giovedì 23 aprile 2009

La piccola Asmara di Milano si divide tra solidarietà e paura

La comunità eritrea, tra le più numerose in città, di fronte al caso profughi. Lucia, cameriera "Anch´io sono scappata cinque anni fa, capisco il loro dramma" La Piccola Asmara di Porta Venezia ha i ritmi lenti delle regioni equatoriali, l´odore piccante dello "zighinì", lo spezzatino del Corno d´Africa, i colori scuri di chi viene dal caldo. Ma in questi giorni, nei ristoranti e nei negozi eritrei tra via Lecco e via Lazzaro Palazzi, il clima è pesante, come nelle zone di guerra. A ogni angolo, capannelli di gente che parla fitto in dialetto e guarda le foto sui giornali. Lacrime e indignazione, ma nessuno parla con nome e cognome, nessuno si espone, fra chi è qui da anni, ormai integrato. Nessuno porta aiuto concreto a quel centinaio di profughi che sfila per il centro, dopo un´altra giornata di tensione. Quella eritrea, con oltre 6mila presenze, tra regolari e non, è una delle comunità straniere più antiche e radicate a Milano. I primi "nezelà", gli scialli di garza bianca tipici delle loro donne, sono arrivati negli anni Trenta, dal paese che era stato colonia italiana dalla fine dell´800. La comunità è diventata numerosissima negli anni ‘70, durante la lotta di indipendenza dall´Etiopia, quando i soldi della diaspora finanziavano la guerriglia del Fronte di liberazione. Ma molti di quelli che allora erano rifugiati politici, oggi appoggiano il governo del temutissimo dittatore Issayas Afwerki. Quindi è muta la chiesa copta ortodossa di via Ippocrate, muto il consolato, muta la comunità di via Temperanza. Assente per motivi di lavoro anche Ainom Maricos, per 22 anni presidente della comunità, prima e unica immigrata eletta in consiglio comunale, con l´ex Pci. «Hanno tutti paura di mettersi nei guai col regime», spiega Marco Betti, attivista del Mossob, comitato italiano per un´Eritrea democratica: «Laggiù la situazione è drammatica: accanto alla repressione e alla disoccupazione, c´è uno stato di semiguerra causa della fuga di centinaia di migliaia di giovani, molti dei quali preferiscono rischiare di morire nel deserto, piuttosto che essere obbligati a prestare il servizio militare inutile e logorante imposto da un regime antidemocratico e violento». Per quel gruppo di sbandati, si muove solo Lucia, cameriera del ristorante Nashih di via Palazzi, che offre da mangiare gratis a chi arriva da Bruzzano: «Anche io sono scappata, cinque anni fa. Sono rifugiata politica. Capisco il loro dramma. Qui in Italia nessuno ti aiuta. E non puoi nemmeno scappare in Europa, perché ormai, con le impronte digitali, ti beccano alla prima frontiera». Soli e abbandonati dai connazionali, i rifugiati si appoggiano ai centri sociali. «Una strategia sbagliata, quella di occupare i binari e a scontrarsi con la polizia. Le rivendicazioni vanno portate avanti in modo civile, senza creare caos, trattando con l´amministrazione, se si vogliono risultati concreti», punta il dito l´imprenditore eritreo Michael Kidane, da 40 anni in Italia, noto oppositore del regime. «Alcuni di quei ragazzi, li conosciamo dai tempi del Forlanini. Conosciamo i loro problemi. E migliaia di altri arriveranno presto, perché nel mio paese, anche se il governo cerca di nasconderlo, si muore di fame e si prepara una nuova guerra, che nessuno vuole combattere».

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