mercoledì 29 aprile 2009
Terroristi lasciano il confine afgano per raggiungere l'Africa
Usa temono nuovo Afghanistan in Somalia, esperti: difficile
Washington, 28 apr. (Apcom) - La Somalia rischia di diventare il nuovo Afghanistan. Lo sostengono funzionari dell'esercito e dell'anti-terrorismo Usa, secondo cui diversi terroristi attivi fino ad oggi nelle regioni tribali al confine tra Pakistan e Afghanistan si stanno trasferendo nell'Africa orientale. Tuttavia, precisano le fonti, i movimenti degli esponenti di al Qaida non significano che l'organizzazione stia abbandonando la regione pachistana; al contrario, invece, indicano una crescita di influenza da parte di al Qaida e l'avvio di una campagna per favorire gli arruolamenti in una regione dove già si contano numerosi militanti. Fino ad oggi sono circa 20 o 30 i combattenti stranieri che hanno abbandonato la regione tribale asiatica per trasferirsi nel Corno D'Africa. Tuttavia, gli attentati del 1998 contro le Ambasciate Usa in Kenya e in Tanzania vennero messi in atto da una piccola cellula terroristica. A preoccupare, infatti, non è tanto il numero dei terroristi in arrivo in Africa, quanto piuttosto il bagaglio di esperienze acquisito sul fronte afgano-pachistano che viene trasferito nel continente. "C'è un livello di attività che preoccupa, inquieta", ha detto all'Associated Press il generale Usa William 'Kip' Ward, capo del Comando Usa per l'Africa (Africom). "Quando hai a disposizione questi spazi, che sono senza governo, riesci ad avere un rifugio sicuro per le attività di sostegno e per quello di addestramento". I funzionari Usa stanno già monitorando fazioni estremiste che condividono informazioni e tecniche in Africa orientale. Lo scorso marzo, Osama bin Laden ha diffuso un messaggio in cui ha esortato i "campioni della Somalia" a "rovesciare" il presidente Sharif Ahmed, il leader islamico moderato eletto a fine gennaio alla guida del Paese, e a sostenere i loro "fratelli" jihadisti in Afghanistan, Pakistan, Palestina e Iraq. Negli ultimi mesi, i miliziani attivi nella regione hanno anche fatto ricorso a sofisticate tecniche terroristiche già usate da al Qaida, come nel caso degli attentati suicidi multipli messi a segno lo scorso ottobre nelle regioni somale del Somaliland e del Puntland. In passato, precisano le fonti Usa, i musulmani africani disapprovavano gli attacchi suicidi. L'arrivo dei combattenti stranieri nell'Africa orientale complica inoltre una situazione già di forte instabilità della regione, che vede in primo piano i miliziani somali al Shabab (giovani, ndr) e un piccolo gruppo di estremisti noto con l'acronimo Eeaq. Sebbene non sia considerato una cellula di al Qaida, Eeaq ha legami con i principali leader dell'organizzazione terroristica e venne coinvolta negli attentati del 1998, costati la vita a 225 persone. Le autorità Usa ricercano per questi attentati Fazul Abdullah Mohammed e diversi altri membri dell'Eeaq: sulla testa Mohammed è stata messa una taglia da 5 milioni di dollari. Al Qaida ha le capacità e gli Shabab hanno la manodopera, ha sottolineato un alto ufficiale dell'esercito Usa attivo nella regione. Eeaq dispone invece di una piccola cellula di poche decine di uomini che raramente dormono nello stesso posto due notti di seguito e che sono capaci di allestire campi di addestramento temporanei, smontabili in pochi giorni. Quello che preoccupa i vertici militari Usa, sottolinea l'ufficiale, è una possibile fusione tra Eeaq e Shabab per le attività di addestramento e le operazioni, che potrebbe far arrivare al Qaida anche tra le migliaia di miliziani somali oggi organizzati su basi prevalentemente claniche e impegnati finora in questioni interne. Lo scenario potrebbe diventare ancora più preoccupante se i combattenti stranieri insegnassero nei campi di addestramento africani le tecniche per fabbricare ordigni e le loro tattiche di guerriglia. Tuttavia, esperti africani sostengono che non sarà facile per gli estremisti islamici riuscire a fare adepti nel Corno d'Africa. Secondo il direttore del Dipartimento Africa dell'International Crisis Group, Francois Grignon, la maggior parte dei somali, divisi in clan, praticano un islam più moderato e gli stessi miliziani non si uniscono a lotte che non li riguardi direttamente. Gli Stati Uniti, ha aggiunto, dovrebbero sostenere le iniziative adottate dal nuovo governo somalo per fronteggiare la crescente minaccia terroristica e marginalizzare i jihadisti, in modo da impedire ogni loro attività nel Paese. Il comandante di Africom, Ward, ha riferito di attività di cooperazione avviate dagli Usa con diversi Paesi africani per favorire la creazione di forze di sicurezza nazionali, sottolineando però le difficoltà incontrate a fare altrettanto in Somalia, dove il governo è ancora molto fragile. Nel frattempo, ha aggiunto, le forze americane continueranno a vigilare sui gruppi estremisti. "Credo che rappresentino tutti una minaccia - ha detto - al momento sono chiaramente una minaccia per gli africani, ma nell'attuale società globalizzata questa minaccia può essere esportata ovunque con molta facilità".
I Diritti dell'Uomo e la "farsa ridicola e indecente di Durban II"
In una pregevole analisi sulle conseguenze e gli effetti politici della conferenza Durban II, organizzata dal consiglio dei diritti umani dell'Onu, pubblicata questa mattina dal Corriere Della Sera, il filosofo ed intellettuale francese Bernard-Henri Lévy sviluppa una riflessione degna e meritevole di attenzione.
Per Henri Levy la conferenza anti razzista, tenutasi a Durban, si è trasformata in una farsa ridicola ed indecente. Infatti l'evento è stato organizzato dalla Libia, Paese nel quale non esiste una vera democrazia, ed è stato inaugurato dall'Iran, a capo del quale vi è il Presidente Ahmadinejad, non particolarmente sensibile verso il rispetto dei diritti umani.
Il documento finale, sottoscritto dai paese che hanno preso parte all'evento, è intriso di ambiguità ed ipocrisia, anche se per fortuna mancano le parole di condanna contro gli ebrei, le donne, i liberi pensatori, la libertà di opinione in materia religiosa.
A parte la denuncia del carattere razzista del sionismo, opinione che suscita indignazione, espressa dal presidente Ahmadinejad, nel corso della conferenza nulla è stato detto dei paesi in cui i diritti umani sono violati quotidianamente, come in Burundi, in Eritrea, in Angola, nello Sri Lanka, nelle isole Molucche.
I milioni di persone, vittime nel mondo di regimi dittatoriali e tendenzialmente genocidi, non hanno potuto ascoltare una paralo di condanna nei riguardi di quanti sono responsabili politicamente della violazione dei diritti umani.
