sabato 28 marzo 2009

Il mondo in una goccia di rugiada

a cura di Leonardo De Franceschi, con la collaborazione di Laura Campanile Incontro con Haile Gerima Al termine della conferenza stampa romana di Teza, il 19 marzo, abbiamo incontrato un Gerima inesauribile, pieno di storie da raccontare e di rabbia per l’ostilità incontrata dal progetto di sequel di Adwa. Vorremmo partire da un elemento che è sempre molto presente nel tuo cinema, cioè la tradizione orale, come principio ispiratore della struttura narrativa e come patrimonio di miti e immagini che esaltano la natura (l’acqua, il fuoco, ecc.). Negli anni Settanta e Ottanta si faceva un gran parlare di ritorno alle fonti e dell’utilizzo della tradizione orale come strategia narrativa e simbolica. Teza ci sembra dimostri come questa direttrice sia ancora straordinariamente vitale e ricca di prospettive inesplorate… Per me viene anzitutto l’argomento, in questo caso la dislocazione intellettuale del protagonista. Se non posso portare nella storia il mio aspetto culturale, come posso trasmetterti il mio background, definire le piccole cose che mi mancano, come l’idea di teza? Io non sono mai stato interessato nell’idea di raccontare la mia storia così com’era. Erano altrettanto importanti il contesto e la forma del racconto. La mia battaglia è per l’identità. Chi sei, come parli, come guardi il mondo, e la logica del tuo processo di pensiero. Se sei nato in certe regioni, ti rimane un certo background. Ho sempre cercato di scoprire chi sono, perché vedo il mondo in un certo modo metaforico. Molti africani vogliono censurare il modo in cui guardano il mondo perché sentono che l’Europa non li capisce. A lungo termine io penso che l’Europa rispetterà il modo in cui essi guardano il mondo. Quando stavo facendo il film, fra il produttore e me le discussioni più grandi riguardavano il modo in cui gli europei avrebbero potuto entrare nella mia storia. Nessuno mi ha mai chiesto: gli etiopi capiranno? Gli etiopi pensano in termini storici, basandosi su una realtà materiale, culturale, sui rapporti umani, inventano di continuo metafore, indovinelli. Anche questo è importante preservare, e amplificare, senza vergognarsene. Uno dei guasti peggiori del colonialismo è stato spingere l’elite in Africa a vergognarsi del suo migliore passato, delle sue tradizioni, tutto è stato frainteso. Così automaticamente cerchiamo di autoesiliarci, dimenticare il modo in cui i nostri padri guardano il mondo. Quando il film è uscito in Etiopia, ho portato il mio zio più anziano a vederlo, insieme ai miei sei figli che ho portato dagli Stati Uniti. Alla fine del film li ho fatti incontrare e ho detto loro: ecco da dove vengo. Loro sono andati in Etiopia, l’hanno visitata, ma non capiscono mai, così ho invitato il patriarca della famiglia e lui si è messo a cercare nel film il figlio che ha perso durante la guerra. Lui che è fisicamente nel film, è uno degli anziani del villaggio, cercava nel film il figlio perduto! Pensa a quale prospettiva incredibile! Per lui l’illusione del cinema non finisce con i titoli di coda. Mi ha detto: la prossima volta voglio esserci perché il film non ho l’ho visto bene. Per me queste sono le esperienze che contano. Prendi la donna che recita il ruolo della madre: era un’orfana durante l’occupazione italiana insieme a mia madre, e durante le riprese era sempre nervosa per il ruolo. Io le ho detto: non ti preoccupare, tu conosci il ruolo, non ti devo dire niente. Noi l’abbiamo aiutata con un coach, perché non sa leggere. In Etiopia qualcuno le ha chiesto come avesse fatto a recitare, visto che era la prima volta, e lei ha risposto: la vergine Maria mi sussurrava di non rovinare il film di Haile. La madre di Gesù le sussurrava consigli su come recitare bene nel film! Non è proprio un metodo di recitazione alla Brando. Queste sono le realtà che interessano a me, il modo in cui pensano gli etiopi, sull’amore, l’odio, l’amicizia, ecc. Se vieni da un villaggio, hai già un’estetica, un modo di vedere il mondo. Vuoi esprimerlo o rinunciarci perché il produttore non la pensa allo stesso modo? Ho incontrato un produttore che mi ha detto: voglio fare un film in Etiopia. Non mi ha chiesto che film volessi fare io. Mi capita continuamente. Tutti hanno un progetto da fare in Etiopia, tranne me. Ho quattordici sceneggiature. In questi quattordici anni che mi ci sono voluti per fare Teza non ho fatto altro che scrivere sceneggiature, con cui potrei andare avanti per anni. Come altro avrei potuto gestire la mia dislocazione? Il cinema può ottenere molto dagli africani, dai latinoamericani