martedì 20 luglio 2010

Rilasciati gli eritrei di Braq

Il 17 luglio sono stati rilasciati i 205 eritrei che erano rinchiusi nel carcere militare di Braq e che poi erano stati spostati. In mano, hanno un permesso di soggiorno valido tre mesi. Poi torneranno nella clandestinità. «Cosa accadrà fra tre mesi quando il permesso di soggiorno scadrà?» chiede padre Mussie Zerai, direttore a Roma dell’organizzazione non governativa Habeshia ed eritreo come la gran parte dei migranti rilasciati dal centro di Braq. Nel fine settimana, dopo la loro liberazione, padre Mussie ha parlato con diversi di loro. Dice che i permessi di soggiorno concessi da Tripoli consentono alla Libia e all’Italia di «abbassare la tensione» su una vicenda scomoda, della quale si erano finalmente occupati anche agenzie di stampa e giornali nazionali. Secondo l’ambasciatore libico a Roma, Hafed Guddur, gli oltre 200 profughi eritrei liberati dal centro nella regione di Sabha «potranno reinserirsi nel tessuto sociale trovando lavoro e alloggio». Il direttore di Habeshia, però, sottolinea che allo scadere dei tre mesi i migranti rischiano di tornare a essere «clandestini» in un paese dove non possono neanche presentare domanda di asilo politico. «L’unica soluzione – sostiene padre Mussie – è il reinsediamento degli eritrei in Italia o comunque in Europa, dove è rispettata la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati». Sabato, dopo il rilascio dei migranti, diversi organismi impegnati nella difesa dei diritti umani avevano sottolineato l’importanza che non fossero state decise deportazioni in Eritrea. Un fatto positivo anche secondo padre Mussie, che però avverte: «L’Europa ha costruito un muro senza porte, che tiene fuori perfino i migranti in fuga da conflitti o regimi autoritari, dalla Somalia, dall’Eritrea o dal Darfur». Anche per Christopher Hein, direttore del Centro italiano per i rifugiati [Cir], «la vicenda non è chiusa, è vero, ma almeno nell’immediato i migranti sono in libertà e non rischiano una deportazione». Secondo Hein gli interrogativi da sciogliere restano molti, soprattutto perché i migranti sono «richiedenti asilo in un paese che non riconosce la condizione di rifugiato». In Libia, ricorda il direttore di Cir, l’ufficio dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati [Acnur/Unhcr] opera a regime molto ridotto e il lavoro degli organismi internazionali resta difficile nonostante negli ultimi anni ci siano state alcune aperture. In questo contesto, segnato da negoziati e tensioni diplomatiche, si è inserito nel fine settimana l’annuncio dell’ambasciatore di Tripoli in Italia sulla chiusura dei 18 centri di detenzione per migranti in territorio libico. «In queste strutture – dice Hein – erano prigionieri circa 4 mila migranti, una chiusura segnalerebbe un cambiamento di politica rilevante». Aiuta a capire una testimonianza rilasciata da Lawrence Hart, responsabile a Tripoli dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni [Oim], secondo il quale non bisogna parlare di «chiusura» ma di «sanatoria». «Le strutture si sono svuotate e agli ex detenuti sono stati dati permessi di soggiorno di due o tre mesi – sottolinea Hart – ma negli ultimi giorni i fermi di migranti sono continuati, sia sulla terraferma che in mare». Secondo il Cir almeno 11 degli eritrei deportati nel centro di Braq erano stati respinti dalla Marina militare italiana mentre cercavano di raggiungere l’isola siciliana di Lampedusa su imbarcazioni di fortuna. Fonti della Misna in Libia leggono le liberazioni del fine settimana nel quadro dei complessi rapporti tra Tripoli e l’Europa: «È come dire ‘noi non ce la facciamo’, che è facile criticare senza assumersi responsabilità in termini di accoglienza».

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