13 febbraio 2011
Corno d’Africa
Sembra che tutti proveniamo da qui. Che la nostra grande madre passeggiasse tre milioni e mezzo di anni fa nella Piana dell’Hadar, circa 150 km a nord-est di Addis Abeba. Con quel nome così occidentale, deciso sulle note della canzone dei Beatles che la spedizione ascoltava ossessivamente al momento del ritrovamento del suo scheletro nel 1974, Lucy può trarre in inganno. In realtà siamo tutti africani e lì, ci dicono gli scienziati, si è conformata l’umanità. L’Etiopia, dove tutto è antico.
La gloriosa Chiesa ortodossa d’Etiopia (Tewahedo) fa risalire i propri natali all’incontro dell’apostolo Filippo con l’eunuco della regina d’Etiopia Candàce (Atti 8, 27-40), a cui avrebbe consegnato la missione evangelizzatrice di quella terra. Ma c’è chi parla di una fondazione precedente: quello dei Magi con il volto nero – è la versione più magica e presepica – sarebbe etiopico e, tornato a casa, avrebbe parlato del Messia a tutti quelli che incontrava. L’Etiopia della regina di Saba, dei Leoni di Giuda, della stirpe giudaica. L’ultimo imperatore, Hailé Selassié, si riteneva diretto erede di Salomone, mentre l’attuale patriarca ortodosso, Abuna Paulos, racconta che la sua chiesa «ha più di tremila anni». Precedente a Cristo? «Sì. Dai tempi della regina di Saba (1000 a. C.) c’era una comunità ebraica che si è quasi interamente rivolta a Gesù perpetrando le stesse forme religiose».
Di somiglianze cultuali tra cristiani d’Etiopia ed ebrei, in effetti, ce ne sono tante. Oltre alla circoncisone entro l’ottavo giorno, spiccano la forma delle chiese con il Sancta Sanctorum al centro, la divisione tra carni pure e impure, i sacerdoti danzanti al ritmo di tamburi di tradizione davidica. Ma l’elemento che rende la Chiesa d’Etiopia la più "giudaica" al mondo, probabilmente, è la custodia all’interno della cattedrale di Santa Maria di Sion ad Axum di quella che si ritiene essere l’Arca dell’Alleanza, una cui copia è indispensabile a ogni altra chiesa, minuscola o remota che sia, per la consacrazione. Il secolo scorso, per l’Etiopia, è iniziato male ed è continuato peggio. Sulle sue "faccette nere", gli italiani "brava gente" hanno sperimentato l’iprite, il principale tra i gas asfissianti, e ucciso migliaia di persone.
Poi è arrivato il "terrore rosso" di Mengistu (1977-1991) che ha ibernato il Paese sotto una dittatura feroce facendo un milione e mezzo di morti tra oppositori, civili, preti e anche patriarchi: Theofilos, un predecessore di Paulos, fu brutalmente ucciso dopo un anno di carcere duro nel 1977. In mezzo, due spaventose carestie, 1974 e 1984-1985, che hanno mietuto un altro milione e mezzo di vittime. I cento e più anni drammatici, chiudono il sipario con la spaventosa guerra con l’Eritrea che trascina i suoi mefitici miasmi fin nel nuovo millennio. «Viviamo nel terrore – spiega Mekdes, una donna di Zalembesa, confine con l’Eritrea, nella sua casa bombardata senza tetto –: la guerra potrebbe riprendere da un momento all’altro.
A volte, i soldati eritrei disertano, superano il confine e si nascondono nelle nostre case. Dall’altra parte sparano per lunghissimi minuti col rischio che qualcuno del villaggio venga colpito». L’Eritrea. Un concetto astratto che è divenuto regione, poi nazione, addirittura etnia. Nel 1879, quando gli italiani cominciavano ad affacciarsi in Etiopia, il primo luogo che destò il loro interesse, fu il porto di Assab, nella punta nord. Lì cominciarono a stabilirsi e, a seguito del Trattato di Uccialli (2 maggio 1889), dopo aver conquistato anche il porto di Massaua, delimitarono i propri confini coloniali acquisendo così di fatto la regione più a nord dell’Etiopia. Restava il problema di darle un nome. Fu lo scrittore Carlo Dossi a suggerirlo a Francesco Crispi: essendo l’unico sbocco al mare di tutto un Paese e chiamandosi il mare "Rosso", fu scelto Eritrea da <+NA_TesOFCors>eritros<+NA_TesOFband>: rosso, appunto.
«Noi siamo vittime di un equivoco storico – dice Tedros, un profugo di etnia tigrina (Tigrè, la regione più a nord) in un locale di Macallè dove si mastica e fuma il qat, un’erba dai presunti poteri rilassanti – e quell’equivoco l’avete creato voi. Eravamo tutti tigrini, tutti etiopici». Poi la divisione con la presenza italiana per cinquant’anni. Da lì si è lentamente creato il concetto di un’etnia diversa, una lingua con variazioni artefatte ma esaltate, e l’idea che gli eritrei fossero superiori a tutti gli etiopici.
Su questo concetto, la dittatura di Isaias Afewerki, al potere dal 1993, ha speculato oltre ogni limite. Al di là della guerra, infatti, l’assurda ideologia della superiorità di un’ipotetica razza eritrea ha scatenato un regime di vero e proprio apartheid verso i cittadini eritrei stessi, ma di etnia etiopica o tigrina. Dal 1993 a oggi si sono perpetrati massacri – difficilmente documentabili nello Stato-bunker eritreo, ultimo al mondo per libertà di stampa – ma di cui tutti nella zona del Tigrè parlano, oltre a vessazioni di ogni tipo nel lavoro, la scuola, la sanità e gli alloggi.
L’Eritrea è uno dei Paesi più poveri al mondo e tra i primi per spese militari su reddito pro capite. Cinque milioni di cittadini isolati dal resto del pianeta che hanno visto solo dittature (Mengistu, Afewerki) e che diminuiscono di anno in anno, terrorizzati dal regime (circa centonovantamila rifugiati). A scuola, l’appello si fa per etnie. Ed è l’ultimo sfregio a quello che per secoli è stato il vero melting pot d’Africa. «Siamo sempre stati insieme – è la voce mite di Nega Ymer, un falascia di Gondar –. Noi eravamo qui prima di ogni altro e abbiamo sempre vissuto accanto a chi è arrivato dopo, cristiani o musulmani».
I falascia, ebrei dalla storia che si perde nei tempi, si sposano con persone di altre fedi e si raccolgono insieme di sabato per un rito molto simile all’eucarestia. Un simbolo di convivenza che, però, sta morendo. Se ne vanno anche loro, trattati da paria in patria ma con grosse difficoltà di integrazione anche in Israele. «Siamo una delle dieci tribù perse d’Israele, l’umanità e le religioni sono nate qui».
Luca Attanasio
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