martedì 23 marzo 2010
Libia, il processo di democratizzazione tarderà ancora molto a decollare
Nel 2009 la Libia ha festeggiato il 40° anniversario dell'istituzione della repubblica rivoluzionaria. Per chiudere il contenzioso pluridecennale tra i due paesi per i danni del colonialismo italiano Berlusconi e Gheddafi hanno firmato un accordo che prevede, tra le altre cose, il pattugliamento congiunto della frontiera terrestre della Libia, la costruzione di un'autostrada costiera a spese dell'Italia, 5 miliardi di euro di risarcimenti e il rafforzamento della cooperazione militare. A febbraio 2009 il Parlamento italiano ha ratificato l'accordo nonostante le proteste dell'Udc e dei Radicali. L'Udc ha invocato la tutela degli italiani espulsi dalla Libia nel 1970 e la questione della presunta mancanza di libertà religiosa in Libia. Il Pd ha invece avallato l'accordo mentre l'Italia dei Valori ha annunciato il voto contrario: "Non siamo disposti a dare soldi a Gheddafi che sfrutta i flussi migratori dall'Africa - ha dichiarato Di Pietro - E questo trattato comprende la cooperazione militare e il riarmo di un dittatore".
La Libia è infatti un punto di transito dei migranti provenienti da vari paesi dell'Africa che cercano di raggiungere l'Europa. Una ventina di carceri etniche per un totale di 60mila detenuti, 14.500 persone abbandonate in mezzo al deserto lungo la frontiera libica dal 1998 al 2003: sono solo alcuni dei dati riportati da un recente studio pubblicato da Fortress Europe, il blog che da anni segue le vicissitudini delle rotte dei migranti. Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, pubblica rapporti che rimangono segreti, tace sulle pratiche di maltrattamenti e di pestaggi portati avanti dalle autorità libiche e denunciati più volte da diverse ONG, e oggi chiede anche alla Libia di farne parte. La Libia sta assumendo il ruolo di gendarme nel Mediterraneo per trattenere od ostacolare i flussi di migranti ricevendo un placet politico, una sorta di patente di buona condotta nel campo dei diritti umani oltre ad un sostegno economico in risorse ed in assistenza e forniture di materiale per la sicurezza.
Gianfranco Fini si è espresso al fine di verificare il rispetto dei diritti umani in Libia. La Libia non ha infatti, fino ad ora, stabilito alcun meccanismo formale per la protezione di individui in fuga da persecuzioni.
Il leader libico Muammar Gheddafi nega categoricamente che i migranti in Libia, o diretti in Europa attraverso la Libia, siano in cerca di asilo. Ha definito la questione come una "menzogna diffusa".
Nessuno degli ex-detenuti intervistati per il rapporto di Human Rights Watch (HRW) ha detto di aver visto o incontrato l'UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) ed un gran numero di loro ha riportato di essere stato picchiato per qualunque richiesta fatta alle guardie libiche.
HRW denuncia severe violazioni dei diritti umani nei confronti dei profughi eritrei in Libia perché quando sono in cerca di asilo politico sono costretti a incontrare i rappresentanti eritrei. In mancanza di una legislazione i rifugiati politici sono accorpati agli altri immigrati. L'alto commissariato ONU per i rifugiati ha invitato le autorità libiche a non rimpatriare immigrati provenienti dall'Eritrea, i cui profughi, indipendentemente dai motivi di uscita, al rientro sarebbero destinati comunque a torture e detenzione.
HRW ricorda che, nelle carceri della Jamahiriya, "sono rinchiusi decine di prigionieri politici condannati dopo processi iniqui per avere espresso le loro opinioni politiche". Fathi Eljahmi, prigioniera politica libica, denuncia: "gli abusi del regime comprendono le precarie condizioni di vita nelle prigioni, gli arresti e le detenzioni arbitrarie, l'impossibilità per i prigionieri di comunicare, la detenzione prolungata senza accusa né processo. Il sistema giudiziario è in mano al regime che non ammette il diritto al processo pubblico. Le libertà di parola, di stampa, di riunione e di associazione sono ristrettissime. Le NGO sui diritti umani sono proibite. Il governo libico costantemente confisca terre spogliando i cittadini della proprietà senza alcuna o con un' irrisoria compensazione".