perché c’è una ricchezza inesplorata sul piano estetico. Il cinema italiano è ricordato romanticamente per il neorealismo. Perché? Perché era italiano. Ora anche i film italiani sembrano film hip hop, come quelli americani, sembrano film americani doppiati in italiano. L’impero americano sta cambiando il linguaggio del cinema mondiale. I francesi stanno lottando per affermare il proprio diritto ad essere diversi da Hollywood. Per quanto tempo potranno andare avanti io non lo so. C’è un legame molto forte fra Teza e Harvest 3000 Years (1975). Mi riferisco in particolare al personaggio del ricco proprietario, ossessionato da Azanu che ha ucciso il suo figlio naturale. Il suo potere assoluto sulle cose e sulle persone, che continua anche sotto il regime di Menghistu, mi ha ricordato il potere feudale del padrone di Harvest. Volevi forse suggerire che nell’Etiopia di oggi ci sono ancora segni di questo potere feudale millenario? Sì, parlerei di segni di persistenza. Al di là di quelle che erano le parole d’ordine politiche, durante il regime marxista, la maggior parte dei marxisti erano feudali. Non c’è niente di peggio che essere feudali e marxisti. Questo tizio è come quello di Harvest, nel nuovo mondo marxista fa il giudice, ma è rimasto feudale e fa ancora più danni adesso perché i vecchi feudali avevano un sistema di regole spirituali, si ritenevano investiti da Dio del diritto di sfruttarti. Quando ti appoggi a un pensiero stalinista o maoista, il risultato è esplosivo e violento. Hai ragione, per me Teza è un sequel di Harvest. Ho imparato molto facendo Teza, però mi ricordo in effetti l’inizio di Harvest, con il primo piano di quell’uomo con la barba e quel suono, hmm, hmm, perché era un flashback: Harvest è la storia di questo ragazzo che è saltato sul camion e ritorna ai tempi del marxismo, dopo la nazionalizzazione del raccolto, e lo stesso accade ad Amberber. Io ho capito questo legame solo al termine del mixaggio. Alla fine di Harvest i poliziotti requisiscono e nazionalizzano il raccolto e il figlio dei contadini, Barrihun, salta sul camion e scompare verso la modernizzazione lungo la strada costruita dagli italiani. Ma all’inizio del film noi lo vediamo ormai adulto, con la barba, che si ricorda della madre, del villaggio, e poi ritorna dall’Europa. Come hanno reagito gli etiopi a Teza? Direi in modo anormale. Come a Sankofa. Per Sankofa, i neri americani sono stati molto possessivi, perché erano arrabbiati. Sankofa è l’unico film che è stato fatto per il pubblico nero in America, così lo sentono loro, in grado di esprimere la loro idea di schiavitù. Quando c’è la proiezione, viene la rabbia e con la rabbia, la prospettiva si rovescia. Con gli etiopi è stato lo stesso. Con Teza c’è stata molta emozione, pianti. Mi hanno detto che a Ouagadougou una donna africana di un altro paese ha reagito al film piangendo, e dicendo che quella era la sua storia. In Etiopia il film continua ad essere programmato. Una persona che conosco mi ha detto: Sai, l’ho visto tre volte perché questa è la storia di mio padre. Naturalmente, ci dovevo mettere dentro questa rabbia, altrimenti sarebbe venuto fuori un film ordinario. E invece è un film anormale, perche la gente esce dalla sala arrabbiata. Anche perché ci sarebbero potuti essere dieci film diversi sullo stesso argomento. Tanti l’hanno presentato come se avessi fatto un film sul periodo della giunta [in italiano, ndr]. E invece no, ero in esilio, non ne so nulla. Gli unici che sanno tutto sulla giunta sono morti o vivono da ubriachi in Etiopia, e conoscono la storia meglio di me. Non voglio nemmeno far finta di aver fatto un film su questo, ho usato il periodo della giunta come sfondo, il mio è un film sulla dislocazione intellettuale, non sulla giunta. Tutti i governi africani per me sono come la giunta, civili o militari che siano, mentre molti l’hanno presa come una risposta a un periodo di atrocità. Ci ha colpito anche la parte tedesca di Teza. Il film contiene una riflessione lucida su quelli che sono i problemi ma anche i semi positivi lasciati dall’incrocio di razze e culture, basti pensare al personaggio di questo ragazzino, Teodross, figlio di Tesfaye e Gabi, che esprime la propria rabbia attraverso la scrittura… Ma perché proprio la Germania? Si tratta di una scelta dettata esclusivamente da ragioni coproduttive, oppure hai voluto in questo modo evitare un ancoraggio troppo diretto alla tua esperienza personale? Sono intervenute ragioni di coproduzione con l’ingresso dei tedeschi. La prima sceneggiatura l’ho scritta per l’America. Non per essere autobiografico, è