venerdì 10 dicembre 2010
Profughi senza scampo
10 Dicembre 2010 di Maddalena Maltese
Fonte: Città Nuova
Intervista a Vincenzo Buonuomo
Prigionieri in Egitto, sono sfuggiti alla guerra, ma non ai trafficanti di esseri umani. Quale sarà destino dei detenuti eritrei?
Uno dei profughi scampati ai taglieggiatori egiziani
Tutto il mondo sta seguendo da giorni la situazione dei profughi eritrei, somali ed etiopi detenuti nel deserto del Sinai, in Egitto, da un gruppo di trafficanti di esseri umani. Le notizie arrivano col contagocce, ma sono sempre più agghiaccianti: 63 etiopi e una ventina di eritrei sono stati rilasciati, ma nuovamente arrestati al confine con Israele, mentre gli altri vengono divisi in piccoli gruppi per accaparrarsi il riscatto con maggior sicurezza.
Quale sarà la loro sorte? Gli appelli delle organizzazioni internazionali sono davvero inutili? Bisognerà cedere a questi ricatti? Abbiamo intervistato il professor Vincenzo Buonuomo, ordinario di diritto e organizzazione internazionale alla pontificia università lateranense.
Professor Buonuomo, perché queste persone fuggono dalle loro terre, consapevoli magari di incappare in questi trafficanti?
La crisi del Corno d’Africa ha radici lontane nel tempo e diverse. In Somalia ad esempio non esiste un governo unico, ma tanti governi tribali, fatti da tanti piccoli gruppi che controllano il territorio attraverso le armi. Poi c’è l’incertezza delle condizioni di vita della popolazione, e quando parlo di incertezza non mi riferisco a uno sviluppo democratico, ma parlo proprio di vita ordinaria.
Questi profughi sono in gran parte eritrei…
L’Eritrea dopo l’indipendenza dall’Etiopia, negli anni ’90, vive anch’essa una situazione incerta ed è stata oggetto di frequenti osservazioni da parte delle Organizzazioni unite a proposito della tutela dei diritti fondamentali delle persone e dei gruppi minoritari. Poi c’è il conflitto per il possesso del confine con l’Etiopia, una volta deserto e ora deposito di fosfati e di altri minerali e quindi estremamente interessante. In primis poi c’è una crisi economica e alimentare che colpisce i bisogni essenziali e non riesce ad essere tamponata neppure dagli aiuti internazionali. La nazione vive in uno stato di assistenza continua, come se si trovasse perennemente in emergenza e dipende totalmente dagli aiuti esterni. Non riesce proprio ad essere autonoma.
Tutto questo pesa sulla decisione di abbandonare il Paese e cercare altrove condizioni di vita umane e non parlo di speranza di vita, ma proprio di condizioni e per questo sfidano il rischio dei trafficanti.
La situazione però sembra essersi acuita dopo i serrati controlli per l’ingresso in Europa…
Direi che oggi ce ne stiamo accorgendo di più, ma questo è un problema che esiste da sempre, solo che adesso viene maggiormente preso in considerazione dai media a seguito di queste politiche di controllo delle frontiere europee. Mi chiedo quanti altri casi sono spariti nel nulla e non sono stati presi in considerazione dalla cronaca.
Cosa c’è da sperare per questi profughi?
Che tipo di contatti e che tipo di organizzazioni ci siano dietro questo sequestro non sono facili da capire. Quando si tratta di occidentali tante volte c’è l’appello a spegnere i riflettori sul caso per consentire accordi e contatti con questi gruppi che organizzano la tratta e può darsi che succeda qualcosa in direzione della liberazione. Al momento la situazione rimane estremamente incerta.
Ma davvero l’Egitto e la Libia sono impotenti di fronte a queste bande?
In questi paesi è difficile avere un controllo generale sull’intero territorio. Questi profughi si trovano in un’area desertica in mano a bande armate, gruppi paramilitari che sfuggono all’autorità ed esercitano un’attività criminale senza quasi essere intercettati. Anche il trasferimento in Israele non può essere garantito, proprio per quest’insicurezza, ma è una notizia da approfondire. Anche Israele vuole proteggersi con un muro e garantirsi la sicurezza, anche se deve essere militarizzata e armata.
Le organizzazioni umanitarie e la stessa Europa devono arrendersi?
Farei una distinzione tra la sensibilità dei Paesi della sponda nord del Mediterraneo e della sponda sud. Qui gli appelli e gli interventi godono di una sensibilità limitata. Bisogna lavorare alla cooperazione, in modo concreto e reciproco poiché questi stati da soli non possono farcela. Un limite della prospettiva europea però è quello di assistere e aiutare ma per far passare valori che fanno parte della nostra quotidianità, ma che in altri paesi non trovano accoglienza. Il rispetto dei diritti della persona, la parità uomo donna, l’attenzione verso i bambini e i più giovani, l’eliminazione della tratta, per noi sono essenziali non altrettanto per gli altri. Ad esempio il campo profughi del Polisario, è gestito con forti limitazioni della libertà da parte del Marocco: basterebbe un referendum per garantire indipendenza a quella parte della regione, ma questo esercizio democratico non è compreso.
Abbiamo parlato dell’Europa, ma nelle politiche migratorie, ogni Paese di fatto è autonomo…
E’ vero i Paesi europei cercano di proteggere le loro frontiere, da quella che potrebbe essere un’immigrazione non controllabile, in modo autonomo. Demandano all’Europa l’impegno e il compito della cooperazione, che però va fatta su un piano bilaterale. Non tutto può essere concesso ai paesi in transito, ma vanno studiati interventi che diano garanzie sul lungo periodo e questo vale non solo per il Mediterraneo. In fondo anche Egitto, Libia e Israele sono oggetto di immigrazione anch’essi.
Tutto va demandato agli Stati o la società civile può intervenire?
Gli esperti citano spesso una parola advocacy, sostegno e questo può agire al di là dell’attività diplomatica o tecnica. Si tratta di un sostegno sul lungo periodo che può servire a sensibilizzare le opinioni pubbliche di quei paesi. Invocare un atteggiamento diverso attraverso appelli, campagne può davvero produrre cambiamenti nell’opinione pubblica e incidere sui modi di pensare e di agire. Ci vuole la formazione delle coscienze su questi temi, perché lavorare su dei progetti non è l’unica strada, occorre educare le persone perché possano esprimere una loro governante capace di gestire questi nuovi problemi e se questo viene recepito tutti ne avremo un vantaggio.
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