Per Bernard Henri Levy per riparare a questo oltraggio e a questa vergogna, che offende la dignità delle popolazioni oppresse da regimi genocidi e oppressivi, occorre ripensare profondamente il ruolo e ridefinire le funzioni del Consiglio dei Diritti dell'Uomo, nell'ambito delle Nazioni Unite.
Il Consiglio dei Diritti dell'Uomo non deve essere dominato da paesi che hanno dimostrato di non tenere in nessuna considerazione la carta dei diritti dell'uomo, promulgata dopo la fine della guerra fredda. Per Henri Levy i paesi che hanno regimi politici dittatoriali e che si sono macchiati di crimini gravissimi contro la dignità della persona umana, violandone i diritti fondamentali, devono essere esclusi dal Consiglio dei Diritti dell'Uomo.
Per arrivare ad avere una riforma di questa natura, secondo l'analisi del filosofo francese, è necessario che a capo delle Nazioni Unite vi sia un uomo che abbia una tempra morale superiore a quella del debole ed inconcludente Ban Ki Moon. Soltanto in questa maniera sarà possibile evitare che la bella espressione dell'anti razzismo non venga abbandonata nelle mani di politici come Ahmadinejad e che, soprattutto, nel Consiglio dei diritti dell'uomo si ritorni a denunciare la situazione insostenibile esistente in molti paesi, dall'Iran alla Cina, in cui la violazione dei diritti umani continua ad essere perpetrata, mentre la comunità internazionale rimane in silenzio.
GIUSEPPE TALARICO
sabato 25 aprile 2009
Consiglio d'Europa, l'Italia è seconda in Europa per violazioni dei Diritti Umani e "precipita" verso il primato dell'orrore
Strasburgo, 25 aprile 2009. Nel 2006 era nella media europea: non certo un Paese esemplare, in quanto a rispetto delle minoranze, ma neanche una nazione da additare per le politiche disumane. Nel 2007 è salita al settimo posto in quella che va definita la "classifica dell'orrore". Settima su 47 Stati membri Ue, un volo verso il basso che le organizzazioni per i Diritti Umani percepirono con sconcerto, perché gli abusi raggiungevano le fasce più vulnerabili della popolazione, i migranti e le etnie "non italiche" sia da parte del governo che da parte delle amministrazioni locali, senza differenze, in quanto ad efferatezza persecutoria, fra destra e sinistra. Nel 2008 l'Italia è "salita" - come attesta il Rapporto dell'Ue sull'esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo - al secondo posto, dietro la Romania, con un distacco ridottissimo. E parliamo della Romania in cui vivono due milioni di Rom e dove comunque, a differenza del nostro Paese, esistono fermenti di integrazione, come dimostra il progetto - perorato a lungo proprio dal Gruppo EveryOne - di un finanziamento europeo alle aziende sane che decidano di assumere mano d'opera proveniente dalle minoranze etniche. La decadenza morale e civile delle Istituzioni italiane pare ormai irreversibile. Le autorità hanno intrapreso la via della persecuzione dei comparti sociali deboli, dei Rom, dei migranti. Non si era mai visto, in Italia, un simile spettacolo di crudeltà, intolleranza, odio razziale. La negazione dei diritti dei profughi, vessati come criminali, detenuti illegittimamente, maltrattati in modo abietto nei Cie ed espulsi verso Paesi in cui sono in corso guerre, persecuzioni e crisi umanitarie: mai si erano viste tante violazioni della Convenzione di Ginevra, dalla Carta europea dei diritti fondamentali, della Convenzione universale dei diritti umani. Mai, dopo gli anni che ricordiamo ancora nelle Giornate della Memoria, si era vista una nazione capace di irridere le basi morali e giuridiche della democrazia, della civiltà. Gli sgomberi di famiglie Rom con bambini, donne e malati, anche in pieno inverno, senza alcuna assistenza né alternative umanitarie resteranno nella Storia, perché si è trattato di episodi di efferatezza accanita e abietta: pura xenofobia, puro odio etnico. Da Milano e Roma (città in preda a un'intolleranza spietata e raccapricciante), da Bologna a Firenze (i cui sindaci xenofobi sono stati irresponsabilmente premiati dalla sinistra italiana in vista delle elezioni europee), da Torino a Napoli, da Verona a Pesaro (Pesaro... dove neanche la morte di due bimbi nel grembo delle madri, di etnia Rom, ha mosso le autorità locali, agghiaccianti nel loro odio etnico, a cambiare politiche), dovunque il clima è diventato psicoticamente securitario, ostile a chi è diverso o socialmente in difficoltà. L'Italia, inoltre, ha il poco invidiabile primato nel numero di casi pendenti (2428 di cui 2183 relativi ai processi lenti) davanti al Comitato dei ministri. Per la chiusura di molti casi, spiegano a Strasburgo, serve l'adozione di misure, in genere riforme legislative, che sanino la situazione evitando il ripetersi delle violazioni.
roberto.malini@everyonegroup.com
venerdì 24 aprile 2009
AFRICA/ETIOPIA - Il Card. Massaja e la fiorente stagione delle missioni cattoliche
Roma (Agenzia Fides) – Nel 1846 il missionario Cappuccino Guglielmo Massaja – di cui ricorre quest'anno il bicentenario della nascita – veniva consacrato Vescovo e nominato primo Vicario Apostolico dei Galla, nel Sud dell'Etiopia. Grazie alla straordinaria epopea missionaria del Massaja, durata 35 anni e costellata dalla realizzazione di fondamentali opere sanitarie e sociali, le missioni cattoliche nell'antica terra di Cus conobbero una stagione fiorente che portò alla nascita del clero locale e ispirò missionari come Daniele Comboni, Francesco Jordan e Giuseppe Allamano.
“Con la sua sensibilità di uomo di fede – ha detto all'Agenzia Fides Franco Salvatori, Presidente della Società Geografica Italiana e del Comitato per il Bicentenario del Cardinal Massaja – il religioso francescano avvertì la diversità culturale come una ricchezza ed operò in armonia con le molteplici identità africane. Il ricordo del Massaja oggi è ancora molto vivo fra gli abitanti, intriso di affetto e di venerazione”.
Prima dell'erezione del Vicariato dei Galla alcuni missionari cattolici avevano tentato una via di accesso all'Etiopia incontrando serie difficoltà. All'inizio del Seicento un editto di proscrizione aveva colpito i missionari Gesuiti e per più di un secolo solo i Francescani avevano continuato ad operare nella regione, incontrando il martirio nel 1683. Dopo altre iniziative senza esito del Cardinale Richelieu e di Luigi XIV, la Francia penetrò in Etiopia nel 1837 grazie ai due esploratori Antonio e Arnaldo d'Abbadie, che riferirono dettagliatamente a Propaganda Fide supplicando l'invio di missionari.