Sempre secondo HRW in Libia esistono centri di riabilitazione sociale per dare rifugio alle donne in cerca di protezione, centri che in realtà sono prigioni, luoghi di segregazione, nei quali si aggiungono sofferenza e violenza. Si legge nel rapporto: "Non c'è una legge sulla violenza domestica in Libia e le leggi che puniscono la violenza sessuale sono inadeguate. Il governo persegue soltanto i casi di violenza più cruenti ed i giudici hanno l'autorità per proporre l'unione fra lo stupratore e la vittima come "rimedio sociale al crimine". Le vittime di stupro esse stesse rischiano il processo per l'adulterio o la fornicazione. Famiglie di molte vittime costringono queste donne all'unione con lo stupratore per evitare lo scandalo pubblico perché quando in Libia una donna è vittima di violenza sessuale subisce l'ostracismo della famiglia e della comunità.
Tripoli concede sempre più potere ai gruppi religiosi e preoccupata per la minaccia dell'estremismo islamico ha compiaciuto i musulmani allargando l'applicazione della Sharia. La popolazione libica è di circa 6milioni di abitanti ed è composta da musulmani (96,5%) e cristiani (3%). I cristiani libici sono molto pochi e quasi tutti sono lavoratori stranieri, e i loro incontri sono attentamente e costantemente monitorati dal governo. La letteratura cristiana può entrare nel Paese solo segretamente. Un anno fa quattro cristiani vennero detenuti in un carcere e torturati per essersi convertiti dall'Islam. Ai parenti venne proibito di visitarli e vennero fatte "pressioni" fisiche e psicologiche perché rivelassero i nomi di altri convertiti (International Christian Concern)
Aisha al-Rumi ha denunciato invece la persecuzione degli appartenenti alle tribù berbere della Libia costretti all'esilio dal regime libico che non riconosce la loro identità etno-culturale.
Alle precarie condizioni dei diritti umani si accompagnano quelle economiche: la disoccupazione supera il 21% della, la popolazione vive in povertà mentre il regime spende gran parte delle entrate delle risorse energetiche in spese militari.
Il fatto è che ci sono in gioco gli interessi petroliferi delle aziende petrolifere occidentali (tra cui l'italiana Eni la cui presenza in Libia è stata prolungata fino al 2047) nonché la proiezione militare europea sull'Africa sub sahariana. Il deserto libico, infatti, è al centro del cosiddetto «corridoio dell'instabilità» che dalle coste della Somalia arriva fino a quelle della Nigeria. Secondo Mussie Zerai dell' Agenzia Habeshia: "L'accordo tra Italia e Libia sul controllo delle frontiere e gli scambi commerciali non è affatto un risarcimento per il popolo libico. E' invece il modo per legittimare un regime che dura da quarant'anni e che ora serve per fare il lavoro sporco contro i migranti. Una democrazia non dovrebbe mai cedere al ricatto di una dittatura come quella del Rais di Tripoli. Il popolo libico così non viene risarcito. E' stata fatta solo una manovra commerciale. Gheddafi aveva bisogno di uscire dall'isolamento internazionale e l'Italia gli ha dato l'occasione, accettando le sue condizioni su immigrazione, energia, grandi opere".
"L'Italia - ha concluso Zerai - ha fatto un grave errore nel dare questo cosiddetto «risarcimento» a una dittatura mai sostenuta da una consultazione popolare. E' un precedente negativo per tutto il continente. Se gli stati democratici premiano i dittatori, quando gli sono utili, perdono ognicredibilità quando chiedono ad altri dittatori di rispettare i diritti umani".
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