mercoledì 30 marzo 2011

In Libia è caccia agli africani del Corno d'Africa

Don Mussie Zerai, sacerdote eritreo è impegnato in prima linea a sostegno dei profughi del Corno d'Africa e denuncia le persecuzioni in Libia nei confronti dei profughi provenienti dal sub sahara
mercoledì 30 marzo 2011

L'Agenzia Habeshia per la Cooperazione allo Sviluppo si occupa di richiedenti asilo e di rifugiati provenienti dal Corno d’Africa presenti in Italia.

In questi ultimi giorni è in prima linea negli aiuti ai profughi che stanno scappando dalla Libia e sbarcano a Lampedusa. “La situazione dei profughi che seguiamo nel Nord Africa, non è mai stata facile” ci dice don Mussie presidente di Habeshia, e ci spiega perché dal 21 Febbraio la situazione è peggiorata.
Don Mussie, ci parli brevemente dell'Agenzia della quale è direttore e com’è nata.
«L'Agenzia Habeshia, nasce ufficialmente nel 2006. Dal 2003, con l'aumento dei flussi di rifugiati provenienti da Eritrea ed Etiopia, vedendo il bisogno che, i rifugiati, hanno di trovare un punto di riferimento che parli la loro lingua, che presti loro la voce per dire tutto il loro disagio e denunciare le diverse forme di discriminazioni, disservizi. Un tentativo, in sostanza, di venire incontro a centinaia di profughi provenienti dal Corno D'Africa. L'aiuto che tentiamo di dare è quello di informarli sui loro diritti e doveri in Italia, un orientamento ai servizi, cercando di essere interlocutori con le istituzioni per le istanze che presentano i profughi e rifugiati. Inoltre, Informiamo l'opinione pubblica di eventuali violazioni dei diritti umani a danno dei nostri assistiti, e denunciamo tutte le forme di violazioni dei diritti umani che avvengono in diversi paesi di transito dei profughi come il caso di Libia, Egitto e Sudan.»
Don Mussie, in seguito al precipitare degli eventi degli ultimi mesi in nord-africa, com'è la situazione per le persone che segue più da vicino?
«La situazione dei profughi che seguiamo nel Nord Africa, non è mai stata facile. Lo dimostra il fatto che già nell'estate scorsa denunciavamo i maltrattamenti brutali nelle carceri libiche nei confronti dei profughi respinti in mare dall'Europa. Da mesi stiamo denunciando il sequestro di centinaia di profughi nel Sinai in mano ai trafficanti di esseri umani che pretendono un riscatto per la loro liberazione. Dal 21 febbraio abbiamo segnalato della situazione di pericolo che stavano vivendo i profughi eritrei, etiopi e somali in Libia. In un clima di caccia all'africano del Sub Sahara, accusati di essere mercenari del regime libico, essi vengono aggrediti per le strade, cacciati fuori perfino dalle loro case in affitto, perché i proprietari non vogliono avere in casa persone ormai additate come complici del regime. Quindi è un vero clima di persecuzione, per il quale abbiamo lanciato ripetuti appelli, noi e il Vescovo di Tripoli Mons. Giovanni Martinelli, affinché fossero evacuati. L'Italia ha fatto il primo passo evacuando 110 profughi eritrei ed etiopi, la maggioranza dei quali sono famiglie con bambini. Restano ancora circa 2500 eritrei ed etiopi in Libia che cercano una via di fuga dalla guerra in atto. In queste ore centinaia di profughi tentano di raggiungere il confine tunisino per salvarsi anche dalle bombe, sperando di trovare una via di uscita con l'aiuto della Chiesa Cattolica di Tripoli. In Tunisia essi sono stati accolti dall'UNCHR, l'OIM, la Croce Rossa e Mezza Luna Rossa, ma serve un’evacuazione umanitaria dei profughi eritrei, etiopi e somali verso l'Europa, il Canada, USA, Australia dove possano trovare protezione internazionale.»
Dalle testimonianze che ha raccolto personalmente, dai suoi connazionali e non, che si trovano sul posto, intravede il rischio concreto che nel futuro prossimo la protesta si allarghi sempre più?
«Il rischio immediato intanto è che la Libia si trasformi in un altro Iraq o Afganistan, perché con i bombardamenti di forze esterne si rischia il radicalizzarsi delle posizioni delle parti in conflitto. I segnali di un allargamento della protesta ci sono in diversi paesi arabi, come Algeria, Bahrein, Siria, Yemen, sperando che il risultato finale sia una vera democrazia. C'è, però, l'incognita di deriva islamista radicale in molti di questi paesi, se la transizione non sarà gestita anche con l'aiuto della comunità internazionale, sostenendo i movimenti politici moderati impegnati sul fronte della democrazia contro ogni estremismo.»
L'atteggiamento della Chiesa ribadisce anche in questo momento i sacrosanti principi della pace e della cura dei più deboli, ma dal suo punto di vista come pensa si possa fermare il massacro costante di civili innocenti?
«Il Santo Padre Benedetto XVI ha fatto appello ai responsabili delle nazioni, impegnati nel tentativo di proteggere i civili dalla rappresaglia del regime, così come al regime libico che deve evitare di mettere in pericolo la vita dei civili. La chiesa sa che le cose non si risolvono con la guerra, l'esperienza insegna la Somalia del 1994, Iraq e Afganistan ancora oggi sono problemi irrisolti. La decisione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU di istituire la no-fly zone è positiva, ma l'interventismo militare di certi paesi rischia di ottenere l'effetto contrario, cioè gli effetti collaterali dei bombardamenti, quali la morte tra i civili, o, peggio, l'uso che sta già facendo il regime dei civili come scudi umani, per poi accusare le forze esterne del loro massacro. In un paese come la Libia con forti divisioni tribali, si deve arrivare presto ad un negoziato per la riconciliazione nazionale, con una transizione pacifica verso una democrazia "libica" non di importazione o imposta dall'occidente. Questa corsa all'intervento militare dell'Occidente quanto e dettata dagli interessi di strategia energetica? Quanto invece si pensa al bene comune del popolo libico, la sua voglia di libertà, giustizia, democrazia e pace? La mia sensazione quello che si sta notando delle resistenze o protagonismo di alcuni paesi europei, dietro a questo intervento militare pesa molto di più la voglia di garantirsi una fetta più consistente dei contratti energetici che quella di proteggere la vita dei libici o di sostenere l'aspirazione del popolo libico, di una sua sovranità libera e democratica del suo territorio. Bisogna che la coalizione rispetti rigorosamente la risoluzione dell'ONU 1970-1973, impedendo che il regime bombardi la popolazione degli insorti, ma trattando anche con tutte le tribù che compongono la popolazione libica per uscire dalla crisi in tempi ragionevoli. Inoltre, bisogna ottenere l'apertura di corridoi umanitari per rifornire del necessario gli ospedali, soccorrere la popolazione civile stremata che non ha cibo, evacuare tutti gli stranieri che vogliono lasciare la Libia, sopratutto evacuare i profughi e rifugiati che non possono tornare nel paese di origine.»
Mentre la nave San Marco continua a fare la spola tra Lampedusa e i centri d’accoglienza, del barcone con a bordo più di 300 eritrei scomparsa da giorni dopo aver chiesto soccorso, pare si sia ritrovata qualche traccia. Fanno rotta per Lampedusa, ma non sanno ancora che il paradiso sperato non è lì.

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