Nel 1839 la Santa Sede istituì la Prefettura Apostolica dell'Abissinia, affidata al Lazzarista Giustino De Jacobis (canonizzato da Paolo VI nel 1975). Quindi, nel 1846, ne divise il territorio in 3 circoscrizioni comprendenti il Vicariato Apostolico dei Galla (affidato a mons. Guglielmo Massaja) e il Vicariato Apostolico del Sudan o Centr'Africa (affidato nel 1877 a mons. Daniele Comboni).
L'occupazione italiana dell'Etiopia nel 1935 determinò una completa riorganizzazione delle circoscrizioni ecclesiastiche. Il Vicariato dei Galla venne frantumato nei Vicariati di Harrar (affidato ai Cappuccini) e Gimma (ai Missionari della Consolata) e in numerose altre Prefetture e Delegazioni Apostoliche. Nel 1941, con il ritorno dell'imperatore Haile Sellassie, tutti i missionari italiani vennero espulsi dal paese. Ad assistere le popolazioni cattoliche venne chiamato da Asmara il primo Vescovo eritreo, mons. Kidanemariam Kassa, che con l'aiuto dei sacerdoti locali assicurò la vita pastorale di quello che era stato l'antico Vicariato del Massaja.
A cominciare dagli anni Cinquanta la Santa Sede ha iniziato una sistematica riorganizzazione dei territori ecclesiastici dell'Etiopia da cui emergono due grandi regioni. Una a Nord, includente gran parte dell'antico Vicariato del De Jacobis, costituito in Provincia ecclesiastica di rito orientale con la sede metropolitana ad Addis Abeba (1961). La seconda a Sud, comprendente il territorio del Massaja ed articolato in una serie di Vicariati: Harrar (retto dal Vescovo Pasquale Ghebreghiorghis), Soddo-Hosanna (affidato ai Cappuccini), Awasa (Comboniani), Neqemtie (Lazzaristi), Meki (Missionari della Consolata). Recentemente Emdibir è stata eretta ad Eparchia di rito orientale e assegnata al Cappuccino eritreo mons. Musie Gebreghiorghis. In tale sede si sta svolgendo l'ultima tappa del processo di Beatificazione di mons. Massaja. L'Agenzia Fides pubblicherà prossimamente un Dossier che ripercorre la vita, i viaggi, l'apostolato e l'impegno sociale del grande missionario. (A.M.) (Agenzia Fides 24/4/2009; righe 41, parole 522)
Il 25 aprile di un rifugiato eritreo
Lucia Alessi
[24 Aprile 2009]
Parla Thomas, uno dei 300 rifugiati accolti dal centro sociale Il Cantiere, a Milano, dopo il violento sgombero subito dalla polizia a Bruzzano.
«E’ vita questa?». Se lo domanda Thomas, 28 anni eritreo, uno dei 300 rifugiati che venerdì scorso hanno occupato il Leonardo Da Vinci, e da martedì sono costretti a dormire nel parco davanti al Paolo Pini. Unica eccezione, la notte scorsa, quando «per una notte abbiamo accettato la proposta del comune: avevamo bisogno di riposare. – ci spiega Thomas – Ma oggi siamo andati via, dobbiamo tenere unite le famiglie, restare tutti uniti. Soprattutto vogliamo soluzioni vere».
Thomas, come la maggior parte dei suoi amici, nel suo paese era un militare, impegnato in una guerra che non aveva scelto, e nel 2003 «ho lasciato i fucili e sono scappato», ci confida. Da allora anche per lui è iniziata la lunga Odissea attraverso il continente africano, prima il Sudan, poi il deserto e la Libia. Tappa tristemente obbligata, 2 mesi in un carcere libico, sufficienti a convincere Thomas a pagare altri soldi per fuggire. Dopo 4 giorni approda a Lampedusa con un gommone con altre 110 persone. E’ il 2005: due anni e 3000 euro di viaggio. «La mia famiglia ha dovuto faticare molto per mettere insieme una cifra del genere, ma se mi avessero preso non avrei avuto scampo», spiega. Dopo pochi giorni vengono mandati al Cara di Borgo Mezzanone, nella perferia di Foggia, ultimamente balzato alle cronache per l’istituzione di un nuovo autobus riservato agli ospiti del centro, per separarli dai viaggiatori «locali».
Lì Thomas ha potuto fare domanda di asilo e attendere una risposta arrivata 4 mesi dopo, decretando la fine del suo soggiorno nel centro. «Non avevo nulla. Anche per pagare il rilascio dei documenti ho lavorato nei campi per guadagnare i 65 euro necessari per il rilascio». Difficile immaginare dove andare per ricominciare, partendo da nulla. «Mi hanno mandato a Crotone, presso una comunità che ospita stranieri». A Crotone, Thomas ha lavorato come fioraio: 4oo euro al mese, per tre giorni a settimana. Un contratto a quattro mesi, scaduto insieme ai sei mesi di permanenza nella comunità, dopo i quali avrebbe dovuto trovarsi un’altra sistemazione. «L’unica cosa che potevo fare era raggiungere alcuni amici che avevo qui, arrivati in Italia molto prima di me». Firenze, Bologna, Napoli. «Ovunque era la stessa storia. Brave persone, amici cari trasformati dalla disperazione, diventati fantasmi, costretti a vivere senza casa, nè lavoro. Molti avevano iniziato a bere: non li riconoscevo più, non potevo restare». Senza altre conoscenze, Thomas è costretto a tornare a Crotone, e trova lavoro in un benzinaio, dove lavora 12 ore al giorno per 600 euro mensili. «Ma ero senza contratto, e avevo paura. Così sono partito per Milano».
Sei mesi dopo, con un sorriso tanto incredulo quanto arrabbiato, Thomas racconta «Milano l’ho girata tutta: agenzie di lavoro, cooperative, tutti chiedono la residenza e un contratto di affitto. Ma se nessuno mi fa lavorare, come faccio a prendere una stanza?». Come se non bastasse, «per ottenere il rinnovo del permesso – che ha una validità annuale – devo tornare a Foggia, ma nessuno mi dice quando. In un anno sono tornato a Foggia 20 volte, ogni volta spendendo soldi, tempo, giorni in cui nessuno sapeva dirmi perchè il permesso non era arrivato, nè quando lo avrei visto». Dopo un anno di attesa, durante il quale il foglio sostitutivo del permesso sembra non avere alcuna validità agli occhi dei potenziali datori di lavoro, finalmente il permesso: scadenza, 10 giorni.
