giovedì 25 febbraio 2010
L’Onu contro l’Eritrea: si alle sanzioni
di Matteo Guglielmo
RUBRICA GEES, CORNO D'AFRICA. Votato l'embargo militare per il sostegno di Asmara ai gruppi di opposizione somali e per il contenzioso con Gibuti. La politica estera eritrea e la mancata pacificazione con l'Etiopia.
Alla fine le sanzioni sono arrivate. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione 1907 del 23 dicembre scorso, ha deciso di usare il pugno di ferro contro il governo di Asmara, accogliendo le richieste dell’Unione africana (Ua) e dell'Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad). Il pacchetto di sanzioni approvato prevede essenzialmente un embargo sulla vendita di armi e di qualsiasi tipo di equipaggiamento militare all’Eritrea e il congelamento di fondi, di azioni finanziarie e di risorse economiche eritree all’estero.
Il Consiglio di sicurezza ha approvato la risoluzione quasi all’unanimità, a parte il voto contrario della Libia e l’astensione della Cina. Il governo libico in particolare è stato l’unico a dimostrarsi nettamente contrario alle misure restrittive dell’Onu, giudicando l’operato del Consiglio di sicurezza come non appropriato e volto a esacerbare lo stato di crisi regionale del Corno d’Africa. Secondo le parole dell’ambasciatore Abderrahmane Chalgham, delegato di Tripoli a New York, l’azione delle Nazioni Unite avrebbe semplicemente aggirato un problema scegliendo la strada più semplice, senza preoccuparsi di risolverlo alla radice.
Le motivazioni che hanno spinto il Consiglio di sicurezza ad agire in accordo al capitolo VII della Carta Onu, che prevede misure da adottare a tutela della pace, sono sostanzialmente due: il sostegno economico e militare del governo di Asmara ai gruppi di opposizione armata al Governo federale di transizione somalo e l’occupazione eritrea di una zona di confine contesa con Gibuti. Intanto il governo eritreo, per mezzo del Ministero dell’informazione, ha non solo mostrato la sua contrarietà al pacchetto di sanzioni, ma ha anche indetto, il 22 febbraio, una manifestazione globale per protestare contro le misure adottate dal Consiglio di sicurezza. Le sanzioni erano lo strumento più adatto per risolvere la crisi tra il governo di Isaias Afewerki e la comunità internazionale?
In Inghilterra è da poco stato pubblicato dal noto think tank britannico Chatham House un volume cruciale per cercare di comprendere la politica estera dell’Eritrea. Il libro, che è di fatto una raccolta di saggi è intitolato “Eritrea’s External Relations: understanding its regional and foreign policy”, ed è un resoconto di una conferenza organizzata dallo stesso centro di ricerca londinese il 17 dicembre 2007 dal titolo “Eritrea’s Regional Role and Foreign Policy: Past, Present and Future Perspectives”.
La politica estera eritrea è caratterizzata da diversi fattori, ma soprattutto sembra riflettere fedelmente la storia del Paese, non solo quella post indipendenza, ufficialmente iniziata nel 1993, ma anche quella della lotta e della resistenza collettiva contro l’Etiopia. Quasi trent’anni di lotta di liberazione nazionale hanno finito per formare una classe politica saldamente legata a un’esperienza che Richard Reid, storico e curatore del libro, non esita a definire militarizzata. Un metodo valido, quindi, per capire le posizioni – talvolta spregiudicate – del governo eritreo in politica estera richiede di impostare una riflessione utilizzando un approccio di longue durée, necessario per identificare gli elementi di continuità che hanno caratterizzato i rapporti internazionali eritrei, dalla lotta di liberazione nazionale fino all’entrata ufficiale del Paese nella comunità internazionale.
Il rapporto dell’Eritrea con la comunità internazionale non è stato sempre dei più semplici, e ancora oggi risulta caratterizzato da una certa tendenza allo scontro. Seppur frutto dello stesso processo di formazione storica dello stato eritreo, le difficoltà nelle relazioni di Asmara con la comunità internazionale sono state amplificate anche da alcuni fatti recenti, e in particolare dagli esiti della guerra del 1998-2000 combattuta contro l’Etiopia di Meles Zenawi.
La stipula degli accordi di Algeri, avvenuta 18 giugno del 2000, ha infatti segnato la fine della guerra con l’Etiopia, ma non l’avvio di una normalizzazione delle relazioni bilaterali tra i due Paesi, che sono andate al contrario sempre più peggiorando. L’accordo prevedeva tra le altre cose la formazione di due commissioni che avrebbero dovuto da un lato registrare e regolare le rivendicazioni dei due contendenti (Eecm – Eritrea and Ethiopia Claim Commission) e dall’altro provvedere all’implementazione della demarcazione del confine (Eebc - Eritrea and Ethiopia Boundary Commission).
La Commissione per i confini, in accordo con il proprio trattato istitutivo, aveva il compito di provvedere a una demarcazione sulla base di alcuni trattati coloniali (trattati italo-etiopici del 1900, 1902 e 1908). L’organo, pertanto, non possedeva competenze tali da imporre decisioni sulla questione ex aequo et bono. In particolare, i suoi membri erano privi della facoltà di esprimere giudizi basati su principi di equità, limitando le proprie funzioni al rispetto dei trattati istituiti in epoca coloniale. La decisione della commissione si concretizzò nel marzo del 2003, sancendo il diritto di appartenenza eritrea sul villaggio di Badme, la cui gestione era stata alla base dell’ultima guerra. Le riserve etiopiche sulla decisione dell’Eebc determinarono, però, uno stallo nelle trattative sul confine, aprendo al contempo un nuovo periodo di tensioni.
È dunque da ricercane nella deriva degli accordi di Algeri l’attuale atteggiamento eritreo in politica estera. Gli Stati Uniti, che negli anni novanta intrattenevano ottimi rapporti con il governo di Isaias Afewerki, testimoniati dalla visita dell’allora first lady Hillary Clinton ad Asmara, avevano fatto anche da garanti per il rispetto del trattato di pace. Il rifiuto dell’Etiopia di accettare le disposizioni della commissione e la mancanza di volontà statunitense di opporsi in modo deciso alle riserve poste da Addis Abeba ha dunque riaperto il conflitto, questa volta combattuto su altri fronti e ultimamente in Somalia.
Le sanzioni prese dal Consiglio di sicurezza dell’Onu quindi non solo si innestano in un pregresso delicato, ma sembrano anche prendere in considerazione esclusivamente gli ultimi sviluppi di un processo di radicalizzazione iniziato diversi anni fa. Dunque appare quasi naturale che la percezione che l’Eritrea potrebbe avere verso la risoluzione sia quella del complotto o dell’accerchiamento internazionale. Per cercare di stemperare il clima conflittuale che avvolge il Corno d’Africa sarebbe stato forse più utile evitare di partire dalla “fine”, ovvero dalla deriva radicale che ha assunto la politica regionale di Asmara, concentrandosi invece sulle ferite aperte lasciate dall’ultimo conflitto tra l’Eritrea e l’Etiopia.
Matteo Guglielmo è dottorando in Sistemi Politici dell’Africa all’Università degli studi “L’Orientale” di Napoli, autore del volume Somalia, le ragioni storiche del conflitto, ed. Altravista, 2008.
(25/02/2010)
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