vero che in America è venuta larga parte dell’élite etiope di sinistra, oltre che in Russia e in Cina. Ma non sono riuscito a trovare partner per la coproduzione. Persino Sankofa è una coproduzione tedesca. Poi, tu sei italiano, ma non hai mai visto un film su un italiano di origini miste, con madre etiope… No, infatti… Non sai quanti ce ne sono, che hanno lasciato l’Etiopia durante la giunta. Il mio migliore amico ha la madre etiope e il padre inglese, venuto durante la guerra anticoloniale. Ce ne sono tanti in Europa, in Germania, in Italia. La loro storia non è mai stata raccontata. Ogni volta che vado all’estero in cerca di una coproduzione, queste persone mi assediano. La prima volta che sono andato a Berlino a mostrare Harvest, c’era una ragazzina nera che non faceva che piangere. Ho dedicato Teza a tutte queste persone che ho incontrato. Il personaggio di Cassandra è molto reale. È stata la logica della coproduzione a farmi trasferire la storia in Germania, ma ero pronto a girare negli Stati Uniti. Non c’è stata però possibilità in America, nessun canale, quindi mi sono appoggiato alla Germania e ad alcuni amici inglesi. Davvero tutte le porte ti sono state chiuse negli States? Anche nella rete del cinema indipendente, fra le emittenti via cavo come la HBO… Nessun film africano ha mai trovato una coproduzione negli Stati Uniti. In Europa se non altro puoi trovare degli intellettuali che sono disposti a discutere. In America non c’è neanche possibilità di discussione. Scorsese per esempio ha presentato Harvest a Cannes per Cannes Classic, ma gli americani non se ne sono accorti. Gli americani sono molto negativi davanti all’Africa, anche se c’è un grande mercato nell’America nera e fra i bianchi democratici nei confronti del cinema africano, ma per le compagnie americane l’Africa è solo un mercato dove lanciare i propri film. Persino Sankofa, che è sulla schiavitù, in America ha incontrato una completa ostilità. Mi dissero persino che stavo distruggendo la mia carriera. In conferenza stampa, hai detto cose molto severe sui cineasti africani giovani, accusandoli di fare film su misura degli europei. D’altra parte, in diverse interviste citi registi africani delle prime generazioni come Sembene Ousmane, Med Hondo, o magari Raoul Peck, che hai ringraziato nei titoli di coda. Ma ci sono registi dell’ultima generazione che ti sembrano interessanti o magari ai quali ti senti vicino? Raoul è uno di una generazione successiva, era ancora uno studente quando noi abbiamo cominciato a fare film... Per me, molti giovani registi africani non sono orientati alla battaglia, ma piuttosto alle luci della ribalta. E che cosa pensi di Abderrahmane Sissako e, in particolare, di Bamako? Non conosco i suoi film, per dirti la verità, ma lo rispetto perché non si atteggia a regista. In ogni parte del mondo, ad essere registi e basta si può essere fascisti, puoi amare il cinema ed essere fascista. Per me il pericolo principale del cinema è quello di far parte della struttura dell’impero. Non possiamo essere soddisfatti della storia del cinema. Se sei un nativo americano, ti ritrovi con centinaia di film di cowboy in cui i tuoi antenati sono descritti come selvaggi. Sono stato fortunato, quando ho cominciato a studiare cinema a Chicago, ad incontrare studenti messicani, asiatici, nativi americani che volevano fare film per capire chi erano, invece di giocare con i travestimenti hollywoodiani. Non posso rinunciare a questa passione originaria che fa di me quello che sono. Ogni regista africano che guarda al cinema come a una forma di divertimento non mi suscita nessun interesse. Quando cominci ad amare la luce dei riflettori e a cercarla, sei finito. Quando sono andato a Venezia e tutte le macchine fotografiche erano su di me, e tutti mi gridavano girati di qui, girati di là, è stato il momento più terribile della mia vita, ma mi sono detto che bisognava farlo per la distribuzione. Questo è quello che uccide il cinema, l’assenza di integrità. Quando la tua integrità è dislocata, lo è anche la tua storia. Così si prostituisce lo spirito del cantastorie. Per finire, siamo davvero arrabbiati per l’ennesimo rifiuto da parte della RAI e del Luce del progetto di The Children of Adwa... Lo so, tanti italiani mi hanno aiutato e testimoniato la propria solidarietà. Riprenderò le ricerche in Russia, ho trovato dei materiali d’archivio straordinari girati da operatori sovietici. Immagini documentaristiche relative alla vita di tutti i giorni, contadini, donne, e tutte di qualità eccezionale.

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