mercoledì 11 novembre 2009
Tornare a vivere dopo la tortura da Parma un progetto europeo
Un richiedente asilo su quattro è vittima di tortura e violenza sessuale. La dottoressa Adele Tonini, coordinatrice del progetto nazionale "Lontani dalla violenza", racconta le difficoltà quotidiane di chi aiuta a rinascere. Beneficiari, 211 persone che oggi vivono in Italia
di Maria Chiara Perri
Adele Tonini
“Quanti anni ha? Usa anticoncezionali? Quando è stata l’ultima mestruazione?” La dottoressa Adele Tonini in vent’anni di professione medica aveva imparato a ripeterlo quasi come una litania, prima di iniziare ogni visita ginecologica. Finché, diventata responsabile dello “Spazio salute immigrati” di Parma, ha iniziato ad avere come unica risposta il silenzio. Donne che nel rifiuto di rispondere a quelle domande di rito non celavano solo il pudore culturale, ma anche la difficoltà di parlare di profondissimi traumi psicofisici. E’ così che gli operatori sociosanitari di Parma negli ultimi dieci anni sono venuti in contatto con una realtà che mai avrebbero pensato di dover affrontare, di fronte alla quale si sono sentiti impotenti: la tortura.
Secondo i dati dello Sportello provinciale asilo, ha subito torture un rifugiato su quattro, circa 90 persone nel corso del 2008. Vittime di una violenza che non spinge a migrare, ma a fuggire. Seguendo i canali della clandestinità, senza un progetto di vita, sperando solo di dimenticare. Ma l’inserimento sociale è impossibile se chi ha subito tali traumi non ha accesso a un percorso riabilitativo che coinvolge medici, psichiatri, assistenti sociali, legali. Tutti operatori che necessitano di un’adeguata formazione per poter innanzitutto riconoscere e quindi aiutare le vittime di tortura. Oggi l’Ausl di Parma e il Ciac, in collaborazione con altre 14 realtà assistenziali di tutta Italia, lavorano insieme per definire un protocollo per l’accoglienza, la cura e il supporto di questi rifugiati: è il progetto sperimentale “ Lontani dalla violenza”, vincitore dell’ultimo bando per il Fondo europeo rifugiati. Beneficiari sono 211 richiedenti asilo in tutto il territorio nazionale, dieci a Parma. L’obiettivo del coordinamento socio-sanitario è accompagnarli verso l’autonomia personale.
“La tortura oggi non si usa per far parlare le persone, come si vede nei film. La si usa per annichilirne completamente l’identità, colpendo anche la famiglia e tutto il gruppo di appartenenza della vittima”. A parlare è la coordinatrice del progetto “Lontani dalla violenza”, la dottoressa Adele Tonini. Nel suo studio sono passate donne stuprate brutalmente e ripetutamente. Uomini che non riuscivano a camminare per essere stati sottoposti alla battitura delle piante dei piedi (falaqa). Persone che, pur non avendo problemi fisici riscontrabili con gli esami medici, continuavano a sentire nei muscoli il dolore lancinante dell’elettroshock. Rifugiati provenienti da territori infiammati da guerre etniche e tribali come Sudan, Nigeria, Etiopia, Tunisia, Costa D’Avorio. Sono persone di ogni età ed estrazione, perseguitate solo per la loro appartenenza a un gruppo sociale.
La tortura è un trauma cosiddetto “catastrofico”, sproporzionato alle difese fisiche e psichiche di un individuo. E’ paragonabile agli effetti che le grandi catastrofi naturali (terremoti, tsunami) lasciano sui sopravvissuti. Instilla nelle vittime un senso di colpa e di impotenza che continuerà ad opprimerle anche dopo la guarigione delle lesioni corporee, mettendole in una condizione di forte vulnerabilità psichica. “Loro cercano di rimuovere, di dimenticare – spiega la dottoressa Tonini – per questo è molto difficile capire chi l’ha subita. La violenza sessuale ad esempio è un tabù, ma è stata vissuta dalla stragrande maggioranza delle donne che cercano rifugio nel nostro Paese. Anche quella è una forma di tortura che mira ad annullare la dignità della persona. Noi ci occupiamo di formare operatori che sappiano riconoscere questi traumi”.
Far emergere le violenze, anche attraverso laboratori ludici-espressivi, è necessario: chi viene riconosciuto vittima di tortura dalle commissioni nazionali ha infatti diritto a percorsi assistenziali specifici. Inoltre, rielaborare l’accaduto è il primo passo per poter ricostruire un’identità in frantumi. “Il percorso di riabilitazione dipende da moltissimi fattori ed è impensabile che si risolva in pochi mesi – spiega Adele Tonini – il paziente viene seguito da un coordinamento di accompagnatori sociali, medici, psichiatri, fisioterapisti, ostetriche. Ma succede spesso che, proprio quando l’inserimento sembra andato a buon fine, gli effetti del trauma riaffiorano con prepotenza”. Affrontare la normalità della vita quotidiana dopo il conflitto e l’annullamento è forse il momento più difficile da superare: depressione, disaffezione al lavoro, manie di persecuzione subentrano e possono riportare il soggetto all’isolamento sociale. Queste dinamiche vengono studiate “sul campo”, con l’obiettivo di poter elaborare prassi comuni di riabilitazione: “Solo dieci anni fa non avrei mai pensato che mi sarei occupata di queste cose – dice la dottoressa Tonini – mi sembravano problemi lontanissimi e non avevo strumenti per affrontarli. Adesso si sta creando una rete internazionale per il sostegno alle vittime di tortura, noi siamo in contatto con centri danesi e turchi, possiamo scambiarci le esperienze per affinare i protocolli di cura. Fare il medico oggi significa rendersi conto di com’è cambiato il mondo”.
(11 novembre 2009)
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