giovedì 25 febbraio 2010
Etiopia,la diga di cartapes ta
Finanziato dalla Farnesina con 220 milioni di euro, inaugurato da Frattini il 13 gennaio, l'impianto di Gilgel Gibe II ha già smesso di funzionare. Un tunnel è crollato, mostrando le crepe di un progetto dai contorni ambigui
di Stefano Liberti, Emilio Manfredi - ROMA, ADDIS ABEBA
Alla fine anche il governo etiope ha dovuto ammetterlo. «C'è stato un incidente nel tunnel e abbiamo dovuto sospendere il flusso d'acqua», ha detto in un'imbarazzata conferenza stampa il ministro per l'energia Alemayehu Tegenu. Salvo poi lasciare la parola a Meheret Debebe, capo dell'Ethiopian Electric and Power Corporation (EEPCo), l'ente elettrico etiope, che ha invitato la gente a «comprendere il problema e risparmiare energia finché il guasto non sarò risolto».
Il tunnel a cui si fa riferimento è quello di Gilgel Gibe II. 375 milioni di euro per una galleria di 26 chilometri che genera elettricità sfruttando la differenza di altitudine tra il bacino della diga Gibe I e la sottostante valle dell'Omo.
Alla cerimonia di inaugurazione, il 13 gennaio scorso, c'erano il premier etiope Meles Zenawi, gran parte del governo del paese africano e il ministro degli esteri italiano Franco Frattini. «L'Italia ha contribuito a realizzare un'opera che permette l'accesso all'elettricità a molti milioni di cittadini dell'Etiopia», ha detto il titolare della Farnesina durante la cerimonia. «È un fatto che cambierà la loro vita». Ma neanche due settimane dopo, il 25 gennaio, l'impianto ha smesso di funzionare. Una parte del tunnel è crollata. Il flusso di elettricità è stato interrotto.
La trattativa diretta
Cosa c'entra l'Italia - e il ministero degli esteri italiano - con la diga costruita sul fiume Gibe? Principale finanziatore del progetto attraverso i fondi della cooperazione, esecutore materiale dell'impianto mediante una serie di imprese che fanno capo al gigante delle costruzioni Salini, l'Italia è in prima fila nell'operazione Gilgel Gibe II. Un'operazione dai contorni ambigui, che ha suscitato fin dall'inizio più di una perplessità, soprattutto per il modo in cui è stata condotta. Partita senza un reale studio di impatto ambientale, finanziata con un monumentale «credito di aiuto» di 220 milioni di euro da parte della cooperazione nonostante il parere contrario del ministero delle finanze e della stessa direzione generale della cooperazione allo sviluppo (Dgcs), la storia di Gilgel Gibe II è un'altra brutta pagina della malacooperazione made in Italy.
Il progetto parte nel 2004. La Salini ha appena concluso la costruzione della diga Gilgel Gibe I, finanziata in parte dalla Banca mondiale, e presenta il nuovo progetto al governo etiope. Si potrebbe sfruttare lo stesso bacino per produrre energia sfruttando il salto dell'acqua nella sottostante valle dell'Omo. Il progetto è approvato e assegnato alla ditta italiana senza una gara d'appalto, in aperta violazione della legge etiope e delle linee guida del ministero delle finanze e dello sviluppo economico di Addis Abeba. Una trattativa privata giustificata dal premier Zenawi con la «profonda conoscenza del progetto da parte di Salini e la sua capacità di attrarre fondi da parte di donatori internazionali».
Perché, una volta che il governo di Addis approva, bisogna trovare i soldi per realizzarlo. E qui entra in gioco la Farnesina. Nell'ottobre 2004, la cooperazione italiana dispone un prestito di 220 milioni di euro all'Etiopia per la realizzazione della diga. Una decisione presa in un clima di forte pressione sui membri del comitato e tanto più sorprendente in quanto il nucleo tecnico di valutazione della Dgcs aveva dato un parare negativo, sottolineando le varie anomalie del progetto: innanzitutto, il contratto di realizzazione a trattativa diretta, «che non appare trovare riscontro né nelle procedure vigenti interne alla Dgcs né nella normativa italiana né nelle procedure applicate in materia dalle organizzazioni internazionali e dall'Unione europea». Poi, l'assenza di uno studio di fattibilità, che «incrementa l'anomalia succitata», e la mancanza di una valutazione dei costi delle misure di mitigazione dell'impatto ambientale. Al parere negativo della Dgcs si aggiunge quello del ministero delle finanze secondo il quale il credito d'aiuto è una violazione sostanziale della legge, dal momento che l'Etiopia è un paese altamente indebitato. Gli esperti del ministero fanno notare poi che «l'ammontare del credito è troppo elevato in rapporto all'attuale consistenza del Fondo rotativo». Si tratta in effetti del più consistente credito d'aiuto mai concesso dalla nascita del fondo rotativo della cooperazione italiana. A titolo di paragone, si consideri che la finanziaria 2010 prevede per la cooperazione italiana in tutto il mondo 323 milioni di euro.
