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I dati, comunque, restano allarmanti. Cinque somali – secondo quanto riferisce Aden Sabrie, corrispondente a Roma della Bbc – sarebbero stati già uccisi in Bengasi. «Quei pochi che riescono a varcare la frontiera con l’Egitto – prosegue, accennando ad una trentina di somali “espatriati” – non trovano all’arrivo un ambasciatore o un governo che li aiuti, perché sono rifugiati».
Ma non finisce qui. Più di trecento eritrei – spiega al Sir don Mussie Zerai dell’Agenzia Hadeshia – cercando di fuggire dal porto di Tripoli sarebbero stati poi catturati e imprigionati a pochi chilometri dalla capitale. «Nel carcere – afferma Zerai – soffrono per il freddo, la fame e la mancanza di acqua potabile. Le mamme non hanno latte per i neonati. Stiamo cercando in loco qualcuno che riesca a farli uscire dal carcere. Raccontano di varie aggressioni subite in strade, di furti, rapimenti. Hanno paura di uscire di casa, per cui non possono ricevere aiuti in denaro dalle famiglie e soffrono la fame». Oltre ai 19 eritrei rapiti nelle loro case durante i primi giorni della crisi libica e mai più rintracciati, don Zerai riferisce oggi del rapimento di alcune ragazze mentre andavano a fare la spesa. E della situazione di 500 eritrei, somali ed etiopi «in condizioni di totale abbandono» a Bengasi: «Hanno dormito per giorni sulla spiaggia, ora sono in una struttura di una compagnia turca, ma non è sufficiente. Hanno molta paura. Se crolla tutto, temono che la popolazione si sfogherà contro di loro».
Alle testimonianze “ufficiali” si aggiungono quelle dei parenti in Italia: «Mio fratello è riuscito ad uscire dal carcere pagando – ha raccontato Simon, rifugiato eritreo, in Italia da tanti anni – Ora vive con 20 persone e non esce mai di casa». Stessa cosa per la madre di Lulla, 26enne, eritrea, che ha viaggiato sui barconi mentre era incinta della figlia, che ora ha 7 anni: «Mia madre lavorava da 7 mesi in una famiglia. Ora ha perso anche il lavoro, perché la famiglia non vuole più tenerla in casa per paura. Vive con una ventina di persone, hanno difficoltà a reperire cibo. Spero solo che riesca a venire in Italia».
L’appello sommesso di una donna etiope ha chiuso la conferenza: «Vorrei che ci si rendesse conto che se scappiamo da un Paese che amiamo, dalla nostra famiglia, è perché lì qualcosa non va a livello politico e sociale».
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