Sulla sponda sud del Mediterraneo è in atto quella che molti definiscono “la primavera del mondo arabo”. Come in un effetto domino, l’impatto delle guerre e delle rivoluzioni nei paesi del Nord Africa si sta facendo sentire negli altri paesi. Come rispondono l’Europa e l’Italia? Stando ai messaggi dei politici e agli umori della gente sembra regnare un clima di paura e di chiusura. Più che la complessità della situazione geo-politica, a preoccupare è soprattutto la questione immigrazione. Quanti profughi dovranno ancora arrivare? Come possiamo tenerli lontani? Se bombardiamo la Libia, arriveranno in massa? L’allarme è però eccessivo. Con questo aggettivo lo ha definito Laurens Jolles, rappresentante per l’Italia dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), nel corso di un incontro organizzato da Link2007 a Roma.
Secondo Jolles, lo stato di paura che regna sta facendo dimenticare gli impegni e i doveri di protezione che l’Italia e gli altri paesi hanno nei confronti di queste persone. Sulle coste di Lampedusa ne sono sbarcate 23 mila dalla Tunisia, e la maggior parte è stata trasferita in qualche altro paese europeo. Poi, a metà marzo, è cominciato il secondo flusso dalla Libia, di circa 8 mila persone, quasi tutti somali, eritrei, nigeriani. “Se si tiene conto che dalla Libia sono partite ben 700 mila persone, accolte per lo più in Tunisia, Egitto o in qualche altro paese africano, il numero di persone giunte in Italia è molto piccolo”, spiega Jolles. “Ciò non vuol dire che non dobbiamo essere preparati a un’ondata maggiore di profughi. Potrebbero essere 50mila, come dice il governo italiano, e la maggior parte richiederà asilo. Serve un piano di intervento per accoglierli e chiarezza sui fatti”.
Troppo spesso, infatti, si tende a includere sotto il cappello della clandestinità tutti i fenomeni migratori, senza considerare che molti fuggono dal proprio paese per motivi economici o perché perseguitati per ragioni politiche, religiose o etniche. Questi profughi, in base alle norme internazionali, hanno diritto di fare richiesta di asilo e di vedersi riconosciuto lo status di rifugiati. Il principio del “non respingimento” sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 trova applicazione anche in acque internazionali e vincola l’Europa. “Per quanto riguarda la procedura di accesso all’asilo in Italia, il sistema sta funzionando abbastanza bene. Il tasso dei riconoscimenti è alto rispetto alla media europea”, continua Jolles, che teme però la possibilità di un ritorno a quelle politiche di respingimento in mare attuate fino a poco tempo fa. “Ciò che preoccupa è la mozione approvata in questi giorni dalla Lega e dal Pdl, che impegna il governo a insistere affinché l’Unione europea ‘renda immediatamente operativa un’azione di pattugliamento del Mediterraneo’ allo scopo di fare prevenzione migratoria”.
L’atteggiamento di chiusura e di paura non riguarda solo l’Italia. Da quando sono iniziati gli sbarchi, altri paesi europei hanno cercato di bloccare l’entrata dei migranti nel proprio territorio. “Esistono norme che limitano la libera circolazione dei rifugiati tra i paesi; il Trattato di Dublino impone che chi arriva in uno stato e vi chiede rifugio debba rimanere lì”, spiega ancora Jolles. “L’Italia ha il diritto di dare i permessi di soggiorno, ma è sbagliato presentarli come la garanzia di una libera circolazione tra paesi. Per affrontare in maniera collaborativa la questione dei rifugiati, servono regole e standard comuni di accoglienza e di trattamento”.
Il problema non è solo politico ma sociale. Gli stranieri rifugiati in Italia, a differenza di quanto avviene in altri paesi europei, spesso vivono nel degrado, non hanno accesso ai servizi sociali e sanitari, non lavorano e stentano a integrarsi a causa della mancanza di una rete di sostegno e di accoglienza. “Serve una politica migratoria realistica, con delle quote di ingresso legali, basate sui bisogni del paese che ospita”, ha aggiunto Laura Boldrini, portavoce dell’Unhcr. “Ogni anno entrano nel nostro paese tantissimi migranti in possesso di regolare visto di studio e lavoro, che poi diventano irregolari e clandestini perché manca un sistema di integrazione e di supporto”.
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