Vittime di un perverso circolo vizioso, altre 300 persone, tra cui donne e bambini, come Thomas trascorrono per strada le loro vite, «chi da mesi, altri da anni» raccontano, in attesa di una soluzione che «sembra impossibile da trovare». Per questo molti hanno provato a lasciare l’Italia, raggiungendo la Germania, la Francia, dove però il trattamento è sempre lo stesso, e vengono rispediti in Italia, dove ad ad attenderli non c’è nessuno. «Vogliamo solo una casa. Pagando come tutti, ma senza una casa nessuno ci dà lavoro. Non vogliamo creare problemi, vogliamo solo che le persone e i media sappiano cosa stanno passando più di 300 persone, tutti titolari dello status di rifugiato». Tra gli stranieri, in teoria, la categoria maggiormente protetta. «La cosa peggiore è vedere un’amministrazione trattare come emergenziale una situazione che dura da anni, senza fare mai un passo avanti», ci dicono i ragazzi del Cantiere [www.cantiere.org], il centro sociale che da venerdì sta seguendo i rifugiati. «Siamo arrivati subito, per portare acqua, cibo e coperte. Abbiamo messo a loro disposizione dei computer con cui hanno creato un sito [rifugiatimilano.blogspot.com], ma è il comune che deve assumersi le proprie responsabilità e dare risposte adeguate, nel pieno rispetto dei diritti di queste persone». Che stanotte dormiranno di nuovo per strada, attendendo pazientemente una risposta che, «non sappiamo se arriverà mai. La maggior parte di noi sono ragazzi giovani, con storie durissime alla spalle, in cerca di un lavoro e di una vita dignitosa. Quello che più temo è che la disperazione si impossessi di noi; ecco perchè abbiamo deciso di farci sentire, vogliamo spezzare una catena che ci tiene prigionieri, sotto le intemperie». Domani, alle manifestazione per il 25 aprile, ci saranno anche loro, «perchè è una giornata importante anche per l’Eritrea: il fascismo non si è fermato in Italia».
Passpartù 27: L’Italia viola la direttiva europea sui rifugiati
A cura di Marzia Coronati • 24 Aprile 2009
Il 17 Aprile circa trecento persone hanno occupato l’ex residence Leonardo Da Vinci, uno stabile alla periferia di Milano abbandonato da anni. Dopo cinque giorni di occupazione, lo sgombero delle forze dell’ordine. Gli occupanti erano tutti rifugiati o in protezione sussidiaria, aventi diritto all’accoglienza nel nostro Paese. L’Italia riceve fondi dall’Europa per occuparsi di loro, ma dove vengono spesi questi soldi?
La foto è tratta dal sito di Melting Pot, clicca qui per vedere le altre immagini
Nicola Grigion, giornalista di Melting Pot, ha seguito da vicino la vicenda dell’occupazione di Bruzzano, il quartiere a nord di Milano dove si trova l’ex residence Leonardo Da Vinci. ci ha raccontato che già lunedì 20, tre giorni dopo l’occupazione, il Comune di Milano aveva ordinato un censimento, attuato dalla polizia all’interno dello stabile. Il giorno successivo, l’assessore ai servizi sociali De Corato ha sostenuto che solo pochissimi di loro avevano lo status di rifugiato, anche se le foto e i video che ci sono in rete mostrano gli occupanti mentre sventolano i loro documenti che certificano il loro status; martedì 21, il Comune ha ordinato lo sgombero. Usciti dal residence, i migranti hanno occupato i binari della ferrovia Nord di Milano, qui sono stati caricati dalle forze dell’ordine, poi il corteo si è spostato verso il centro della città, e anche lungo questo cammino ha subito un’altra carica, terminata con diversi feriti tra i rifugiati.
Dopo le manifestazioni c’è stata un’assemblea davanti all’ex Paolo Pini, in cui si è paventata l’ipotesi di muoversi verso la Svizzera. I migranti di Bruzzano non sono gli unici a voler varcare il confine, ogni giorno centinaia di richiedenti asilo tentano di raggiungere altre nazioni europee, ma secondo gli accordi di Dublino possono ottenere lo status di rifugiati solamente nel primo Paese europeo dove mettono piede. Molti di loro, che hanno tentato di varcare la frontiera, sono stati espulsi e riconsegnati allo stato italiano, come ci ha raccontato l’europarlamentare Vittorio Agnoletto, che qualche mese fa si era occupato di un caso analogo, quello degli abitanti dell’ex-clinica di Torino S.Carlo. Agnoletto a novembre aveva presentato una interrogazione alla Commissione Europea in merito alla situazione
torinese. “La commissione chiederà dei chiarimenti alle autorità italiane”, era stata la risposta. Oggi, di fronte a questa nuova emergenza, l’europarlamentare presenta una nuova interrogazione alla Commissione. “La situazione di Milano infatti” spiega “è sovrapponibile a quella di Torino. L’Italia continua a violare la direttiva europea sullo status di rifugiato. Se l’Italia non farà qualcosa, l’ Europa avvierà le procedure di infrazione”.
La proposta dell’assessore ai servizi sociali De Corato, che in sostanza proponeva ai rifugiati un posto letto nei centri accoglienza-dormitorio di Milano non è stata accolta dai migranti. Giovedì 24 aprile gran parte di loro è stata portata in questura, a Quarto Oggiaro, lì sono stati identificati, si è deciso per una tregua di 15 giorni, in attesa di una nuova contrattazione. Per il momento sono stati distribuiti in alcuni centri di accoglienza, tra cui quello di via Saponaro e quello di via Isonzo, ma loro non sono in cerca di un dormitorio, ma chiedono di essere inseriti in un percorso che possa permettergli di imparare la lingua e lavorare, come ci ha spiegato Italo Siena referente del centro per richiedenti asilo e rifugiati Naga Har di Milano.
Una richiesta lecita, dal momento che l’Europa ha istituito dei fondi proprio a questo scopo. Per il periodo 2008/2013 infatti il Fer, Fondo Europeo per i Rifugiati, ha messo a disposizione 34 milioni di euro, dei quali venti milioni come contributo comunitario, affinchè l’Italia realizzasse azioni complementari, integrative e rafforzative dell’accoglienza. Sono dati a cui si può accedere facilmente, consultando il sito del nostro Ministro degli Interni. Ma cosa si sta facendo con questo denaro? Le grandi città, dice Siena, fanno una politica “da struzzo” e continuano a offrire un servizio di accoglienza essenzialmente assistenzialista, ancora troppo cieco per capire che inserire le persone in un percorso professionale potrebbe comportare risorse per loro ma anche per il nostro paese. I protagonisti delle proteste di Milano sono sudanesi, etiopi, eritrei, somali. Persone in fuga da paesi in guerra, reduci da un viaggio di mesi tra il deserto, la Libia e le sue carceri, il mar Mediterraneo, Lampedusa. Per ognuno di loro che arriva, l’Italia riceve dall’Unione Europea del denaro per occuparsi della loro accoglienza. Allora perchè oggi molti non sanno neanche dove andare a dormire?
