la reazione di
Asmara: è uscita dalle due organizzazioni accusate di piegarsi alle
pretese dell’Etiopia. Perfino il rapporto con Gheddafi (per anni la
Libia ha fornito petrolio a prezzi di saldo all’Eritrea) si è
incrinato. Asmara è la capitale di un paese arroccato su sé stesso.
Una Corea del Nord africana. Priva della tecnologia nordcoreana. Unico
apparente e insidioso amico: l’Iran di Ahmanidejad.
In Eritrea è mobilitazione permanente. Tutti, fino a 40 anni (in
realtà il limite si estende fino ai 50 anni e comprende le donne con
figlie di età superiore a tre anni), è considerato soggetto a leva
militare. Nessuno può lasciare il paese. I visti di uscita, tranne
casi eccezionali e di ‘amici’ del regime, sono negati. L’ultimo
rapporto dell’International Institute for Strategic Studies
(www.iiss.org) rivela che la piccola Eritrea è il secondo paese più
militarizzato del mondo. Duecentomila soldati in armi. Per poco più di
tre milioni di abitanti. (ogni statistica è inesatta in Eritrea:
nessuno sa quanti siano esattamente gli eritrei, fra i tre e i quattro
milioni, probabilmente. Per ben più della metà con meno di 18 anni).
Al primo posto di questa poco onorevole classifica c’è la Corea del
Nord. Al terzo, Israele. Non si finiscono gli studi a scuola, in
Eritrea. Ma a Sawa, una scuola-caserma nei torridi bassopiani del
paese. Superata l’undicesima classe, penultimo anno delle superiori,
ogni ragazzo e ragazza è mobilitato. Si rischia di non uscire mai più
da questa spirale. Dopo c’è il National Service. Anni e anni (la
durata è praticamente indefinita) di ‘lavoro volontario’. I ragazzi
sono arruolati nella campagna di ‘ricostruzione’ del paese. Si chiama
wersay-yekalo: il nome vuole indicare il patto fra i giovani
combattenti e la vecchia guardia dei veterani. Come dire: la guerra
non avrà mai fine. ‘Mio nipote è partito per il National Service nel
1998. Non è ancora tornato a casa’, mi dice una donna eritrea. Questo
lavoro è retribuito con 150 nakfa, più o meno sette euro, al mese.
L’università di Asmara, possibile luogo di dissenso, è stata chiusa:
al suo posto ‘college’ militari dispersi per il paese. ‘Mettiti nei
panni di un ragazzo di sedici anni di Asmara – mi spiega chi ha
vissuto a lungo nel paese – sa che non ha futuro. Sa che sarà
rinchiuso a Sawa. Davanti a sé ha anni e anni da passare spostando
pietre nel letto disseccato di un fiume. Quel ragazzo non penserà ad
altro che a scappare’.
L'eritrea è uno di quei luoghi al mondo in cui è pericoloso crescere.
E dove vivere è umiliante. Secondo la Banca mondiale, nel 2007 il
reddito pro-capite è di 230 dollari all'anno. Alimenti di base sono
distribuiti da negozi di stato e razionati. Siamo in cinque in
famiglia "mi dice un uomo di mezza età -. Ci toccava un pezzo di pane
al giorno. Adesso è stato ridotto: uno di noi deve rimanere senza i
suoi cinquanta grammi di pane. Fra poco ci daranno solo la mollica".
