Eritrei pestati dai militari della marina italiana durante i respingimenti in Libia e l'ambasciatore italiano a Tripoli che fa finta di niente e si nega alle pressanti richieste dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite. Emergono altri sconcertanti dettagli nei cable dell'ambasciata americana in Libia diffusi in rete da Wikileaks.
Carte riservate
In particolare in un documento riservato, datato 5 agosto 2009. L'ambasciatore americano Gene Cretz ha appena incontrato il direttore dell'Alto commissariato dei rifugiati a Tripoli, l'iraqeno Mohamed Alwash, in piena stagione di respingimenti. Oggetto della riunione è la definizione di un piano di accoglienza negli Stati Uniti di un gruppo di rifugiati politici eritrei respinti dall'Italia e detenuti a Misratah. Ma ben presto la discussione si sposta su altro. Alwash è una persona moderata. Ma ci sono due cose che proprio non gli sono andate giù. La prima è il pestaggio degli eritrei respinti dalla Marina militare italiana il primo luglio. La seconda è l'ostruzionismo dell'ambasciatore italiano a Tripol, Francesco Trupiano.
È il primo luglio 2009. A 33 miglia a sud di Lampedusa viene intercettata una imbarcazione con 89 passeggeri a bordo, tra cui 75 eritrei (comprese 9 donne e tre bambini). Racconta Alwash all'ambasciatore americano: «Quando l'imbarcazione è stata intercettata, tre degli eritrei hanno chiesto di parlare con il comandante della nave italiana per informarlo del loro status di rifugiato. Diversi passeggeri hanno mostrato al comandante i loro attestati rilasciati dagli uffici dell'Alto commissariato dei rifugiati delle Nazioni Unite». Ma il comandante è intransigente. Dice che c'è un «ordine tassativo del governo italiano di riportare i migranti in Libia», e quindi ordina a tutti di salire sulla nave italiana diretta verso la Libia. Al rifiuto degli eritrei, i militari italiani passano alle maniere forti.
Alwash riferisce di «scontri fisici tra i migranti e l'equipaggio italiano che si concludono con alcuni degli africani picchiati dagli italiani con bastoni di plastica e di metallo». Il bilancio degli scontri è di «almeno sei feriti». Alcuni dei passeggeri «filmano l'incidente con il proprio cellulare, e a quel punto l'equipaggio italiano decide di confiscare tutti i telefoni cellulari, i documenti e gli oggetti personali, che non sono ancora stati restituiti». Al rifiuto delle autorità libiche di inviare una propria motovedetta per il trasbordo, gli eritrei sono «consegnati a una piattaforma petrolifera dell'Eni al largo delle coste della Libia», quella di Bahr Essalam, da dove poi vengono portati a terra e detenuti. Dopo due giorni di insistenti richieste, gli operatori delle Nazioni Unite ottengono l'autorizzazione a incontrare il gruppo dei respinti. Le 9 donne e i 3 bambini si trovano nel campo di Zawiyah. Tra loro c'è «una donna incinta con urgente bisogno di cure mediche». A Zuwarah invece incontrano gli uomini. Sei di loro hanno ancora i punti di sutura sulla testa e sul viso. Alwash sollecita il governo italiano, ma non arrivano risposte. Agli americani confida di ritenere che «il governo italiano faccia intenzionalmente ostruzionismo alle Nazioni Unite». In particolar modo nella figura dell'ambasciatore italiano a Tripoli, Francesco Trupiano. Alwash dice che «Trupiano si rifiuta di incontrarsi con l'Unhcr» e che ha saputo che Trupiano dice di lui che è soltanto un «piantagrane». Trupiano, dice Alwash, è concentrato soltanto sui respingimenti e dice addirittura di non sapere niente di un iniziale accordo tra Nazioni Unite e governo italiano per riportare in Italia una ventina dei 93 titolari di asilo politico che le Nazioni Unite hanno identificato tra i respinti in Libia. Tutti elementi che lo portano a concludere che «l'accordo di cooperazione tra Italia e Libia per respingere i migranti intercettati nel Mediterraneo verso la Libia, stia violando i diritti umani dei migranti e mettendo in pericolo i richiedenti asilo».
Un altro documento, dopo il cable di ieri, che raccomandiamo di utilizzare agli avvocati dei due processi ancora in piedi contro i respingimenti, nella speranza che sebbene a due anni di distanza dai fatti, si possa ristabilire la ragione del diritto sopra la ragione politica.
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