martedì 14 aprile 2009
Hic sunt Leones. In pasto ai santi
Un’inedita grande mostra ripercorre l’iconografia millenaria dell’Etiopia cristiana. Messali, codici miniati, icone e rotoli magici raccontano quelle faccette nere che già erano “romane”
di Matteo Tosi e Marco Respinti
«Nigra sum sed formosa», sono scura ma bella, dice di sé una Sposa nel Cantico dei Cantici (1,5). Secondo molti, quella donna è la regina di Saba (terra mitologica situata tra Arabia meridionale e Corno d'Africa) e il suo sposo era il saggio Salomone. Una tesi avvalorata dalla stessa Bibbia, dai Vangeli, dal Corano e anche dal Kebra nagast, il “poema nazionale” etiopico, visto che in ognuno di questi testi, pur con notevoli differenze nello svolgersi degli eventi, si parla di un incontro tra la sovrana africana e il leggendario Re d'Israele, un amore da cui si fa addirittura discendere la casa reale etiope.
Cosa sia vero e cosa no, poco importa, ma ciò che è certo è l'esistenza di un impero cristiano a sud dell'Egitto e del Sudan, un regno che a partire dal 1270, visto che la dominazione musulmana sull'intero Maghreb e sulla Penisola arabica impediva agli etiopi di recarsi in pellegrinaggio nella Città Santa, ebbe anche la sua “nuova Gerusalemme” nella città di Lâlibalâ, un capolavoro di architettura rupestre (con undici grandi edifici interamente scavati nella roccia di tufo e collegati fra loro da cunicoli), raccontata in mostra da nove straordinarie acqueforti che il trevigiano Lino Bianchi Barriviera incise dopo il suo viaggio africano del 1938-39.
Una serenissima avventura
Così, tra musiche, filmati e fotografie, si apre la prima grande mostra italiana dedicata alla magnificenza e al mistero di questa millenaria arte africana di ispirazione biblico-cristiana, e non poteva esserci città più adatta di Venezia a ospitarla, naturalmente. Non solo perché la città dei Dogi fu sempre (ed è ancora) la nostra porta verso ogni Oriente, geografico e culturale, ma anche perché la stessa ebbe intensi legami economici e religiosi fin dal primo ’400 con l'impero del Leone, dove inviò anche una nutrita schiera di artisti e letterati. Come il pittore Nikolaus Brancaleon, detto Mercurio, che giunse in queste terre sul finire del XV secolo e le cui raffinate icone diedero origine a un'infinita serie di libri illustrati sul loro modello, influenzando l'arte etiopica per quasi quattrocento anni, come risulta evidente percorrendo le ultime due sale dell'esposizione.
Icone in touch screen
Un antico pittore veneziano a chiudere una mostra aperta da un moderno incisore veneto, e tutta l'Etiopia in mezzo, naturalmente. Secolo dopo secolo, personaggio dopo personaggio e leggenda dopo leggenda, ma raccontata nella maniera più contemporanea possibile, con un grande utilizzo di tecnologie multimediali, suoni, proiezioni e ologrammi, oltre alla prima sperimentazione italiana di una guida mobile, realizzata in ambiente iPod da un gruppo di studenti dell'Università Ca' Foscari, che ospita l'evento.
Un approccio futuribile e avveniristico che non contrasta per nulla con l'aulico prestigio di alcuni pezzi esposti né, tantomeno, col fascino antico dei “rotoli magici”, delle incisioni e dei codici miniati qui raccolti per la prima volta, riunendo in un percorso documentario coerente i patrimoni di numerosi musei e collezioni private internazionali.
Un altro mondo è possibile
Tra le tante gemme in mostra, non si può non citare lo splendido Mappamondo di Fra Mauro (normalmente conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana), vero e proprio capolavoro cartografico databile intorno al 1450: un quadrato di oltre due metri di lato al cui interno è iscritto tutto il mondo allora conosciuto, in forma circolare e con una singolare orientazione a sud (secondo una tipologia classica di ascendenza iranica), corredato da oltre 4.000 “didascalie” in volgare veneziano con informazioni e notizie sui luoghi più disparati. Impressionante la dovizia di particolari riservata al Corno d’Africa, che lo stesso frate attribuisce alle testimonianze di religiosi etiopi di passaggio a Venezia che avevano disegnato per lui «tute queste prouincie e citade e fiumi e monti cum li suo nomi».
Novella prigioniera e preservata
Una carta rara e preziosa che, primo tesoro esposto al piano superiore, fa da preludio a una serie di opere in carta di altrettanto mirabile valore: messali, codici miniati, documenti, libri antichi, icone e papiri istoriati secondo lo schema tipico della nostra liturgia, ma con un'iconografia, un linguaggio e uno stile assolutamente originali, che amplificano la propria suggestione con l'essere stati tramandati anche nelle epoche a venire, testimoniando anche nella forma la permanenza spirituale di quella “chiesa delle origini” che il secolare “assedio” musulmano ha involontariamente custodito insieme a mille leggende.