Esistono però anche nelle grandi città esperienze da cui prendere esempio, come il Naga Har di Milano, un centro diurno in cui i richiedenti asilo possono compilare i loro curricula, che verranno poi selezionati e distribuiti. Negli otto anni di vita del centro, centinaia di persone hanno trovato lavoro. Il centro si finanzia attraverso fondi delle Nazioni Unite, fondi europei che poi vengono integrati con progetti sul territorio.
Il brano proposto da Ritmi è “Duniya” di Tata Dindin
Ospiti della puntata: Nicola Grigion, Vittorio Agnoletto, Mussie Zerai, Italo Siena
In redazione: Elise Melot, Khaldoun
Passpartù è un programma a cura di Marzia Coronati
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Tags:accoglienza, bruzzano, direttiva europea status rifugiato, Milano, rifugiati
Un’altra notte ai giardini pubblici E ora i rifugiati rischiano la denuncia
I profughi sono stati schedati. Trovata una soluzione solo per i prossimi 15 giorni
MILANO 24/04/2009 - Giornali stesi per terra a fare da lenzuola, pagnotte bianche ormai dure come sassi per colazione, alberi usati come attaccapanni.
La “guerra” continua per i rifugiati politici africani arrivati a Milano in cerca di asilo. E i giardini di via Palestro, in Porta Venezia, sono diventati il surrogato delle loro case.
C’è voluta molta pazienza e un po’ di forza, ieri, per convincere un centinaio di loro a farsi trasportare nella caserma Masarin, nel nord della città per essere identificati. In molti, infatti, dopo lo sgombero dell’ex residence di Bruzzano dove avevano trovato riparo, avevano trascorso la notte all’addiaccio.
Un funzionario dell’ufficio dell’Onu per i rifugiati, Riccardo Clerici, ha convinto il gruppo - nel frattempo cresciuto fino a un centinaio persone - a salire sui pullman e furgoni della polizia. Gli immigrati, tra cui diverse donne e un neonato in una carrozzina, hanno quindi lasciato il parco milanese.
In tutt, in caserma, sono state censite 90 persone.
«Come animali»
«Ci vogliono schedare come animali. Ci vogliono prendere le impronte. Ma noi i documenti li abbiamo», hanno protestato ieri i profughi.
Il timore, che potrebbe concretizzarsi a breve, infatti, è che alcuni di loro che hanno partecipato ai disordini di martedì scorso a Bruzzano (gli immigrati hanno bloccato i binari) possano essere denunciati per interruzione di pubblico servizio e per resistenza a pubblico ufficiale. La Digos della Questura di Milano sta infatti indagando per individuare tra i rifugiati e richiedenti asilo africani, chi ha concretamente partecipato agli scontri.
La soluzione
La soluzione per i rifugiati politici, però, potrebbe ancora essere lontana. Ieri in serata il Comune avrebbe proposto di accogliere i rifugiati per uno o due mesi in un dormitorio pubblico, che potrebbe essere quello di viale Isonzo. Ma non per più di 15 giorni.
Ma è difficile che loro, che già hanno rifiutato nei giorni scorsi l’ingresso negli altri centri di assistenza, accettino la proposta. «Vanno salvaguardati i loro diritti - è intervenuta la Caritas - sono persone scappate dai paesi d'origine, per lo più dall'Eritrea, per salvare sé stessi e le proprie famiglie dalla guerra, dalla violenza e dalle torture». Scritto da: Arianna Giunti - arianna.giunti@cronacaqui.it
L'oddisseia dei Rifugiati del Corno d'Africa a Milano
Queste immagini dei rifugiati con il permesso di soggiorno in mano, dimostrano il fallimento del sistema di accoglienza Italiano che specula sulla pelle dei poveri.
Bisogna superare il sistema di centri di accoglienza, servono case vere dove un rifugiato puo progettare il proprio futuro in questo paese. O pure gli Italia decida di uscire dall'accordo Dublino II, non prende le impronte digitali dei richiedenti asilo politico gli lasci andare in altri paesi Europei che su questi temi sono molto più Civili ed Onesti di lei.
giovedì 23 aprile 2009
La Vergognosa guerra di cifra tra Malta e Italia. Appello alla Ue: non lasciateci soli
BRUXELLES (21 aprile) - Superata l'emergenza della nave Pinar, tra Italia e Malta prosegue la guerra delle cifre. E mentre il commissario Ue per la giustizia, libertà e sicurezza, Jacques Barrot, organizza un incontro con il ministro dell'Interno Roberto Maroni e il collega maltese Carmelo Mifsud Bonnici, dall'Italia parte un nuovo appello rivolto all'Ue: non lasciateci soli nel fronteggiare un fenomeno che riguarda tutti. Come preannunciato dallo stesso Maroni, oggi è arrivato sul tavolo di Barrot il dossier in cui l'Italia chiede all'Ue tre interventi. Innanzitutto, definire anche a livello europeo regole per stabilire chi è responsabile di interventi di salvataggio in acque Sar (Search and rescue) extraterritoriali, una materia già regolata dal diritto internazionale.
Ma anche reimpostare le operazioni Frontex per il pattugliamento dei confini esterni dell'Ue e avere dagli altri partner europei maggiore solidarietà, sia essa in termini economici o di “gestione” dei profughi. E modificare il sistema di ripartizione per Paesi del Fondo Ue per le frontiere esterne. Oggi basato sulla dimensione delle acque Sar, esso dovrebbe invece essere rapportato, secondo Roma, agli interventi di salvataggio realmente effettuati.
Cifre alla mano, Roma accusa Malta di latitanza. Dal 2007 ad oggi, si dice nel dossier Maroni, la Marina Militare ha compiuto ben 670 operazioni in acque Sar maltesi sostenendo costi rilevanti. E la vicenda della Pinar è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso mettendo in evidenza non solo le mancanze maltesi, ma anche la debolezza del sistema europeo destinato a fronteggiare i flussi dei clandestini.
Questo, si ricorda ancora nel dossier, nonostante il Patto sull'immigrazione adottato dal vertice Ue lo scorso ottobre in cui si afferma che la gestione dei flussi migratori è una delle priorità delle politica europea in questo settore. «Nessuno può accusare Malta di irresponsabilità», ha detto dal canto suo Bonnici. Ricordando che la marina maltese ha effettuato 380 soccorsi e che nel 2008 sono sbarcati sull'isola 3.800 immigrati, a cui se ne sono aggiunti altri 1000 nei primi mesi dell'anno. Maroni e Bonnici, ha annunciato oggi il vicepresidente dell'esecutivo comunitario, Antonio Tajani, avranno un confronto diretto nel corso di una cena organizzata a Bruxelles, per giovedì prossimo, da Barrot.
