Venerdì 15 aprile, 11:12
Migranti abbandonati in mare. La testimonianza di un sopravvissuto (versione integrale)
di Emiliano Bos
Una richiesta di soccorso disperata. Un SOS che arriva ma che non serve a nulla. È l’ennesima tragedia dei migranti nel Canale di Sicilia. Ma questa volta accade qualcosa di diverso. Un elicottero militare soccorre 72 profughi alla deriva su un barcone. Getta acqua e biscotti, poi si allontana in un tratto di Mediterraneo dove incrociano navi da guerra e mezzi militari impegnati nel conflitto in Libia.
Ma nessuno arriverà a salvare questi africani che cercano un’altra vita in Europa, affidandosi a un guscio di legno col motore ormai spento. Il carburante è finito. Vagano per giorni in balia delle onde. Sono finiti anche acque e cibo. E a bordo, questi esseri umani troppo facilmente bollati come “clandestini” iniziano a morire.
Questa è la drammatica testimonianza raccolta in esclusiva dalla RSI.
La voce in inglese è di Abu Kurke, un etiope di 24 anni fuggito dalla regione dell’Oromia, dove la sua comunità chiede da anni maggior autonomia al governo di Addis Abeba. Scappa dalla persecuzione politica.
Ognuno ha le proprie ragioni per fuggire. Abu racconta al telefono da Tripoli che sul barcone c’erano 72 persone, tra cui 2 bambini: 7 dalla Nigeria, 6 dal Ghana, 5 dal Sudàn. 7 eritrei, il resto dall’Etiopia.
Il loro incredibile e assurdo viaggio inizia il 25 marzo. Alle 3 del mattino salpano da Medina, una zona alla periferia di Tripoli. Alla guida dell’imbarcazione c’è un ragazzo ghanese. Li dovrebbe portare a Lampedusa. Questa è la promessa. Dopo 18 ore la benzina è quasi finita. E l’isola italiana non compare all’orizzonte. Dalla barca, Abu e gli altri lanciano l’allarme. Chiamano don Mussi Zerai, un sacerdote eritreo che da anni, a Roma, lavora nell’assistenza di rifugiati e richiedenti asilo. Molti migranti del Corno d’Africa hanno il suo numero di cellulare al momento della traversata del “Mare Nostrum”, diventato ormai un “Mare Monstrum” che inghiotte migranti.
Don Zerai avverte la Guardia Costiera italiana. Il barcone viene localizzato a una sessantina di chilometri dalle coste libiche, ancora lontano da Lampedusa.
Per un giorno e mezzo il sacerdote riesce a “seguire a distanza” i naufraghi, ormai alla deriva. Probabilmente sono in acque internazionali, forse maltesi.
Nessuno li soccorre.
Dopo 3 giorni vengono avvicinati da un elicottero con insegne militari. Così racconta Abu, in questa testimonianza. Ricevono un po’ di bottigliette d’acqua e qualche pacchetto di biscotti. Pensano di essere salvi. Ma l’elicottero non torna. Due giorni più tardi incrociano una “grande nave con a bordo aerei da guerra”, dice Abu. Probabilmente una portaerei. Che con tutta probabilità non può non vedere i profughi. Ma non li soccorre.
Sulla barca si inizia a morire. Il sopravvissuto racconta che i primi ad andarsene sono i due bambini e due ragazze. Le gettano in mare. Poi altri 4 morti. Passano i giorni. Uno dopo l’altro i profughi si spengono, stremati. Resistono in 11. La corrente li spinge di nuovo in Libia. Sbarcano vicino a Misurata, la città libica sotto assedio da quasi due mesi.
“Pensavamo fosse l’Italia” sospira Abu in questa telefonata. Invece sono in Libia. Di nuovo. Lo capiscono subito, perché gli agenti di polizia libici offrono il consueto benvenuto riservato ai migranti. Cioè percosse e nessuna assistenza, nemmeno cibo o acqua. Una ragazza muore un’ora dopo lo sbarco. Un altro giovane superstite del naufragio morirà un paio di giorni dopo nel carcere di Zilten, dove i sopravvissuti , rimasti ormai in 9, di cui 8 etiopi e 1 eritreo, saranno rinchiusi per tre giorni. Poi il trasferimento a Tripoli. Ovviamente in prigione. Infine la salvezza, quando un amico etiope riesce a tirarli fuori dal carcere, due giorni fa.
Ieri, per la prima volta, ricevono viveri e assistenza dalla chiesa cattolica a Tripoli. E adesso aspettano. E chiedono di non essere dimenticati.
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