“In balia delle onde per due settimane, hanno visto morire uno a uno i compagni di viaggio, per fame, sete, perché disidratati. Pur avvistati da altre imbarcazioni e in un caso avvicinati da un elicottero militare, non hanno ricevuto soccorsi. La corrente del mare li ha riportati in Libia, da dove erano partiti a bordo di un gommone il 25 marzo: su 72 ne sono sopravvissuti nove”. E’ solo una parte di una vicenda riferita alla MISNA da don Mussie Zerai, animatore dell’Agenzia Habeshia per la cooperazione allo sviluppo. Storia che alla MISNA è stata confermata da Sandro De Pretis, missionario francescano che a Tripoli ha incontrato i sopravvissuti insieme al vicario apostolico, monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli.
"Il gommone – dice don Mussie – era stato localizzato per l’ultima volta nel tardo pomeriggio del 26 marzo e da allora se ne erano perse le tracce. I sopravvissuti hanno detto di essere stati avvicinati quel giorno da un elicottero militare, molto probabilmente della Nato, da cui hanno ricevuto dell’acqua; qualcuno a bordo del velivolo ha anche scattato fotografie. C’è stato un contatto con la Guardia costiera italiana ma chi era al timone non ha saputo fornire l’esatta posizione. Sperando in successivi soccorsi e avendo quasi terminato le scorte di carburante sono rimasti fermi per 24 ore, poi persa ogni speranza hanno ripreso la navigazione fino a quando il motore si è fermato. A quel punto sono rimasti per giorni in attesa di un aiuto, ma di tante navi militari e pescherecci che incrociavano nelle vicinanze e a cui pure venivano fatti segnali – alzando in alto le taniche d’acqua vuote, urlando, sbracciandosi – nessuno si è fermato”.
Così, questo gruppo di migranti, per lo più eritrei ed etiopi, ha cominciato a vagare per il Canale di Sicilia, probabilmente a ridosso delle acqua maltesi. Mano a mano, il loro numero si è assottigliato, fino a quando l’imbarcazione non è stata risospinta sulle coste libiche dove sono approdati intorno al 5 aprile a Zelatien, una località non lontana da Misurata. “Sono in undici, stremati, hanno visto la morte in faccia, hanno perso amici e parenti, ma non è ancora finita” dice don Mussie. Militari del colonnello Muammar Gheddafi li individuano e per tre giorni li rinchiudono nel carcere di Zelatien, dove altri due di loro, un uomo e una donna, perdono la vita perché non assistiti. Da Zelatien, il 7 aprile, i migranti rimasti in vita vengono trasferiti al carcere Tuweshia a Tripoli, ad eccezione di un fratello e una sorella condotti invece in ospedale per essere curati.
“Adesso – dice alla MISNA da Tripoli De Pretis – sono stati rilasciati, vivono in un appartamento della città e hanno intenzione di recarsi in Tunisia per tentare una nuova traversata. Sono un eritreo e otto etiopi. Prima però dovranno riprendersi, quattro di loro non riescono a muoversi, uno è ridotto pelle e ossa, tutti portano i segni della lunga permanenza in mare”.
Questi sono i fatti. La denuncia e la preoccupazione riguardano invece i mancati aiuti a una imbarcazione in difficoltà che in molti hanno visto e che un elicottero militare ha anche avvicinato, per poi passare oltre. “Se dietro queste omissioni che violano la legge del mare e il diritto umanitario ci sono, come sembra, una politica, scelte e indicazioni precise, allora – conclude don Sandro – c’è qualcosa di barbaro”.
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