martedì 1 marzo 2011
E' caccia all'africano nero in Libia, ma nessun lo dice
Non ne parlano i reportage degli inviati, né i lanci delle agenzie di stampa internazionali, e nemmeno i servizi delle varie televisioni. L'opinione pubblica di tutto il mondo ignora che in questa Libia che si rivolta a Gheddafi ci sono delle povere cavie, i profughi eritrei, somali e sudanesi, considerati mercenari al soldo del colonnello, e per questo inseguiti, perseguitati e uccisi. Non c'è tregua per i più poveri tra i poveri, fuggiti dai loro paesi a regime totalitario nella speranza di un futuro di libertà, costretti a pagare migliaia di euro ai vari trafficanti di carne umana, imprigionati come clandestini, respinti in mare dalla navi del patto italo-libico, catturati da bande di predoni con la richiesta di nuovi soldi, torturati, le loro donne violentate, sottoposti a trapianto degli organi, in numerosi casi uccisi.
Di questa assurda e spietata caccia all'uomo l'unico testimone che cerchi di abbattere il muro del silenzio è don Mussie Zerai, il prete cattolico eritreo che da Roma tiene contatti telefonici a tutte le ore del giorno e della notte con i connazionali tenuti in Libia e nel Sinai e con le loro famiglie e che cerca con le sue povere forze di appellarsi alla comunità internazionale. Ecco una sua e-mail, che mi ha spedito il 25 febbraio: «Ore 15.20: ricevo una telefonata disperata di una donna eritrea, picchiata e buttata fuori di casa dal proprietario, a Tripoli, zona Medina, perché nera. Voi neri africani, gli ha detto, siete mercenari del regime. E fatti di questo genere stanno accadendo ovunque, soprattutto di notte».
Le mail di don Mussie, (in italiano don Mosè), e della sua agenzia umanitaria Habeshia, vengono rilanciate in rete da un altro gruppo umanitario, EveryOne, nel tentativo di moltiplicarne l'eco. Sempre il 25 febbraio, ecco cos'altro racconta il prete: «A Bengasi due eritrei sono stati linciati e uccisi dalla folla mentre cercavano di portare assistenza a due connazionali gravemente feriti. I profughi rimasti in vita hanno chiesto aiuto ad una nave inglese, pregando che mettesse in salvo almeno i due feriti, ma hanno ricevuto un rifiuto secco».
Torniamo a Tripoli: «Le famiglie di origine sub-sahariana vivono segregate in casa in preda alla paura. Non possono uscire nemmeno a fare la spesa perché temono il linciaggio. Sono le vittime preferite degli sciacalli depredatori. Molti sono stati rapinati, altri sequestrati. E' una persecuzione». Poi don Zerai racconta quest'altro episodio: «Centinaia di richiedenti asilo politico che erano tenuti nelle carceri libiche, con l'aggravarsi della crisi sono stati costretti dai loro carcerieri a imbracciare le armi per colpire la piazza. Chi si è rifiutato di farlo, è stato ucciso». I figli di nessuno dell'Africa nera sono additati come fomentatori dagli uomini di Gheddafi e come mercenari dagli oppositori.
Il 28 febbraio don Mussie presenta questi conti: «Circa 350 persone per lo più donne con bambini sono tenute in una stazione di polizia libica a Towshia a 40 km da Tripoli. Da ieri sera non hanno neanche l’acqua da bere. Con i loro neonati in braccio, le mamme chiedono che qualcuno venga ad assisterli. Stanno molto male: sopratutto i bambini soffrono sete e fame. In queste ore abbiamo circa 1.800 profughi eritrei sfollati cacciati dalle loro case da proprietari che non vogliono averli in casa Tripoli. Altri 235 eritrei si trovano al porto di Bengasi in condizioni di totale abbandono con due feriti gravi». I feriti respinti dalla nave inglese.
Ma don Zerai mantiene contatti telefonici anche con gli eritrei sequestrati da bande di beduini nel Sinai, di cui già abbiamo raccontato la triste storia. «Il flusso di arrivi dal Sinai non si arresta – racconta per mail il 23 febbraio – Stamattina ho parlato con il gruppo dei 150 dove si trovano anche tre bambini dagli 11 ai 14 anni e mi riferiscono di nuovi arrivi, mentre continuano ad essere maltrattati. Ci sono segnali di voler abbassare la richiesta di riscatto da 10 a 5 mila dollari. Sembra che i predoni abbiano una certa fretta, e ci sono anche scontri a fuoco tra bande per rubarsi la preziosa merce umana».
Sempre il 23 febbraio: «Sono stato contattato da una settantina di nuovi profughi. Mi hanno raccontato che vengono sottoposti a tortura con della plastica fusa fatta gocciolare sulla schiena, per costringerli a chiamare i familiari e farsi mandare del denaro».
Le denunce di Habeshia, di EveryOne e di altri gruppi umanitari, qualche effetto lo hanno sortito. Melissa Fleming, portavoce dell'Alto Commissariato Onu per i rifugiati, ha ricordato la settimana scorsa che ci sono in Libia «più di 8 mila rifugiati politici registrati dall'Unhcr e circa 3000 richiedenti asilo provenienti da Sudan, Eritrea, Somalia, Ciad, Iraq e Territori palestinesi». Ieri è sceso in campo l'Alto Commissario per i Rifugiati, António Guterres, esprimendo la sua preoccupazione per le decine di migliaia di rifugiati ed altri cittadini stranieri che potrebbero essere intrappolati in Libia.
Il rischio che il mondo sta correndo, è quello di mandare in soffitta la Convenzione di Ginevra del 1951 che tutelava i richiedenti asilo politico in fuga dall'oppressione e dalle discriminazioni. Ognuno ci ha messo del suo. L'Italia lo ha fatto con i respingimenti in mare attuati dalle motovedette regalate a Tripoli dal Trattato italo-libico e con il sistema radar alle frontiere sud del paese che Finmeccanica stava mettendo in piedi fino a pochi giorni fa. Respingimenti a prescindere, mettendo nello stesso calderone migranti economici e profughi. Quanto all'accordo generale con Gheddafi siglato da Berlusconi nell'agosto del 2008, vale la pena di ricordare che è stato poi ratificato in Parlamento con il sì del Partito democratico.
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