giovedì 21 gennaio 2010
Libia, la “soluzione finale”
di Furio Colombo 10 settembre 2009 Vedi il filmato in allegato.
Un laccetto di cuoio bagnato, stretto al collo del prigioniero, incatenato e abbandonato al sole per un giorno. Il sole asciugherà gradatamente il laccetto di cuoio, portando al soffocamento. Dipende dall'ora in cui si ricordano di liberarti, dipende dai tentativi folli di liberarti da solo se la sera ti raccolgono vivo per ributtarti nella cella senz'aria e senza luce, tre metri per tre, dodici o quindici persone o se buttano un altro corpo di clandestino consegnato alla Libia nella fossa comune, nel deserto intorno al centro di detenzione infinita di Cufra.
Un bastone dietro le gambe, all'altezza delle ginocchia. Ti forzano a tenerlo con le mani legate, restando però piegato, ma in piedi. Finché resisti. Poi cadi come capita: di faccia, di schiena, di fianco e resti abbandonato sotto il sole – vivo o morto – fino alla notte.
Una buca in cui ti forzano a scendere fino a metà delle cosce. In quella posizione, e con le braccia immobilizzate, devi per forza restare dritto in piedi, perché non puoi piegarti neppure se svieni. Oppure ti pieghi in avanti a testa in giù, finché non ti portano via, vivo o morto.
È il racconto reso di fronte alle telecamere di Rai3 da prigionieri sopravvissuti al tormento libico, quasi sempre con la corruzione o la fuga. Lo ha visto tutta l'Italia la sera del 6 settembre, nella trasmissione-denuncia “Respinti” di Riccardo Iacona. I prigionieri di questa terribile storia sono i “respinti in mare” da militari italiani. La avranno vista – spero – i deputati e senatori, quasi tutti nel centro-destra, quasi tutti nel centro-sinistra, che hanno votato il trattato di amicizia e integrazione militare tra Italia e Libia nel giugno del 2009. E' il trattato in base al quale l'Italia paga la Libia per affondare i barconi dei disperati, per proibire ai pescatori italiani di aiutarli (pena l'accusa di essere mercanti di schiavi) per ordinare a Marina Militare Italiana e a Guardia di Finanza di “soccorrere” i naufraghi – bambini e donne incinte comprese – per riportarli in Libia. In Libia li aspettano, per un tempo infinito e senza che alcuna autorità internazionale intervenga, le carceri di Gheddafi, la tortura, la morte. Il tutto votato dal Parlamento Italiano ed eseguito dal ministro dell'Interno Maroni.
Questa spaventosa serie di eventi che sta seminando migliaia di morti in mare tra l'Africa e l'Italia, sta trasportando alla morte forzata in Libia altre migliaia e migliaia di esseri umani “respinti” in mare, mentre il ministro Maroni – di fronte alle proteste indignate di Europa e Nazioni Unite – conferma: “Non cambieremo le nostre direttive neppure di un millimetro”. Oppure, addirittura con un macabro sorriso, ripete: “Macchine, avanti tutta”. Questa spaventosa serie di eventi è un investimento. Accumula, attorno all'Italia e contro ciascuno di noi, un vasto giacimento di odio. Infatti provoca disperazione, dolore, insopportabili (benché rare, tenute nascoste) immagini di esseri umani, che si aggrappano inutilmente alle mani di un soldato italiano invocando pietà, supplicando di non essere spinti a terra, in Libia. Immagini di bambini e di donne incinte che – in base ad ogni legge non si possono respingere – consegnati agli sgherri di Gheddafi. Ma tutto ciò avviene sotto la bandiera italiana di una nave che aveva finto il soccorso.
Poiché nella “soluzione finale” dell'immigrazione secondo i leghisti, secondo i libici, le carceri sono contenitori stipati e bui, in un caldo infernale e quasi senza cibo, e la detenzione infinita è segnata dalla tortura, lo sventolare nell'aria fresca del Mediterraneo di un tricolore resta l'ultima immagine, la morte della speranza. L'odio che l'Italia sta seminando tra chi sopravvive nel mondo povero sarà immenso. Per l'Italia un pericolo mortale, oltre che una spaventosa vergogna, sanzionato da un voto bipartisan nel Parlamento italiano.
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