E lo stesso Barrot ha riferito oggi al collegio dei commissari Ue su quanto accaduto nelle acque del Canale di Sicilia e sull'emergenza sbarchi. Nelle prossime settimane la Commissione Ue approfondirà la questione per tentare di dare risposte immediate all'emergenza che si profila per l'estate. Ma anche per trovare soluzioni strutturali a un problema che ha profonde connotazioni politiche e forti implicazioni socio-economiche.
MILANO. Caritas chiede un tavolo per affrontare l'emergenza rifugiati
Di fronte a questa emergenza Caritas Ambrosiana esprime la sua preoccupazione e offre la propria disponibilità a collaborare con le istituzioni
Centocinquanta richiedenti asilo e rifugiati politici hanno dormito la notte scorsa nei giardini di via Palestro dopo aver manifestato per le vie del centro. Lo stesso gruppo aveva occupato nei giorni scorsi un albergo abbandonato a Bruzzano e, dopo l’intervento delle forze dell’ordine, aveva trovato un’accoglienza provvisoria nell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini.
Di fronte a questa emergenza Caritas Ambrosiana esprime la sua preoccupazione e offre la propria disponibilità a collaborare con le istituzioni affinché venga trovata una soluzione che salvaguardi i diritti legittimi delle persone.
In particolare vanno salvaguardati i diritti dei rifugiati politici e richiedenti asilo secondo quanto stabilito dalle convenzioni internazionali. Costoro sono persone scappate dai paesi d’origine – per lo più dall’Eritrea – per salvare sé stessi e le proprie famiglie dalla guerra, dalla violenza e dalle torture.
Nel caso specifico Caritas Ambrosiana propone di aprire un tavolo istituzionale con Comune, Prefettura, enti del non profit per definire la cornice dell’intervento allo scopo di risolvere la situazione contingente e individuare i possibili sbocchi a medio-lungo termine soprattutto sul fronte abitativo. In particolare riteniamo che debba essere tenuta in considerazione prioritariamente la situazione delle famiglie.
Ogni intervento di forza, così come ogni tentativo di strumentalizzare la protesta per altri scopi, non aiuta ad affrontare il problema. Occorre che ciascuno faccia la propria parte. Dal canto proprio Caritas Ambrosiana mette a disposizione la rete dei centri di accoglienza presenti sul territorio della Diocesi di Milano. E, come suo stile, è sempre disponibile al dialogo.
La cooperativa Farsi Prossimo, legata a Caritas Ambrosiana, gestisce per conto del Comune di Milano cinque centri di accoglienza per rifugiati che offrono una disponibilità complessiva di 300 posti. In particolare il centro di via Sammartini ospita solo donne singole o con bambini. Gli altri (via Novara, via Gorlini, via Fulvio Testi, via Giorgi) ospitano uomini. Attualmente i posti sono quasi tutti occupati. In virtù della convenzione con il Comune, gli operatori dei centri si occupano per il periodo previsto dalla legge (10 mesi) di accompagnare i richiedenti asilo nello svolgimento delle pratiche necessarie perché le loro domande siano presentate ed esaminate, di favorire l’apprendimento dell’italiano, di assisterli nella ricerca del lavoro.
Con spirito di trasparenza si precisa che per lo svolgimento di questi compiti le risorse messe a disposizione alla Cooperativa da parte dell’Amministrazione comunale, che riceve a sua volta i finanziamenti dal Ministero degli Interni, ammontano a circa 15 euro a persona per ogni giorno di permanenza.
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RIFUGIATI: GUTERRES (ONU) INCONTRA AFGHANI IN CENTRO ASTALLI A ROMA
Roma, 23 apr. (Adnkronos) - L'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, il portoghese Antonio Guterres, ha visitato la mensa del Centro Astalli per un colloquio con il presidente, padre Giovanni La Manna e con dieci giovani afghani rifugiati e richiedenti asilo che usufruiscono regolarmente dei servizi di prima accoglienza del Centro Astalli: mensa, scuola d'italiano, dormitorio notturno, centro d'ascolto socio-legale. Il colloquio, durato circa trenta minuti, si e' svolto durante la distribuzione dei 400 pasti a richiedenti asilo e rifugiati che quotidianamente si mettono in fila per mangiare.
"Le storie dei giovani afgani sono state di grande interesse per l'Alto Commissario -informa un comunicato del Centro Astalli- I rifugiati si sono lungamente soffermati sui viaggi che devono affrontare per arrivare in Italia, le condizioni dell'accoglienza in Grecia, le difficolta' di iniziare un percorso di integrazione nel nostro Paese nonostante la concessione di un permesso di soggiorno da parte del governo italiano. Guterres ha rivolto loro molte domande in particolare sul costo dei viaggi per arrivare in Europa, sulle condizioni di accoglienza in Grecia, sulle difficolta' e i ritardi nell'ottenere i documenti in Italia".
INTERVISTA | di Mariangela Maturi - MILANO Parla uno dei rifugiati di Bruzzano
Paulus, dall'Eritrea in bus alla ricerca di pace e diritti
Paulus è un rifugiato politico, viene dall'Eritrea e ha trentacinque anni. Ha i capelli molto crespi e un paio di baffetti brizzolati. Parla l'italiano ma preferisce l'inglese, che sa benissimo. Quando è arrivato in Italia ha trovato lavoro nei cantieri delle ferrovie. Un giorno si è sentito dire che per lui non c'era più posto. Arrivederci e grazie. Da allora è disoccupato. La sua voce, inflessibile nel parlare di diritti, sembra piegarsi allo sconforto se gli si chiede del futuro.
Racconta, Paulus.
La mia storia è la nostra storia, la stessa di chi è qui con me. Arriviamo da vari paesi dell'Africa, da cui siamo scappati, e siamo in Italia come rifugiati politici. Io sono eritreo, e sono arrivato in Italia 4 anni fa. Per venirci ho affrontato un viaggio lunghissimo, ho preso non so quanti autobus... Ma era necessario, per proteggere la mia vita. Quindi sono partito.
E quando sei arrivato qui, cos'hai trovato?
Mi hanno dato un foglio, quello che danno a tutti, che attestava lo status di rifugiato politico. Poi, nient'altro. Vorrei sapere dove sono i fondi dell'Unione Europea per i rifugiati. Dove sono i soldi che ci spettano? Tutti noi vogliamo saperlo. Al massimo ci danno qualche mese per imparare l'italiano e trovare un lavoro, ma il resto? Lo Stato non ci aiuta, non abbiamo una casa, un lavoro, dei diritti. Non ci rispettano. Noi chiediamo solo questo, un po' di rispetto. Conosco molti ragazzi che sono qui oggi, siamo tutti rifugiati, e non abbiamo mai fatto nulla di male.
Ma il Comune di Milano sostiene che vi sono state proposte delle soluzioni, e che siete stati voi a rifiutarle.
