giovedì 26 novembre 2009
Welcome, a nuoto verso l'amore: film sbanca-botteghino sugli immigrati
inviato Gloria Satta
PARIGI (26 novembre) - Un uomo solo e deluso dalla vita, un giovanissimo immigrato curdo, i clandestini che sfidano le leggi e la morte stessa. E una grande storia di volontà, amicizia, paternità, amore contrastato, consapevolezza, dolore, tenerezza. Con questi ingredienti, e con l’interpretazione di un Vincent Lindon in stato di grazia, candidato a tutti i possibili premi, Welcome ha sbancato i botteghini francesi.
L’11 dicembre il film verrà distribuito in Italia dalla Teodora Film. Diretto da Philippe Loiret, musicato da Nicola Piovani, ha vinto il premio del pubblico a Berlino. In patria è stato applaudito da dieci milioni di spettatori e ha scatenato una violenta polemica che ha visto scendere in campo il ministro dell’identità nazionale Eric Besson: il regista aveva paragonato le attuali leggi sull’immigrazione alle persecuzioni anti-ebraiche del ’43. «Ma io non intendevo tirare in ballo la Shoah, mi riferivo ai meccanismi repressivi di oggi che stranamente somigliano a quelli di ieri», ha spiegato Lioret.
Cinema e immigrazione, un binomio sempre più fecondo: sceneggiatori e registi non possono più ignorare la realtà fatta di disperazione e ingiustizia che la globalizzazione ha ormai diffuso in tutto l’Occidente. Ambientato a Calais, passaggio obbligato per le moltitudini del sud del mondo che, per raggiungere l’Inghilterra, hanno percorso l’Europa a piedi, Welcome racconta l’amicizia tra un insegnante di nuoto (Lindon) e un clandestino diciassettenne curdo (l’intenso esordiente Firat Ayverdi). Il ragazzo vuole attraversare a nuoto la Manica: a Londra c’è la fidanzatina, promessa però dalla famiglia a un cugino.
Sullo sfondo, ecco il popolo ”invisibile” dei clandestini che ogni giorno sfidano la morte per raggiungere la “terra promessa”, i volontari che li assistono, la polizia che li insegue, i francesi che fanno la spia. «Il film», osserva Lioret, «è piaciuto tanto perché non vuole essere una denuncia politica ma una grande storia di umanità e sentimenti. Ha permesso alla gente di scoprire una realtà poco conosciuta, o addirittura ignorata, attraverso le vicende dei protagonisti. Truffaut diceva che dietro ogni film c’è un documentario, cioè un pezzo di realtà. Ma, a differenza delle inchieste televisive, la finzione cinematografica permette l’identificazione e la storia arriva direttamente al cuore».
Spiega il regista che lo spunto del film gli è stato fornito dall’incontro con un ragazzino curdo, clandestino, che a Calais si allenava in piscina con una sola idea in testa: raggiungere il suo amore in Inghilterra. «Poi, intorno a lui, sono nati gli altri protagonisti: il maestro di nuoto, la moglie volontaria che ha deciso di abbandonarlo, gli immigrati. Sono i personaggi che mi hanno dettato la storia e io mi sono sforzato di essere il più sincero possibile».
Nel film, i vicini di casa denunciano il maestro di nuoto che ospita gli immigrati: i francesi sono delatori? «Non bisogna generalizzare», risponde il regista. «Molti riconoscono solo quello che è permesso e quello che è proibito. Obbediscono alle autorità senza riflettere sulle conseguenze umane delle loro azioni». Aggiunge che, dopo il successo del film e la polemica che è seguita, le cose non sono migliorate: «La repressione nei confronti degli immigrati si è semmai inasprita. Il governo di Sarkozy è impegnato in una campagna elettorale perenne e, dopo aver fatto sparire l’estrema destra di Le Pen, deve mantenere il punto». Ma c’è poco da reprimere, osserva Loiret: «Gli immigrati verranno lo stesso, nel 2050 saranno un miliardo: un nuovo big bang! Non è cacciandoli via che risolveremo il problema, impariamo semmai ad accoglierli. Mentre noi abbiamo la preoccupazione di comprare un nuovo televisore o ci danniamo per dimagrire, milioni di persone sfidano la morte e il carcere perché non hanno niente da mangiare».
Il tema dei clandestini ha sempre attratto Lioret che nel ’94 diresse Tombés du ciel: il protagonista, interpretato da Jean Rochefort, era quell’iraniano che, avendo smarrito il passaporto, passò settimane all’aeroporto Charles De Gaulle in attesa di un documento d’identità. Della storia si innamorò poi Steven Spielberg, che girò Terminal. «Gli amici mi spingevano ad attaccarlo, ma io non li ho ascoltati. Avrei dovuto mettere in mezzo gli avvocati per fare eventualmente un po’ di soldi? Non è per questo che giro film».
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