I pomodori costano 30 nakfa al chilo (il cambio ufficiale è 21 nakfa
per un euro). Lo zucchero, 60 nakfa al chilo. E il sorgo, cibo di
base, costa cinquemila nakfa al quintale. E il sorgo è cibo povero: ha
sostituito il teff, il vero cereale di questi altopiani da cui ricava
una focaccia acida chiamata 'njera. Era diventato inaccessibile: 160
nakfa al chilo. Una famiglia, abitualmente, ne consumava almeno 25
chili al mese. Ma un salario medio, per chi ha un lavoro, ad Asmara è
di 750 Nakfa (meno di 40 euro al mese al cambio ufficiale). Fate voi i
conti. Il cherosene, indispensabile ai fornelletti da cucina, è
razionato: cinque litri al mese. Ne occorrerebbero almeno venti per
una famiglia. La benzina è introvabile. Vi sono divieti sorprendenti:
ogni ordine missionario, ad esempio, non può possedere più di due
auto. Ad Asmara, simile a una bella città del Sud italiano, funziona
solo un lampione su quattro. Il mercato nero si diffonde nei
bassifondi della capitale. Economia di guerra, malavita di guerra.
Tutto si trova alla borsa nera. Il cambio della moneta vola a 50 nakfa
per un euro. Si formano ricchezze nei labirinti del mercato nero: il
paese degli incorruttibili è diventato il paese di chi specula sul
cibo, sulla benzina, sul cemento, sugli aiuti internazionali. Si
consumano delitti e rese dei conti in questo clima da caduta degli
dei: alcuni businesman e trafficanti sono stati trovati morti
(suicidi, incidenti d'auto...) in questi ultimi mesi.
Esercito e partito unico (ironia del nome: Pfdj, Fronte Popolare per
la Democrazia e la Giustizia) controllano ogni anfratto dell'economia.
Se una qualche cooperazione vuole costruire una scuola o un ospedale
dovrà rivolgersi a una società del partito. I controllori
apparterranno al partito. Nei lavori saranno impiegati i ragazzi del
"lavoro volontario". Edilizia, meccanica, import-export, banche,
agricoltura meccanizzata (quel poco che c'è¨), tutto in mano al
partito o all'esercito. L'Eritrea è la peggior immagine riflessa di
una Unione Sovietica vecchia di mezzo secolo. E' un comunismo
primitivo e cupo. Isaias Afewerki, 63 anni, è Macbeth, personaggio
shaekespiriano: altissimo, bello, carismatico, intransigente, erede di
una famiglia dell'aristocrazia degli altopiani (suo nonno era un alto
funzionario del regno di Hailè Selassiè¨, ultimo negus dell'Etiopia) ,
divenne un eroe della resistenza eritrea contro l'occupazione
etiopica. Tutti coloro che lo incontravano erano colpiti dal suo
fascino. Appariva un leaderm moderno, spregiudicato, rigoroso. Si è
rivelato un uomo sanguinario, vittima del suo potere. Vive prigioniero
del mito della sua infallibilità . Avvolto in una spirale di violenza,
non ha esitato a far sparire i suoi amici più stretti e a decimarne le
famiglie. In
Il potere centrale lotta per sopravvivere a se stesso e non tollera
qualunque libertà. Nelle campagne, territori di consenso per il
regime, si muore di fame. Espropri e requisizioni mettono in crisi
anche la fedeltà dei contadini poverissimi. Gli uomini migrano in
cerca di lavoro. "Le madri assistono impotenti alla morte dei loro
figli più piccoli, mi dice chi ha potuto viaggiare fra i villaggi
dell'altopiano. Come spesso accade in Corno dell'Africa, guerre e
siccità si saldano assieme: lo scorso anno, a scorrere i rapporti Fao
e World Food Program, i raccolti hanno dato solo il 30% del fabbisogno
alimentare del paese. Le piogge erano state avare nel 2008. Quest'anno
(piove in estate) sembrano siano state migliori, ma, anche negli anni
buoni, si copre a stento il 60% delle necessità. Ma il governo eritreo
è sdegnoso: "Non abbiamo bisogno di aiuti alimentari".