In via Lecco, qualche anno fa, è successa la stessa cosa. Abbiamo fatto come in questi giorni, e quando la protesta si è esaurita, non è cambiato niente. Io lì non c'ero, ma so benissimo cos'è successo. Tutte le volte è la stessa storia, e anche ora siamo soli. E non fanno niente, niente. Noi proveremo ancora e ancora, chiediamo ascolto e diritti. E democrazia. Invece ci troviamo in un gioco insano, è quasi una pazzia. Siamo considerati rifugiati politici solo sulla carta, ma i nostri diritti sono ignorati.
Pensi che riuscirete a farvi ascoltare, questa volta?
Stavolta andiamo avanti, questa è la nostra decisione. Non ci facciamo strumentalizzare da nessuno. A noi non interessano le logiche di partito, capisci? Fascisti, capitalisti, comunisti, che ne so... A noi non interessano. Non vogliamo entrare nel giochetto della politica, non ci riguarda. Chiediamo solo dove sono finiti i nostri soldi e i nostri diritti.
Perché allora è andata così?
Non lo so, è stata una giornata tremenda. Incredibile, sembrava tutto capovolto. Invece che come persone oneste, la polizia ci ha trattato come cani. Come cani, capisci? Hanno deciso, pianificato di reagire così. Noi non cercavamo lo scontro.
E quell'idea di andare in Svizzera a piedi?
Ma io non voglio andare in Svizzera! Stiamo solo dicendo che potremmo andarci, che se l'Italia con noi si comporta così, meglio la Svizzera, o la Francia. Se non ci danno un posto in Italia, cancellino almeno le nostre impronte digitali, così possiamo chiedere asilo in un altro paese. Lasciateci liberi. Così siamo dei prigionieri, non dei rifugiati.
Ora che farete?
Continueremo a combattere, cos'altro? Con le manifestazioni, gli scioperi, con tutto ciò che è in nostro potere.
Si, ma a parte lottare? Dove dormi stasera?
Continueremo a cercare un posto. Uff...non lo so. Non lo so, davvero.
La piccola Asmara di Milano si divide tra solidarietà e paura
La comunità eritrea, tra le più numerose in città, di fronte al caso profughi.
Lucia, cameriera "Anch´io sono scappata cinque anni fa, capisco il loro dramma"
La Piccola Asmara di Porta Venezia ha i ritmi lenti delle regioni equatoriali, l´odore piccante dello "zighinì", lo spezzatino del Corno d´Africa, i colori scuri di chi viene dal caldo. Ma in questi giorni, nei ristoranti e nei negozi eritrei tra via Lecco e via Lazzaro Palazzi, il clima è pesante, come nelle zone di guerra. A ogni angolo, capannelli di gente che parla fitto in dialetto e guarda le foto sui giornali.
Lacrime e indignazione, ma nessuno parla con nome e cognome, nessuno si espone, fra chi è qui da anni, ormai integrato. Nessuno porta aiuto concreto a quel centinaio di profughi che sfila per il centro, dopo un´altra giornata di tensione. Quella eritrea, con oltre 6mila presenze, tra regolari e non, è una delle comunità straniere più antiche e radicate a Milano. I primi "nezelà", gli scialli di garza bianca tipici delle loro donne, sono arrivati negli anni Trenta, dal paese che era stato colonia italiana dalla fine dell´800. La comunità è diventata numerosissima negli anni ‘70, durante la lotta di indipendenza dall´Etiopia, quando i soldi della diaspora finanziavano la guerriglia del Fronte di liberazione. Ma molti di quelli che allora erano rifugiati politici, oggi appoggiano il governo del temutissimo dittatore Issayas Afwerki. Quindi è muta la chiesa copta ortodossa di via Ippocrate, muto il consolato, muta la comunità di via Temperanza. Assente per motivi di lavoro anche Ainom Maricos, per 22 anni presidente della comunità, prima e unica immigrata eletta in consiglio comunale, con l´ex Pci.
«Hanno tutti paura di mettersi nei guai col regime», spiega Marco Betti, attivista del Mossob, comitato italiano per un´Eritrea democratica: «Laggiù la situazione è drammatica: accanto alla repressione e alla disoccupazione, c´è uno stato di semiguerra causa della fuga di centinaia di migliaia di giovani, molti dei quali preferiscono rischiare di morire nel deserto, piuttosto che essere obbligati a prestare il servizio militare inutile e logorante imposto da un regime antidemocratico e violento».
Per quel gruppo di sbandati, si muove solo Lucia, cameriera del ristorante Nashih di via Palazzi, che offre da mangiare gratis a chi arriva da Bruzzano: «Anche io sono scappata, cinque anni fa. Sono rifugiata politica. Capisco il loro dramma. Qui in Italia nessuno ti aiuta. E non puoi nemmeno scappare in Europa, perché ormai, con le impronte digitali, ti beccano alla prima frontiera». Soli e abbandonati dai connazionali, i rifugiati si appoggiano ai centri sociali. «Una strategia sbagliata, quella di occupare i binari e a scontrarsi con la polizia. Le rivendicazioni vanno portate avanti in modo civile, senza creare caos, trattando con l´amministrazione, se si vogliono risultati concreti», punta il dito l´imprenditore eritreo Michael Kidane, da 40 anni in Italia, noto oppositore del regime. «Alcuni di quei ragazzi, li conosciamo dai tempi del Forlanini. Conosciamo i loro problemi. E migliaia di altri arriveranno presto, perché nel mio paese, anche se il governo cerca di nasconderlo, si muore di fame e si prepara una nuova guerra, che nessuno vuole combattere».
EDUCAZIONE INTEGRALE DI FRONTE RAZZISMO E INTOLLERANZA
CITTA' DEL VATICANO, 23 APR. 2009 (VIS). L'Arcivescovo Silvano Tomasi, C.S., Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'Ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni Specializzate a Ginevra, è intervenuto, ieri, alla Conferenza di riesamina della Dichiarazione di Durban 2001, "Durban Review Conference".
"Gli stranieri" - ha affermato l'Arcivescovo Tomasi - "e coloro che sono diversi sono spesso rifiutati al punto da commettere atti barbari contro di essi, incluso genocidio e pulizia etnica. Antiche forme di sfruttamento cedono il passo a nuove; donne e bambini sono vittime del traffico di esseri umani in una forma contemporanea di schiavitù, si abusa degli immigrati irregolari, persone percepite diverse e che di fatto sono diverse diventano, in numero spropositato, vittime dell'emarginazione sociale e politica".
"La Santa Sede" - ha proseguito l'Arcivescovo Tomasi - "è preoccupata dalla tentazione ancora latente dell'eugenetica" che potrebbe portare "all'eliminazione di esseri umani che non corrispondono alle caratteristiche predeterminate di una data società".