Nonostante queste considerazioni, il prestito viene concesso: con 220 milioni di euro, il governo italiano partecipa per il 59% alla costruzione dell'impianto. I fondi restanti sono garantiti da un prestito di 50 milioni di euro della Banca europea di investimento e dallo stesso governo di Addis Abeba. Con un tempismo fulminante, nel gennaio 2005, a soli tre mesi dall'approvazione del nuovo credito, il governo italiano annulla il debito bilaterale con l'Etiopia per un ammontare di 332,35 milioni di euro. In una grande partita di gioco, viene cancellato il debito a un paese che è appena stato reindebitato. Insieme al credito d'aiuto, la Dgcs approva un dono di 505mila euro, che sarà usato per pagare lo stipendio a un tecnico di stanza ad Addis Abeba. Un ingegnere che vive in modo stabile da quattro anni in Etiopia, ma che risulta in modo permanente «in missione all'estero» (con tutti i benefit che questo comporta), il cui incarico viene rinnovato di pochi mesi in pochi mesi.
Studi di impatto fatti a tavolino
Nella seconda metà del 2004, i lavori partono, con una consegna iniziale prevista per il dicembre 2007, poi ritardata anche per un incidente in fase di scavo del tunnel. Poco prima, o contestualmente all'inizio dei lavori, la Salini presenta un piano di impatto ambientale, realizzato dalla ditta Cesi. In questo si elencano in una tabella alcune valutazioni di incidenza dal punto di vista fisico, naturale e socio-economico. La conclusione è che «il progetto idro-elettrico Gilgel Gibe II non sembra avere impatti sulle principali questioni ambientali». In un'altra tabella, si paragona l'impatto ambientale dell'opera in oggetto con le altre opere idro-elettriche in Etiopia, concludendo che Gilgel Gibe II è quella che ha minori impatti in assoluto.
Lo studio sembra fatto apposta per rispondere ai dubbi emanati dalla Dgcs e per ottemperare alla legislazione etiope, che prevede una valutazione dell'impatto per dare il via libera ai lavori. Ma i tecnici della Farnesina non sono convinti: così, nella consueta attività di monitoraggio di un'opera finanziata con un credito di aiuto italiano, avviano alcune verifiche. Nel settembre 2008, viene organizzata una missione indipendente. Di questa fanno parte il professor Antonio Leone, docente di «assetto del territorio» all'università della Tuscia, e l'ingegner Francesco Retacchi. I due esperti si recano sul posto e un mese dopo consegnano la relazione ai committenti della Dgcs. In essa si legge, rispetto allo studio di Cesi, che «esso è molto povero, sia nei contenuti generali sia nell'approfondimento di alcuni importanti impatti» e che «si può oggettivamente affermare che i numerosi ed importanti impatti positivi del progetto risultano sminuiti dal modesto spessore dello studio in esame». Il professor Leone ricorda che, quando gli venne sottoposto lo studio in questione, capì subito che non si trattava di un'analisi seria ma di «una foglia di fico che serviva solo a ottemperare sulla carta i requisiti della legislazione etiope». «Per un'opera di quel genere, mi sarei aspettato come studio di impatto ambientale un metro cubo di carta. Invece mi hanno messo di fronte un testo di 150 pagine. Saltava agli occhi che era del tutto insufficiente», racconta oggi. «Cesi prendeva in esame l'impatto e dava dei voti, senza presentare prove o studi accurati che giustificassero quei voti».
«Un imprevisto geologico»
Tutte considerazioni che trovano ampio spazio nella relazione, alcuni passaggi della quale sembrano peraltro presagire l'incidente di questi ultimi giorni. «Appare necessario che sia predisposto uno studio geo-tecnico in dettaglio, sia per l'area inlet che quella outlet, che individui le aree più vulnerabili, ne valuti i relativi rischi e stabilisca i possibili rimedi per mitigarli», si legge nel testo.
Sono poi stati attuati questi rimedi? L'incidente del 25 gennaio poteva essere evitato? Difficile dare una risposta. Ma gli stessi esperti della Farnesina, che a suo tempo avevano espresso i propri dubbi a proposito del modo in cui era stato approvato il prestito, segnalano alcuni aspetti relativi allo svolgimento dei lavori. «Non è stato fatto un adeguato studio di incidenza geologica», sottolinea un ingegnere della Dgcs. «Non è possibile dire se con il senno di poi uno studio di quel tipo avrebbe impedito i vari incidenti che si sono prodotti, ma sicuramente c'è stata una certa approssimazione in tutta la conduzione del lavoro».
Dopo il crollo del 25 gennaio, la Salini ha dichiarato, attraverso un comunicato sul suo sito web, che «un imprevisto geologico ha provocato un fornello con una venuta di materiale, che ha interessato circa 15 metri del tunnel» e parla di due mesi di manutenzione straordinaria «per consentire l'effettuazione delle necessarie operazioni di ripristino». Ma fonti diplomatiche e tecniche ad Addis Abeba sostengono che l'incidente è più esteso e che per il ripristino del funzionamento della diga «ci vorranno, in un'ipotesi ottimistica, almeno sei mesi». Nel frattempo, gli etiopi sono invitati a risparmiare energia. Una richiesta più che imbarazzante per il governo efficentista di Meles Zenawi, soprattutto se fatta a tre mesi dalle elezioni politiche, con cui il premier tigrino aspira a mantenere quel potere che esercita in modo indisturbato dal 1991.
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