martedì 6 luglio 2010
«Eritrei torturati e picchiati in Libia».
E' allarme per la sorte di 250 profughi respinti dall'Italia
La voce è forte e chiara ma è rotta dall'emozione e dai singhiozzi. Piange Zegat (nome di fantasia), mentre parla al telefono con il Corriere dal lager di Al Brak, nel sud della Libia, un campo di concentramento dove sta marcendo al sole assieme ad altri 244 profughi eritrei. In quel centro di detenzione, molto simile a una bolgia dantesca, gli ospiti vengono trattati più come bestie che come esseri umani: poco cibo, acqua sporca, per bere e per lavarsi, una latrina ormai intasata e nessuna igiene. Sono stati trasferiti laggiù per essersi ribellati all'intenzione delle autorità libiche di schedarli. Molti di loro sono stati rispediti in Africa dagli italiani; solo pochi i catturati nel deserto.
«Qualcuno è nudo o è in mutande — spiega —, perché la deportazione nel deserto libico meridionale è avvenuta di notte. Un viaggio nell'inferno. Eravamo tutti nel campo di detenzione di Mishiratah, vicino Tripoli. Il 29 giugno sono arrivati funzionari hanno chiesto le nostre generalità per comunicarle all'ambasciata Eritrea. Ci siamo rifiutati. Il regime di Asmara si sarebbe vendicato sulle nostre famiglie. Il presidente Isayas Afeworki è implacabile e non tollera il dissenso. Così i libici ci hanno accusato di insubordinazione e ribellione. I militari sono arrivati di notte, ci hanno caricato su camion e portato ad Al Brak un migliaio di chilometri più a sud. Chi ha tentato di fuggire è stato catturato e picchiato a sangue». Ora nel campo una ventina di ragazzi sono feriti, con gambe o braccia spezzate. Nessuno li cura.
Il trasferimento nell'infuocato deserto della Libia meridionale, è una punizione per aver rifiutato di rivelare chi sono le loro famiglie. «Siamo stati torturati e picchiati perché ubbidissimo. Inutile l’appello all’Unhcr, l'Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati: è stato cacciato dalla Libia. Siamo disperati. Se non ubbidiamo ci deportano in Eritrea e per noi vuol dire la morte. Se ubbidiamo saranno i nostri familiari a morire; si vendicheranno su di loro perché noi siamo scappati ». L'ex colonia italiana (assieme alla Corea del Nord) è ai vertici della classifica dei Paesi più repressivi del mondo. Non esistono partiti politici, né giornali, né libertà d'espressione. La dittatura dal pugno di ferro ha fatto sparire nelle carceri i dissidenti, compreso un gruppo di ex ministri ed eroi dell’indipendenza. Di loro non si sa più nulla dal 18 settembre 2001, giorno dell’arresto.
Intanto l'Unhcr è stato riammesso in Libia, ma con un mandato più limitato: può occuparsi solo dei vecchi casi. E quel «vecchi» si potrebbe interpretare in un modo estensivo, ma i funzionari dell'Onu hanno paura di muoversi, di essere di nuovo cacciati dal Paese. Appelli per chiedere a Gheddafi di non rimpatriare forzatamente questi poveracci, ma di prenderli in Italia, sono stati lanciati da uno schieramento bipartisan. Enrico Pianetta deputato del Pdl si è rivolto ai ministri Frattini e Maroni: «So che il vostro cuore è più grande degli interessi geopolitici internazionali: salvateli».
Massimo A. Alberizzi
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