L'Osservatore Permanente ha sottolineato che "occorre rivedere alcuni sistemi educativi così che ogni aspetto di discriminazione sia eliminato dall'insegnamento, dai libri di testo, dai curriculum e dagli strumenti visivi. (...) I mezzi di comunicazione, perciò, devono essere accessibili e non soggetti a controlli di tipo razzista ed ideologico, perché ciò conduce alla discriminazione ed anche alla violenza contro le persone di diversa cultura ed etnia".
L'Arcivescovo Tomasi ha quindi fatto riferimento alla necessità della "piena realizzazione della libertà religiosa per gli individui e il loro collettivo esercizio di questo diritto umano fondamentale".
Di fronte alle sfide attuali, sono necessari, ha concluso l'Osservatore Permanente, "strategie più efficaci nella lotta contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la derivante intolleranza. (...) Il primo passo verso una soluzione di carattere pratico, è una educazione integrale che includa valori etici e spirituali che favoriscano il rafforzamento di gruppi vulnerabili come i rifugiati, i migranti e le persone in movimento, le minoranze razziali e culturali, le persone prigioniere di povertà estrema, malati e disabili, ragazze e donne ancora considerate inferiori in alcune società dove un'irrazionale paura delle diversità impedisce una piena partecipazione alla vita sociale".
DELSS/CONFERENZA DURBAN/GINEVRA:TOMASI VIS 090423 (350)
Ue, sondaggio: rom e africani subiscono molte discriminazioni
VIENNA (Reuters) - Nell'Unione Europea rom e africani devono far fronte a forti discriminazioni che solo in pochi casi vengono denunciate alle autorità, secondo quanto rivelato oggi da un sondaggio dell'Ue in cui i casi più frequenti sono stati segnalati da nordafricani in Italia e Francia.
Il rapporto dice che il 55% di residenti e migranti nell'Ue ritengono che i pregiudizi che prendono di mira l'etnia siano molto diffusi, anche se del 12% che ha riferito di aver assistito a episodi di razzismo negli ultimi 12 mesi, l'80% non li ha denunciati alla polizia.
I rom si lamentano spesso di episodi di discriminazione, con una persona su due nel gruppo che dice di esserne stata vittima negli ultimi 12 mesi, seguiti dagli africani dell'area subsahariana, al 41%, e dai nordafricani al 36%, secondo il rapporto.
Nei casi presi in esame paese per paese, i casi più frequenti di discriminazione sono stati segnalati da nordafricani in Italia e Francia -- rispettivamente il 94% e l'88% dei rispondenti; da parte dei rom in Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Grecia, tra il 78% e il 90% -- e da romeni e albanesi in Italia, 76-77%.
Le minoranze devono far fronte a ostacoli di stampo razzista quando cercano un lavoro o una casa da affittare o comprare, quando cercano di aprire un conto corrente o di accendere un mutuo, quando hanno a che fare con la sanità, i servizi sociali o i funzionari scolastici, o quando entrano nei bar, nei ristoranti e nei negozi.
"Il sondaggio evidenzia che gli episodi di discriminazione, molestie e violenza a sfondo razziale sono molto più diffusi di quanto non venga registrato dalle statistiche ufficiali. In moltissimi casi infatti non vengono segnalati", ha spiegato l'Agenzia europea per i diritti fondamentali nella prima inchiesta del genere sulle esperienze di razzismo da parte delle minoranze.
"Migliaia di casi di razzismo e di discriminazione restano invisibili", ha spiegato Morten Kjaerum direttore dell'Agenzia.
Circa l'82% delle 23.500 persone intervistate non ha parlato della propria esperienza più recente di discriminazione. Alla domanda "Perché"?, il 64% ha risposto che lo ha fatto perché crede che non cambierà nulla. Circa l'80% non conosce alcuna organizzazione in grado di offrire aiuto o consigli.
Il rapporto sollecita i governi a promuovere la registrazione pubblica di episodi di discriminazione e di razzismo, ad applicare le leggi anti-discriminazione a pieno e a informare meglio le minoranze sui loro diritti.
mercoledì 22 aprile 2009
Eritrea/ Israele: Asmara favorisce traffico armi iraniane a Gaza
Presidente Afewerki ha ripreso lo scorso anno i rapporti con Iran
Roma, 19 apr. (Apcom) - L'Eritrea è diventato il nuovo terreno di scontro tra le intelligence di Israele e Iran. Lo hanno riferito fonti israeliane al quotidiano britannico The Sunday Times, precisando che lo Stato ebraico teme che il Paese africano possa alimentare il traffico di armi diretto ai miliziani palestinesi di Hamas, consentendo alle navi iraniane di approdare al porto di Assab. Israele ha almeno due basi in Eritrea: la prima viene utilizzata come "centro di ascolto" per l'intelligence, la seconda come base di rifornimento per i suoi sottomarini di fabbricazione tedesca. Gli aerei israeliani che lo scorso febbraio hanno attaccato in Sudan un convoglio di armi diretto nella Striscia di Gaza sarebbero partiti proprio dall'Eritrea. I legami tra Israele e Eritrea risalgono al 1993, quando il Presidente di Asmara, Isaias Afewerki, ricevette cure mediche nello Stato ebraico. Due anni più tardi, i due Paesi sottoscrissero un accordo di cooperazione militare. Stando a quanto riferito nei giorni scorsi dal quotidiano israeliano Haaretz, la presenza in territorio eritreo ha consentito a Israele di monitorare le navi in entrata e in uscita nel Mar Rosso, di gestire stazioni radio e anche di lanciare droni nella regione. Tuttavia, lo scorso anno, il Presidente eritreo si è recato in visita ufficiale a Teheran, da dove ha poi annunciato la ripresa di più stretti rapporti commerciali ed economici con l'Iran. Teheran ha potuto così installare una propria base navale sullo stretto di Bab el Mandeb, dove transitano ogni giorno 3,3 milioni di barili di greggio. "Afwerki è passato dall'altra parte - ha commentato un imprenditore israeliano ed ex amico del Presidente eritreo, Albert Katznelbogen - non si muove nulla in Eritrea senza il suo consenso; lui ha bisogno di soldi, per questo sono arrivati gli iraniani".
Intervento della Polizia e Carabbinieri: Che si commenta da Se!
Una Violenza inaudita! Ecco come accoglie lo stato Italiano i Rifugiati politici. Il Mondo lo deve sapere questa VERGOGNA!
Invito tutti a leggere certi commenti lasciti su questo sito chiamato "poliziotti"
http://www.poliziotti.it/public/polsmf/index.php?topic=8654.0;prev_next=prev#new
Una Indecenza di uno stato che costringe le persone che sono arrivate nel suo territoria a cercare protezione e pace, invece trovano mangaelli e manette. Una vergogna che rifugiati in un paese Europeo siano costretti a vivere mendicando un piato di pasta. La regressione di una civiltà si misura anche in questo.
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