venerdì 10 dicembre 2010

Profughi nel deserto del Sinai, le responsabilità italiane

di Elisabetta Viozzi Il governo va particolarmente fiero della sua politica sull’immigrazione, tanto da includere gli accordi con la Libia e i conseguenti respingimenti tra i suoi successi. In effetti, di barconi, a Lampedusa e sulle coste siciliane, se ne vedono molti meno. E, quei pochi, fanno dietro-front verso Tripoli. Ma cosa accade dopo? Le notizie di questi giorni ce ne danno un chiaro, terribile esempio. Da oltre un mese un gruppo di 250 persone, inclusi circa 80 eritrei, sono tenute in ostaggio dai trafficanti nel deserto del Sinai, in Egitto. I rapitori chiedono 8mila dollari di riscatto per il rilascio di ciascuno di loro, sottoponendoli ad abusi e privazioni. Ogni anno migliaia di persone cercano di attraversare il confine egiziano per recarsi in Israele e spesso si affidano a trafficanti beduini senza scrupoli. In questa vicenda si contano purtroppo le prime vittime (sei) e le notizie si fanno sempre più inquietanti: si parla anche di espianto di organi da vendere nel mercato dei trapianti illegali. Impossibile non guardare alle responsabilità italiane: molti degli 80 eritrei sono stati respinti verso la Libia dalle nostre coste. Poi, usciti dal carcere libico in seguito ad un’amnistia, hanno intrapreso il terribile viaggio nel deserto, per finire nelle mani dei loro aguzzini. Rifugiati, persone che avrebbero diritto alla protezione del nostro paese, secondo il diritto internazionale, ma anche secondo la più elementare umana solidarietà, ora si trovano nel deserto, in catene, torturati ed in pericolo di vita. Il successo della politica sull’ immigrazione andrebbe misurato anche fuori dai nostri confini. Ascolta l'intervista a don Mussie Zerai, sacerdote eritreo responsabile dell'agenzia Habesha

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