venerdì 18 marzo 2011

I Profughi Eritrei, Etiopi e Somali rivolgono una domanda all'Italia

| Stefano Liberti, inviato a Bengasi «Possibile che voi italiani ci lasciate morire qui?»
Alexandre Tesfaye ricorda bene quel giorno di due anni fa in cui era quasi arrivato in Italia. «Eravamo a due passi da Lampedusa. Poi è arrivata una nave militare, ci ha caricato e ci ha portati in Libia». Oggi, questo eritreo di 22 anni, fuggito dal suo paese nel 2008, passa le sue giornate nella paura di finire sotto le bombe in una specie di campo rifugiati messo in piedi dalla Mezzaluna rossa (l'equivalente islamico della Croce rossa) in un complesso di casette prefabbricate costruito per i lavoratori di una ditta indiana impegnati in un cantiere vicino allo stadio di Bengasi. Ora i lavori sono interrotti, gli operai indiani sono stati evacuati in Egitto e nelle stanzette vivono 182 uomini, donne e bambini venuti da Eritrea, Etiopia e Somalia. Si sono rifugiati qui per paura di essere picchiati. «Durante i giorni della repressione, Gheddafi ha usato mercenari africani per sparare sulla folla. Non volevamo essere scambiati per loro». L'accusa - che non ha mai trovato conferma ma che è ripetuta da tutti per le strade di Bengasi - ha spinto molti cittadini di paesi africani a trasferirsi all'interno del campo della Mezzaluna rossa. Ma se i nigeriani, i ciadiani, i ghanesi sono stati rimpatriati dai rispettivi governi, i somali, gli eritrei e gli etiopi non hanno un posto dove andare. Perché loro sono fuggiti dai propri paesi d'origine, stretti nella morsa della guerra o della dittatura. Così restano nel campo, in attesa di un improbabile trasferimento verso qualche stato europeo che si faccia carico del loro caso. «L'Italia dovrebbe accettarci. In fondo, siamo finiti qua perché siamo stati respinti da una nave italiana», dice Tesfaye. Il ragazzo poi racconta i particolari di quel viaggio. Era la seconda metà di luglio del 2009. Sulla barca erano in 62: somali, eritrei, etiopi e nigeriani. Arrivati a poche miglia da Lampedusa, sono stati avvicinati da una nave militare grigia, presumibilmente della Guardia di finanza. «Ci hanno dato acqua e panini. Poi ci hanno detto che ci portavano in Italia. Invece hanno fatto rotta verso sud». Tesfaye racconta di essersi addormentato e di essersi risvegliato direttamente nel centro di detenzione di Misratah, sulla costa della Tripolitania. «Ci hanno messo dei sonniferi nel cibo per evitare che ci ribellassimo». L'accusa viene ripetuta da Tafere Lgalme, un trentenne di Asmara che viaggiava con lui. «Gli italiani ci hanno drogato. E poi ci hanno riconsegnato ai libici. E ora, eccoci qua. Tra poco ci bombardano pure». I due eritrei - e un altro somalo che viaggiava con loro e che oggi è nel campo, ma che non vuole dare le proprie generalità - sono solo tre delle più di mille vittime della politica dei «respingimenti in mare» inaugurata dai governi italiano e libico nel maggio 2009, in seguito alla firma del famoso Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione siglato da Gheddafi e dal premier Silvio Berlusconi poco meno di un anno prima. Da allora, tutte le barche intercettate nel canale di Sicilia sono state rimandate indietro in Libia, nonostante le proteste dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) e del Consiglio d'Europa. Diversi potenziali richiedenti asilo sono stati respinti nel paese nord-africano, in aperta violazione della Convenzione di Ginevra, che prevede espressamente il principio di non respingimento verso uno stato terzo non sicuro. Ricacciati in Libia, molti degli eritrei, somali ed etiopi sono finiti in campi di detenzione, da dove sono usciti corrompendo le guardie e ripiombando in una clandestinità che li ha costretti a vivere nascosti e li ha esposti ad arbitrii e violenze. Come ultima tragedia di un'odissea migratoria senza fine, oggi rischiano di finire nel mezzo della guerra civile tra le truppe di Gheddafi e quelle dei ribelli. Gli eritrei sono terrorizzati da quello che potrebbe accadere loro. Mostrano un buco nel soffitto del loro prefabbricato. «Ieri (l'altroieri per chi legge, ndr) è piovuta dal cielo una scheggia di qualcosa». Tesfaye e i suoi compagni raccontano, gli occhi ancora rossi dal sonno, la notte di angoscia appena trascorsa. «Sentivamo spari di kalashnikov, i proiettili della contraerea. Temevamo che stessero per bombardare». In realtà erano i rumori dei festeggiamenti dei «giovani rivoluzionari», scesi in massa nella piazza del Tribunale in seguito a una voce - che non ha poi trovato conferma, anche se tutti continuano a giurare che è vero - che un aereo si era abbattuto su Bab el Aziziya, la caserma di Tripoli dove vive Gheddafi. Per questa volta l'allarme è passato. Ma la paura resta. «Che succede se cominciano a bombardare davvero?», chiedono i ragazzi in coro. «Possibile che l'Italia o l'Unione europea abbiano deciso di lasciarci morire qui?».

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