mercoledì 17 giugno 2009

ISRAELE: EBREI DALL'ETIOPIA, LA DIFFICILE INTEGRAZIONE

(di Luciana Borsatti) (ANSAmed) - TEL AVIV/ROMA - Per lo Stato di Israele - nato dall'utopia egualitaria dei pionieri del secolo scorso - e' forse l'integrazione piu' difficile. Perche' il gap culturale tra chi ha vissuto fino a pochi anni fa in un remoto villaggio africano e la modernita' che si respira a Tel Aviv non e' di quelle che si superano facilmente, nemmeno in una generazione. Lo sanno bene i Falascia' o Falasha, popolazione di pelle nera dell'Etiopia settentrionale, di lingua semitica e religione ebraica, che tra gli anni '80 e '90 - ma gli arrivi continuano ancor oggi, anche se con numeri inferiori a quelli del passato - sono emigrati in massa nella Terra Promessa grazie ad epiche operazioni israeliane, come la storica ''Salomone'' del 1991. E lo sa anche l'Agenzia Ebraica - l'organismo nato durante il Mandato britannico per agevolare l'immigrazione degli ebrei in Palestina - che ha trovato nel recente ingresso di un milione di ebrei russi ma anche dei Falascia' la fonte di delusioni e di costi molto salati per lo Stato. Gli ebrei etiopi infatti, agricoltori che non sapevano leggere e scrivere la lingua ebraica, sono divenuti rapidamente dei diversi, se non degli emarginati, comunque condannati ai lavori meno qualificati. Mentre la loro comunita' ha raggiunto le 105 mila persone, la maggior parte delle quali sotto i 20 anni. Un rapporto di fine 2008 dell'Acri, associazione israeliana per i diritti civili, individuava proprio negli immigrati russi ed etiopi i gruppi piu' socialmente svantaggiati. Ma quella dell'integrazione nella societa' israeliana e' una scommessa che l'Agenzia Ebraica - che dal 1948 ha gestito l'ingresso di quasi tre milioni di nuovi immigrati - ancora non vuol dare per persa. E presenta con orgoglio ai visitatori centri di accoglienza come quello di Mevasseret Zion, il piu' grande Absortion Center del Paese. Una citta' nella citta', con casette basse dove vivono 1.200 etiopici che gli operatori dell'Agenzia assistono costantemente nel loro sforzo di superare senza traumi la distanza culturale con la societa' della nuova patria. Non si tratta infatti solo di dare loro un tetto temporaneo, spiegano al centro, ma molto di piu': il metodo e' quello di un ''approccio olistico'' all'integrazione. E se stupiscono le capanne africane costruite in alcuni cortili per rendere meno traumatico l'adattamento ad altri stili di vita, l'immagine che piu' colpisce e' quella dei bambini che giocano nella sala computer, alle prese con software d'avanguardia che, divertendoli, li introducono all'alfabeto e alla modernita'. Come la strada dell'emancipazione sociale passi del resto per l'istruzione lo sanno bene all'Ono Academic College di Kyriat Ono, nei pressi di Tel Aviv. Un istituto universitario che punta - spiega il vicepresidente Doron Haran - non solo all'eccellenza accademica, ma anche ad accompagnare fino alla fine degli studi, sostenendoli nei loro specifici punti deboli, anche i soggetti piu' svantaggiati: dagli ebrei ultraordodossi (il 50% dei quali vive, proprio per le conseguenze della propria specificita' religiosa, al di sotto della linea di poverta') agli etiopi. Nato come progetto pilota nel 2002, ora il programma conta circa 180 studenti, 26 dei quali gia' impegnati in corsi post-graduate. Il corso di studi offerto, sostenuto da borse di studio, permette loro non solo di raggiungere l'obiettivo del titolo finale, ma anche - con l'aiuto dello staff del College - uno sbocco professionale. La studentessa Orit-Itzhak-Yasu racconta ad un gruppo di giornalisti i drammi dell''aliah', l'approdo in Israele, della sua famiglia quando era ancora bambina: la fuga notturna dal villaggio, le settimane di marce forzate con i genitori e i fratellini fino al campo profughi e l'attesa dell'aereo della salvezza. La sua storia e' quella di mille altre israeliane di origini etiopi come lei, ora e' il suo futuro che deve cambiare. (ANSAmed).

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