giovedì 26 novembre 2009

Riflessioni di un giovane Italiano di origine Eritreo

Caro Mussie, non ti nascondo che la prima volta che discutemmo, a casa mia, scornandoci sul Vaticano, non capii a sufficienza che quello che dicevi, l’impegno che professavi, non era la tipica e diffusa ipocrisia cattolico-borghese che porta la stragrande maggioranza a recitare l’amore domenicale per poi fregarsene durante la settimana. Ho apprezzato molto l’intervento che hai fatto al dibattito seguito alla presentazione dell’audio documentario sulle carceri libiche, mi spiace che poi sono scappato ma non mi sentivo bene, tanto che poi mi è venuta la febbre. A mio modo di vedere la destra di oggi cavalca il principio liberale per cui se a qualcuno gli è stata data la possibilità di sviluppare se stesso, ma lui non ne ha fatto un uso adeguato riducendosi in povertà (non gli andava di studiare, di lavorare, etc.), allora la colpa è sua, e gli altri (lo Stato) non sono tenuti a far nulla per alleviare la sua condizione. Un liberale di sinistra di un paese occidentale, d’altra parte, potrebbe benissimo abbracciare la politica dei diritti umani affermando che molte delle persone che bussano alle porte del proprio paese non hanno avuto la possibilità di scegliere la loro condizione, e che quindi, non essendo colpa loro, il proprio stato dovrebbe aiutarle. Pur tuttavia questo aiuto non può assumere le caratteristiche di un imperativo vincente, poiché non è stato lo stato occidentale a limitare la libertà di tali bisognosi, ma un’entità terza (i dittatori del terzo mondo): pertanto verrebbe pienamente rispettato il principio individualistico-liberale per cui gli unici doveri sono quelli di non danneggiare gli altri (in questo caso gli altri sono stati danneggiati da un terzo, quindi lo stato occidentale non deve sobbarcarsi delle conseguenze prodotte dagli altri). Infine, l’ultima e rara forma di liberalismo, che di individualistico ha il punto di partenza ma non certo quello di arrivo: rappresentata da chi parte dal valore dell’individuo (ciascuno si realizza coltivando i propri bisogni) e finisce mettendo a rischio i propri bisogni per curare la possibilità che altri individui abbiano le stesse libertà e possibilità: Hegel lo chiamerebbe un individualismo che si universalizza, che parte da sé e scopre il suo opposto, l’universale, in cui la libertà di ciascuno non finisce dove inizia quella dell’altra, bensì trova la sua più piena manifestazione nella sfera dell’altro. Le caratteristiche contraddittorie di questo liberalismo spiegano perché è difficile pensare a un individualista (che sia veramente tale) che si sacrifica per gli altri. Secondo la mia lettura l’oppressione non finirà perché gli uomini sacrificheranno i propri interessi per quelli degli altri. Un comportamento non più individualistico tra gli uomini potrà realizzarsi solo sotto la spinta di una società che non si riproduce più cibandosi di individualismo. Sono la società, il mondo sociale, le persone con cui cresco che determinano le mie caratteristiche (e quindi il mio non essere individualista); Marx la metteva così: “non è la coscienza degli uomini a determinare il loro essere sociale, ma il loro essere sociale a determinare la loro coscienza”. L’oppressione, a mio avviso, finirà semmai quando gli uomini si conquisteranno la consapevolezza che i propri interessi si salvaguardano solo curando anche quelli degli altri, nell’unità tra i poveri. Gli interessi degli altri, degli ultimi del mondo, non è vero che non sfiorano quelli degli occidentali, la miseria degli ‘altri’ non è causata da terzi, bensì dall’elite dell’occidente, dagli stessi uomini che causano il disagio della maggioranza degli occidentali. Solo quando la rabbia dell’occidente non sarà più contro l’immigrato, quando quella dei poveri non sarà più contro gli ‘infedeli’ e non esisteranno più capri espiatori, solo allora sarà possibile individuare l’unica causa comune. Questo è vero proprio per quello che dicevi te nell’intervento fatto al Cinema L’Aquila quando ci siamo incontrati durante la proiezione dell’audio documentario sulle carceri libiche, cioè che i governi occidentali hanno tutto l’interesse affinché i dittatori dei paesi poveri rimangano lì visto che gli garantiscono accordi vantaggiosi (le varie collaborazioni tra il governo Berlusconi e Afwerki). Più in generale, ciò è causato dalle regole stesse del capitalismo: se io popolazione eritrea lavoro 8 ore al giorno con dei mezzi di produzione antiquati (perché sono povero), allora produco in una giornata quello che nei paesi ricchi si produce in mezza giornata, per cui i prezzi delle mie merci verranno dimezzati (lo stesso paio di scarpe un occidentale lo produce in un’ora, io africano invece ci metto 2 ore: il prezzo che detterà legge sul mercato sarà quello più competitivo, e quindi io africano venderò sul mercato una cosa che ci ha messo due ore a farla, ma ad un prezzo corrispondente ad un’ora di lavoro). I profitti che così farò saranno minori di quelli dei paesi ricchi (loro vendono il doppio di me) e quindi gli investimenti che farò per migliorare i miei macchinari saranno inutili perché i paesi ricchi avranno ancora più soldi per migliorare i loro macchinari. Il risultato sarà che i macchinari dei più poveri saranno sempre più antiquati rispetto ai macchinari dei più ricchi. In verità, una analisi del genere non ha un’utilità diretta nel momento in cui decido di attivarmi per cambiare la situazione dei profughi, però ti consente di comprendere meglio il terreno su cui ci si muove, di capire il tipo di ostacoli che ci si trova di fronte e la loro reale entità, in modo da non fare l’errore di pretendere cose impossibili da realizzare peccando di estremismo. Come avrai capito, tutti questi studi compiuti a partire dagli anni universitari, li ho portati avanti non solo per un interesse teoretico-scientifico, ma soprattutto perché ho sempre sentito e voluto ridare dignità alla parte africana di me. L’esser i miei genitori immigrati eritrei, l’aver da loro, e dalla comunità eritrea che ho fin da piccolo frequentato, preso buona parte di quello che sono, ha costituito l’originaria spinta che mi ha portato allo studio dell’antropologia nei primi tre anni di università, così come quello della filosofia e del marxismo che ho coltivato nella parte restante. Un saluto sentito, Alessio

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