Dinaw Mengestu, l’autore «né bianco né nero», che l’America ha trasformato in una star. «L’orgoglio di essere africano, il dramma di essere emigrato»
| Dinaw Mengestu LEGGERE IL VENTO Piemme pp. 350, € 18,50 |
«È vero, l’ho visto fare sia a mio padre che a mia madre. È una cosa che ci viene dall’orgoglio forse un po’ esagerato di avere occupato un posto speciale nella storia dell’Africa, e allo stesso tempo dalla volontà di tirarci fuori dal resto del continente», sorride Dinaw Mengestu (pronuncia Dinau Menghestu), uno di quei giovani scrittori pieni di talento e di sensibilità per l’esperienza umana, che l’America ha la capacità di riconoscere al primo libro e trasformare istantaneamente in una star.
Quattro anni fa, quando è uscito «The beautiful things that heaven bears» (Le cose che porta il cielo, Piemme), in cui Mengestu raccontava la storia di un negoziante etiope a Washington alla ricerca di un po’ di sollievo alla propria solitudine nell’amicizia con una professoressa americana di storia, il «New York Times» ha scritto semplicemente: «Questo è un grande romanzo africano, un grande romanzo su Washington e un grande romanzo americano». E ora che esce in Italia anche il secondo libro di questo ragazzo di trentadue anni che sembra possedere il segreto della grazia - non solo nella sua prosa levigata e poetica, ma anche nel modo aperto e lievemente distaccato di rapportarsi agli altri - ecco che Mengestu affina il tema di questa «altritudine», che è la libertà e allo stesso tempo il peso di non appartenere né agli uni né agli altri: di essere né bianchi né neri, né africani né completamente americani. Un’«altritudine» che nei suoi romanzi prende la forma di una malinconia costante e pervasiva come una melodia di fondo. E che nella vita di questo scrittore è diventata ciò che gli ha permesso di trasformare gli atteggiamenti razzisti altrui «che ancora oggi mi provocano risentimento e frustrazione», in qualcosa di cui «bisogna essere grati». «Perché alla fine ti formano e ti aiutano ad avere un’idea abbastanza precisa di chi sei. E chi sei è una persona libera e allo stesso tempo consapevole di come ci si sente quando si è intrappolati nei problemi di razza». Il che per uno scrittore che vive in un Paese e in un’epoca multirazziali, può dimostrarsi un’arma formidabile.
| Sebastião Salgado, lavoratori a Yirgha Cheffe, Etiopia |
Leggere il vento parla nella necessità altrettanto naturale di «inventare storie» per riempire «i buchi del passato», e di conseguenza della capacità della letteratura di restituirci l’essenza e le conseguenze psicologiche di un dramma come quello dell’emigrazione dai Paesi africani, che altrimenti rimarrebbe confinato alla brutale - e oggi così attuale - realtà della cronaca. Ma parla anche del bisogno di uno scrittore «né bianco né nero» come Mengestu, che appena è stato adottato dall’ambiente letterario di New York se n’è venuto a vivere a Parigi dove non conosceva nessuno e nel giro di tre anni si è sposato con una ragazza francese e ha avuto due figli, di capire finalmente la traumatica emigrazione dei suoi genitori di cui nessuno, in casa, voleva parlare: non il padre fuggito nel ’78 dopo avere visto un fratello morire in carcere nel periodo del «terrore rosso» seguito alla rivoluzione, non la madre i cui fratelli erano stati anche loro arrestati, che ha raggiunto il marito in Illinois nell’80 insieme ai due figli.
| Dinaw Mengestu |
«Quando ci pensi bene, è sempre la stessa storia -, dice a Jonas il capo del centro rifugiati di New York -. Quello che facciamo noi è solo cambiare il nome del Paese, o la religione, ma alla fine non fa molta differenza». Quanta superficialità c’è in questa affermazione in cui è facile per chiunque riconoscersi. Un libro come Leggere il vento è lì per dimostrarci tutta la nostra miopia: e dirci non solo che fa differenza, ma che nessuna gioia, nessuna pena, nessuna umiliazione o frustrazione o redenzione, dacché esiste la letteratura, è o sarà mai uguale a un’altra.
Livia Manera
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