E' giusto cooperare con l'Eritrea? L'Europa pensa di si: "Solo così
possiamo sperare di avere qualche influenza su Asmara e sperare che i
diritti umani vengano rispettati", dicono a Bruxelles. Il programma Ue
per il 2009-2013 prevede 122 milioni di euro da mettere a disposizione
dell'Eritrea (70 in aiuti alimentari e gli altri, per lo più, in
costruzione e riparazioni di strade). Ma la cooperazione in Eritrea è
quasi impossibile: nel paese sono rimaste solo cinque ong (erano 37
solo tre anni fa). E per legge devono dimostrare di avere due milioni
di dollari in un conto corrente. Per anni, dopo l'indipendenza,
l'Italia è stato il primo partner di Asmara. Quasi a farsi perdonare
un debito storico e l'indifferenza ostile durante la guerra di
liberazione. Imponenti i progetti di cooperazione degli anni '90.
L'Eritrea è sempre stato fra i primi beneficiari dell'aiuto pubblico
italiano. Fino al 2005. Quando 50 milioni di euro, per l'ultima volta,
sono stati dati al governo eritreo per riequilibrare la bilancia dei
pagamenti. Poi nel giro di pochi mesi, vennero espulse le Ong italiane
(ne è rimasta solo una, legata al mondo missionario) , mandati via i
carabinieri italiani in
forza all'Onu, espulsi i missionari stranieri, rasa al suolo Villa
Melotti, celebre casa italiana a Massawa, porto eritreo sul mar Rosso,
espulso anche il viceambasciatore che aveva cercato di fermare questa
devastazione.
Nel 2006, ultima visita istituzionale del sottosegretario Mantica ad
Asmara. Oggi nel piano triennale della cooperazione italiana
(2009-2011), l'Eritrea è svanita. Vi si dedica appena un rigo e mezzo
su ventidue pagine. "Chiuderemo i progetti in corso e non ci saranno
altre iniziative". Non abbiamo più rapporti politici con Asmara.
Troppe chiusure. "Afewerki è responsabile della fuga e della morte dei
suoi giovani", dice Mantica.
La Regione Toscana, all'opposto, difende la sua cooperazione con
l'Eritrea. In progetto, la costruzione di un ospedale pediatrico ad
Asmara (tre milioni di euro). "Chiudere ogni dialogo rafforza solo
Afewerki" dicono "Mantenere le porte aperte impedisce la deriva verso
la barbarie. Bisogna essere chiari, dire in faccia cosa pensiamo ai
nostri interlocutori, ma non dimenticare mai che la cooperazione serve
alla gente. Continueremo a essere presenti in Eritrea". Ci prova anche
la Lombardia di Formigoni: i suoi funzionari hanno incontrato a luglio
il potente e temibile Yemane Ghebrab, anima nera del regime.
Come puoi sperare di fermare i ragazzi che affrontano le correnti del
Mediterraneo? Non hanno futuro, non hanno speranze. Sanno bene a cosa
stanno andando incontro. Hanno fratelli, amici, familiari che già
hanno fatto questo viaggio da follia. Sanno che rischiano la pelle.
Sanno che le loro famiglie rimaste ad Asmara saranno perseguitate.
Sanno dell'orrore delle carceri libiche, sanno della ferocia dei
trafficanti di uomini. Ma non hanno alternative. L'Eritrea ha tradito
i loro sogni. L'Italia è il Paese che hanno più vicino al cuore e alla
testa.
Ma l'ultima scena deve avere un lieto fine (le dittature, alle fine,
crollano, bisogna pur crederlo). Una ragazza di Asmara ottiene un
contratto di lavoro in Italia. Non potrebbe uscire dal paese. Ma
dichiara di avere un figlio piccolo, ragione credibile per tornare nel
Paese. Quel bambino non è figlio suo, ma di una sorella. E' stato
registrato a suo nome per consentirle una via di fuga. C'è il
certificato del prete. Ce la fa ad avere il visto di uscita. Ma
all'aeroporto scopre che il doganiere è un suo vicino di casa. Sa che
lui mai l'ha vista incinta. E' finita. L'uomo le chiede i documenti.
Li guarda, alza il viso sulla ragazza. Fa un mezzo sorriso, un cenno
con la testa. Timbra le sue carte. Le augura buon viaggio. C'è qualche
speranza in Eritrea.
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