giovedì 18 marzo 2010

Opere di bene ambientale

Suona un po' come una versione moderna delle opere di filantropia. Chiamiamole «opere di bene a sfondo ambientale», ma con un aspetto decisamente mercato. Stiamo parlando di un grande progetto di rigenerazione di un territorio degradato sull'altopiano dell'Etiopia sud-occidentale, regione dove la causa principale del degrado, ormai dagli anni '70, è un'ondata di siccità dopo l'altra. Per sopravvivere la popolazione ha fatto ricorso al legname - un po' per farne legna da ardere, un po' materiale da costruzione da vendere. La pressione è andata crescendo, i terreni deforestati sono rimasti esposti all'erosione durante la stagione delle piogge. Finché si è fatto avanti il ramo australiano di una grande organizzazione non governativa statunitense, che ha chiesto e ottenuto 2.700 ettari per un progetto di recupero che si discosta un po' dai classici interventi di riforestazione: invece di ripiantare alberelli nuovi, di vivaio, qui si incoraggia la ricrescita di nuovi getti dai tronconi di alberi tagliati, che molto spesso sono ancora vivi - per questo si chiama «rigenerazione naturale assistita». Il 90% del «Humbo assisted natural regeneration project» si basa appunto sulla ricrescita delle piante che c'erano, con il vantaggio che sono le specie indigene, tra cui molte specie forestali locali minacciate. Tutto questo con il coinvolgimento in primo luogo della popolazione locale, che trae diversi benefici immediati dal progetto - quelli che vanno sotto la voce «income generation», un piccolo ma non trascurabile reddito che gli abitanti traggono dalla vendita di foraggio, frutti, o legname raccolto selettivamente dalle foreste che si rigenerano. Questa «opera di bene ambientale», promossa nel 2007 da una ong australiana in uno dei paesi più poveri - e dei territori più degradati - del mondo, ora è diventata anche il primo caso di progetto forestale su larga scala in Africa a entrare nei «meccanismi di sviluppo pulito», Cdm, previsti dal protocollo di Kyoto sul clima. Per riassumere: il protocollo impone ai paesi industrializzati di tagliare le loro emissioni di gas di serra come l'anidride carbonica (quasi nessuno lo ha rispettato, ma questo è un altro discorso). Per rendere la cosa più appetibile, lo stesso trattato attribuisce un valore di mercato alle emissioni (tot dollari per una tonnellata di Co2), e istituisce alcuni «meccanismi di mercato»: come lo scambio di emissioni (tra paesi industrializzati), o i «meccanismi di sviluppo pulito» nei via di sviluppo. Dunque: il segretariato dell'Onu sul clima, che ha uno speciale dipartimento per valutare i Cdm, ha valutato che il progetto Humbo in Etiopia rientra nei criteri dello «sviluppo pulito». Per la precisione, quei 2.700 ettari di vegetazione rigenerata avranno assorbito 338mila tonnellate di carbonio in dieci anni (al 2017), trasformandole in altrettanti «crediti di carbonio». Parte di questi crediti - 165mila tonnellate - saranno acquistati dal BioCarbonFund della Banca Mondiale (un fondo misto, finanziamenti pubblici e privati, con cui la Banca compra crediti di emissioni generati da progetti di riforestazione sotto i Cdm o altri progetti analoghi): questo dovrebbe portare alle comunità etiopiche circa 700mila dollari in dieci anni. Altri soldi dovrebbero entrare dalla vendita dei restanti crediti. A oggi solo 13 progetti forestali sono stati riconosciuti come «meccanismo di sviluppo pulito», e solo 5 sono nel Biocarbon Fund della Banca mondiale. Se questa promozione straordinaria farà una differenza per i contadini e allevatori etiopici, paese dove l'80% della popolazione vive (male) della terra, è presto per dire.

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