lunedì 16 marzo 2009
La mitica Abissinia cristiana
Se si chiede agli Italiani cosa pensano quando si dice «Abissinia», la risposta sarà legata ai fatti della Seconda Guerra Mondiale, alle colonie o, tutt’al più, alla recente questione dell’obelisco di Axum che, poi è stato restituito forse senza troppa ragione. Così, la cultura e l’arte etiopiche restano ai margini dei nostri interessi che, perciò, ci farebbero misurare con l’ingombrante passato di potenza coloniale, in contrasto con l’idea, sempre segretamente accarezzata, di «Italiani brava gente». Adesso, una bella mostra «Nigra sum sed formosa».
Sacro e bellezza dell’Abissinia cristiana, aperta da oggi fino al 10 maggio nelle sontuose sale di Ca’ Foscari a Venezia, ci rivela un’Abissinia insospettata, ricca d’arte e di tradizioni. La sede veneziana è ampiamente giustificata dalla Storia perché risale al 1402 il primo rapporto diplomatico noto fra Venezia e l’Abissinia, quando il 26 agosto di quell’anno, il doge Michele Steno (1400-1413) raccomandava al duca di Candia (la Creta di allora) l’ambasciatore del Prete Gianni «domini Indiae», che faceva ritorno in Abissinia. Per secoli, infatti, l’Abissinia fu considerata la patria di questo mitico sovrano, signore dell’India, che sedeva ad una tavola di smeraldo circondato dai suoi cavalieri. Il Prete Gianni aveva scosso le coscienze di tutt’Europa scrivendo nel corso dei secoli ai potenti della terra: prima una lettera all’Imperatore Emanuele I Comneno (11431180), poi a papa Martino V (1431-1447), per incitarli alla lotta contro i musulmani e alla riconquista del Santo Sepolcro. Come ha poi dimostrato la filologia successiva, quelle lettere erano dei falsi, scritte probabilmente da un vescovo tedesco; ma per secoli, su questo ed altri indizi, visse e prosperò la leggenda del Prete Gianni, paladino della cristianità.
Del resto che la terra d’Abissinia fosse il luogo dei sogni degli uomini, lo dimostra la leggendaria sovrana di quel mitico regno: la Regina di Saba che, come narra la Bibbia nel Primo Libro dei Re (10, 1-13) e nel Secondo delle Cronache (9, 1-12), si era scomodata per andare a conoscere il Re Salomone la cui fama di saggezza era giunta fino alle sue riverite orecchie. Alla luce di questi fatti, gli esegeti interpretarono il celebre verso del Cantico dei Cantici (1, 5) «Nigra sum, sed formosa», ovvero «sono scura, ma bella», come se fosse da riferire alla mitica regina e all’incontro con il sovrano biblico. Proprio questa frase dà il titolo alla mostra veneziana, che si propone di raccontare le meraviglie della terra d’Abissinia e il mito che nei secoli le è cresciuto intorno.
Curata da Giuseppe Barbieri, l’esposizione si avvale del contributo d’altri insigni studiosi fra i quali Stanislaw Chojnacki, professore emerito dell’Institute of Ethiopian Studies dell’Università di Addis Abeba, oltre che gli italiani Gianfranco Fiaccadori, Mario Di Salvo e Osvaldo Ranieri. Il percorso espositivo contempla anche un imponente apparato multimediale che, proprio nella parte iniziale dell’esposizione vuole introdurre il visitatore nell’atmosfera di quel paese con fotografie, filmati proiettati su pareti a grandezza naturale, interviste virtuali a Stanislaw Chojnacki e musiche che fanno di contorno alle acqueforti dedicate da Lino Bianchi Barriviera, fra il 1939 e il 1949, ai suggestivi scorci delle chiese rupestri di Lalibela (presso Roha, l’antica capitale dei re zague), dal nome del sovrano che le fece costruire fra il XIII ed il XIV secolo.
Al piano superiore, invece, sono esposti i primi oggetti importanti, a cominciare dal Mappamondo di Fra’ Mauro, capolavoro della Biblioteca Marciana, prestato per l’occasione, che offre subito la dimensione geografica della mostra. Intorno, nelle vetrine, le croci astili finemente lavorate e gli altri oggetti rituali legati alla devozione cristiana. Più avanti, poi, la cultura artistica dell’Abissinia si dipana fra le pagine dei suoi codici e i legni d’icone totalmente inedite che trovano qui, per la prima volta la loro occasione espositiva. Infine, il legame fra l’Abissinia e Venezia si rinsalda ancora con le opere di Nicolò Brancaleone, il pittore inviato in quella terra lontana intorno al 1480. La sua bottega fu un punto di riferimento per lo sviluppo stesso dell’arte abissina che solo di recente è stata riletta anche alla luce di questo contributo.
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