martedì 30 novembre 2010

“Se non pagate morirete qui” i nuovi ricatti dei trafficanti dopo gli accordi Italia-Libia

Autore: Erica Balduzzi Segregati nel deserto del Sinai, legati con le catene ai piedi, costantemente minacciati e ricattati: la loro libertà costa 8mila euro. E’ questa la condizione in cui si trovano attualmente moltissimi profughi, bloccati al confine tra Egitto ed Israele. I dati parlano di circa seicento persone, tra etiopi, eritrei, somali e sudanesi, e tra di essi anche molte donne: tutti in mano ai trafficanti di esseri umani. A lanciare l’appello è Mussie Zerai, sacerdote eritreo fondatore della ong Habeshia, che da tempo segue il dramma dei profughi in fuga dal Corno d’Africa verso l’Europa, sempre più spesso fermati in condizioni disumane dalla polizia libica o dai trafficanti. E se i recenti e contestati accordi di amicizia tra Italia e Libia hanno apparentemente permesso di ‘chiudere il rubinetto’ dell’immigrazione – regolare o meno – dalle coste libiche verso quelle italiane, in verità il dramma umano dei profughi in fuga da guerre e povertà non ha minimamente accennato a diminuire dopo tali provvedimenti. Anzi, continua a crescere e ad assumere forme sempre più disperate, come la ricerca di nuove rotte e di nuovi e spregiudicati ‘mediatori’ per il viaggio verso un’agognata libertà. «La chiusura delle frontiere dell’Europa con accordi bilaterali – spiega Zerai – non offre alternative ai richiedenti asilo del Corno d’Africa se non quella di affidarsi a sensali di carne umana, trafficanti di persone innocenti e disperate». Poiché molti respingimenti ora avvengono anche nel deserto libico verso il Sudan e il Ciad, i profughi sono costretti a cercare altre vie: verso Israele (che per contrastare il fenomeno sta costruendo il muro al confine con l’Egitto), ma anche verso lo Yemen (in questo caso, si parla soprattutto di somali). Il grido d’aiuto dei profughi, bloccati nella periferia di una città del Sinai, è arrivato solo nella tarda serata del 23 novembre. Con la scusa di chiamare i familiari per ottenere i soldi del riscatto chiesto dai carcerieri, alcuni di loro sono riusciti a mettersi in contatto con l’associazione Habeshia e a raccontare la situazione in cui si trovano da più di un mese: incatenati come un tempo si faceva nel commercio degli schiavi, senza la possibilità di lavarsi, fortemente debilitati dalle violazioni ai fondamentali diritti della persona a cui sono sottoposti e dalle cattive condizioni igienico-sanitarie. Secondo le ultime informazioni infatti, ottenute da Zerai nella serata del 26 novembre, hanno a disposizione pochissimo cibo e solo acqua salata da bere, che quindi provoca ulteriori problemi di salute. Le donne sono le più debilitate dalle condizioni di fame, sete e terrore in cui sono tenuti da più di un mese a questa parte. Partiti da Tripoli, in Libia, avevano già pagato ai trafficanti la somma pattuita di 2mila dollari per essere trasportati in Israele. Una volta raggiunto il confine, nel deserto del Sinai, i trafficanti hanno però tradito gli accordi e hanno alzato il prezzo per i loro ‘servigi’: per lasciarli proseguire, hanno chiesto altri 8mila dollari. Chi non paga, è tenuto costantemente sotto minaccia di morte: “se non pagate, morirete qui”. «Questa modalità di ricatto – racconta Zerai – è diventata redditizia per i trafficanti, che sfruttano la disperazione dei profughi. La politica di respingimenti e di chiusura – prosegue ancora – sta favorendo l’arricchimento di trafficanti e criminali, che raggirano i disperati in fuga da guerre, persecuzioni e fame». Ad accogliere l’appello lanciato da Habeshia sono stati finora diversi gruppi e associazioni in prima linea per la promozione dei diritti umani, come il Gruppo Everyone, il gruppo Watching the Sky, il Circolo Generazione Italia di Milano- sezione Diritti Umani e le associazioni Ruota Rossa e Anne’s Door. Habeshia si auspica un intervento in tempi brevi sulla questione da parte dell’Alto Commissario Onu per i Rifugiati, del Parlamento Europeo, della Commissione Europea e soprattutto del Governo Egiziano, per liberare queste persone senza mettere ulteriormente in pericolo le loro vite e la loro dignità. «Ma – aggiunge Zerai – c’è il rischio che una volta liberati i profughi vengano deportati. Il Governo Egiziano non è nuovo a episodi di questo tipo: bisogna chiedere la garanzia che queste persone non vengano riportate nel paese d’origine dopo la liberazione, e che venga loro riconosciuto il diritto d’asilo. Il rischio di deportazione – conclude – è da scongiurare a tutti i costi».

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