giovedì 29 ottobre 2009
Io, nipote di italiani nella barca della morte
Perso in mare il biglietto con gli indirizzi dei parenti: «Ora non so più cosa fare»
POZZALLO (Ragusa) — «Gli era rimasto un filo di voce e continuava a chiedere disperatamente «acqua, datemi un po’ d’acqua». Attorno c’era chi gli faceva coraggio: «resisti stanno arrivando i soccorsi. In realtà non sapevamo nulla ma lui è morto appena un’ora prima che arrivasse la motovedetta italiana».
Fragilissima nelle sue treccine nere Marhaout G., 19 anni, eritrea, dopo due giorni in ospedale ha recuperato le forze per raccontare l’odissea di quel barcone con 300 immigrati e dell’uomo agonizzante a pochi metri da lei. «Non mangiava da giorni è morto di fame e sete - spiega- il viaggio è durato dieci giorni e vedendo quel mare pensavamo che non ce l’avremmo mai fatta. Ricordo onde altissime che allagavano continuamente la barca e noi dovevamo buttar via l’acqua con i secchi. Cibo e acqua sono finiti dopo il terzo giorno di navigazione. Due giorni dopo è arrivata la petroliera che ci ha lanciato dei viveri. Per il resto non si è fermata nessun’altra imbarcazione». Dopo aver attraversato il Sudan Marhaout ha raccontato di essere rimasta tre mesi in Libia in attesa dell’imbarco. Ora è ricoverata nel reparto di ginecologia, al terzo piano dell’Ospedale di Modica. Con lei altre sette compagne di viaggio: tutte incinte tra il quarto e l’ottavo mese. Un piano più su c’è Cristian , 18 mesi, un viso bellissimo ed un corpicino martoriato dalle piaghe e dalla febbre.
Nelle polemiche di questi giorni le autorità maltesi hanno spiegato che gli immigrati avrebbero rifiutato il soccorso di una loro motovedetta. Marhaout e le sue compagne insistono: «Si è avvicinata solo la petroliera, nessun’altro». Il loro racconto lascia inoltre ipotizzare che anche quell’unico morto si poteva evitare se solo il braccio di ferro tra Italia e Malta fosse finito qualche ora prima. Se invece fosse andato avanti sarebbe stata una strage. «Quando è arrivata la motovedetta italiana il barcone si era già spezzato e imbarcava acqua da tutte le parti - spiega un’altra delle ragazze, Yaibyo T. - in quelle condizioni non avremmo resistito ancora un altro giorno». Marhaout è ricoverata nella stanza numero 9 dove vita, morte, speranze formano un’unica miscela. Nel letto a fianco c’è Saggaoui K. anche lei eritrea, anche lei 19 anni, anche lei incinta. Ma purtroppo di una creatura morta per gli stenti di quei giorni in mare. Gli assistenti sociali gliel’hanno detto all’indomani del suo arrivo ma lei in cuor suo l’aveva già capito e, nonostante le lacrime iniziali, ora riesce pure a sorridere. Marahaout invece assieme al suo bambino si porta dietro una storia che è autentico vaccino contro i fantasmi xenofobi.
Il suo non è un viaggio della speranza ma un viaggio di ritorno nella terra dei suoi avi, che è proprio l’Italia. Marahaout è infatti nipote di un italiano, Mario Golino, partito in Eritrea durante la stagione coloniale e che per tutta la vita ha trasmesso a figli e nipoti l’amore per l’Italia. «Mio nonno ci ha sempre raccontato dell’Italia che lui ritiene il paese più bello al mondo — spiega — per questo sono tornata con mio marito e un mio fratello. Questo in realtà era il sogno di mia madre che però non può lasciare gli altri miei 5 fratelli».
Partito da Roma per Asmara Mario Golino sposò un’eritrea da cui nacque la madre di Marahaout che lui volle chiamare Natalina. «Noi nipoti conosciamo l’Italia grazie ai racconti di mia madre e di mio nonno che oggi vive in Etiopia e che non può tornare in Eritrea ». Mentre parla improvvisamente si rabbuia. «Che c'è?», chiede la giovane interprete che ascolta e trattiene le lacrime. Marahaout spiega che la madre le aveva consegnato un biglietto con i nomi di possibili parenti da cercare una volta arrivata in Italia. «Ma ho perso tutto in mare — si dispera — ed ora non sono più come trovarli». Quella mappa di nomi per il viaggio nel suo passato e nel suo futuro l’aveva messa in una tasca del vestito ed è stata portata via dal mare. Non come la vicina di stanza Yousef A. 20 anni, che invece ha cucito il suo tesoro in una sacca interna agli slip.
Quando è arrivata in ospedale, ancora febbricitante, si è opposta con forza alle infermiere che cercavano di svestirla per lavarla. Poi ha svelato il suo piccolo segreto: cinquanta euro e una catena d’oro. «E’ tutto quel che ho — si è giustificata — con questo debbo ricominciare una nuova vita».
Alfio Sciacca
29 ottobre 2009
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