Come quella che vuole l’Arca dell’Alleanza custodita nella cattedrale di Aksum (dove giunse per mano dello stesso figlio di Salomone) o quella, sempre meno aleatoria in realtà, che pone proprio qui il trono di quel mitico Prete Gianni che nel 1165 inviò una misteriosa lettera all’imperatore bizantino Manuele I Comneno (e, tramite lui, a papa Alessandro III e a Federico Barbarossa) definendosi “signore delle tre Indie” e narrando di possedimenti infiniti e ricchissimi, vicenda ripresa per altre vie anche da Fra' Giovanni da Pian del Carpine e da Marco Polo.
Matteo Tosi
Nigra sum sed formosa, Venezia, Ca’ Foscari,
fino al 10 maggio, info: 041/2346947
Storia (d'amore) della regina di Saba
Quando, il 3 ottobre 1935, l’Italia invade l’impero etiope, Benito Mussolini vende al mondo quest’ultimo sussulto di colonialismo ottocentesco al prezzo di una grande impresa. Il gladio che porta la civiltà romana ai barbari che stan sotto i berberi. Risibile. Risibile perché l’Etiopia è antica quanto il mondo e più nera del fascismo.
Se ha ragione la biologia (mica il Genesi) su quello che viene chiamato “mitocondrio Eva” , il genere umano sarebbe nato qui da un’unica femmina. Se ha ragione il Primo Libro dei Re, una favolosa regina di Saba, nigra, vabbè, sed formosa, regnò qui e il saggio Salomone fu rapito dalle sue grazie, lo ricorda pure il sensualissimo e misticissimo Shyr Hasshyrym, il Cantico dei Cantici. Della regina parla del resto anche Gesù nel Vangelo di san Luca.
Se poi han ragione le cronache della notte dei tempi, attorno al 970 una regina Gudit sbaragliò il Regno di Aksum (meglio che Axum). Si dice fosse ebrea. Fatto sta che l’Etiopia trasuda giudaismo e cristianesimo da ogni poro. Pare persino che l’Arca dell’Alleanza fra Dio e il suo popolo eletto stia proprio ad Aksum sin da quando Salomone la consegnò a Menelik, il figlio avuto dalla regina di Saba. Oggi sta nella cappella segreta di un monastero copto, guardata a vista da una generazione di eletti autoreclusi...
Ora i cristiani etiopi appartengono per la stragrande maggioranza alla Chiesa ortodossa copta, miofisita (non monofisita). Non stanno in comunione con i cattolici, ma un poco li perdoniamo, noi cui non spetta la facoltà di scomunicare, per la sontuosità e il fascino delle loro millenarie cultura, liturgia, ritualità, arte. Del resto, dal Basso Medioevo il regno di Etiopia fu il baluardo cristiano in un oceano musulmano. Meriti ne ha accumulati.
Il concetto di copto è peraltro un tesoro: lingua, alfabeto e fede che narrano la storia meravigliosa d’Egitto (copto vien dal nome greco di quel Paese). Il quale, dopo faraoni e geroglifici, prese a scrivere la propria lingua con caratteri greci misti a grafemi demotici (ecco qui il copto) da che abbracciò il cristianesimo. Insomma, copto vuole dire “Egitto cristiano”, che tracima in Etiopia.
Poi c’è il Kebra Nagast, il “Libro della gloria dei re”, la sacra epopea etiope: afferma che i sovrani del Corno d’Africa, al potere dal 1270, son progenie di Salomone e Makedà, “la Saba”. Di più, il loro Paese è il “vero Israele”. Da Menelik viene dunque il popolo dei falascia (niente accento sulla “a”, è meglio, meglio ancora è Beta Israel), negri ed ebrei. La storia narra solo un altro caso di popolo non etnicamente ebraico che abbracciò la Torah trasformandosi in un portento: i mitici khazari del Caucaso, che han dato all’Europa askhenazim più figli di quel che si pensa.
Il Corano, saccheggiando i testi ebraici e cristiani, ricorda la regina di Saba con il nome di Bilqis, una pagana adoratrice del Sole che voltò il cuore (è questo che Gesù le riconosce in Luca) al Dio di Mosè.
Insomma, i custodi dell’Arca sono allora monaci copti neri di pelle e rossi nel sangue falascia, votati per sempre a un “ordine” “templare” che veglia il divino tesoro suggellante il patto fra il Creatore e la sua creatura? Il ponte fra il Cielo e la terra sorge insomma all’ombra della Stele di Aksum? Il Prete Gianni, transi-tato qui dall’India (come dicon Marco Polo e le carte coeve), sorride benedicente.
L’impero di Addis Abeba fu abolito il 12 marzo 1975, sopravvivendo al Duce. Negra e bella, l’Etiopia resta la sposa, la madre, la regina del genere umano.
Marco Respinti
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