martedì 12 maggio 2009

In Egitto sulla via della diaspora eritrea. Destinazione Israele

Un articolo di Gabriele Del Grande di Fortress Europe Asmara, Cairo, Tripoli, Asmara. Padre Austin sfoglia tra le mani una ventina di buste bianche. Controlla le intestazioni scritte a penna. Non ci sono francobolli. Sono le lettere dei prigionieri eritrei di Burg el Arab. Siamo in Egitto. La parrocchia di Saint Yousuf, nella benestante isola sul Nilo di Zamalek, in pieno centro al Cairo, è un punto di riferimento per i circa 200 eritrei che vivono nella zona. Il giorno prima una delegazione della parrocchia ha visitato il carcere di Burg el Arab, nel nord, vicino Alessandria. Hanno potuto parlare con 15 detenuti, che gli hanno consegnato alcune lettere per i familiari. Dietro le sbarre ci sono 170 eritrei. E non soltanto a Burg el Arab. Le carceri di mezzo Egitto si sono riempite negli ultimi due anni di profughi eritrei e sudanesi. Arrestati nella penisola del Sinai, vengono portati a Qanater, al Cairo, a el-Arish e Rafah, vicino alla striscia di Gaza, e al sud a Hurghada, Shallal, Aswan. È la nuova rotta della diaspora eritrea e sudanese. La meta finale è Israele. In Egitto si entra dal Sudan, via terra, oppure in aereo, atterrando al Cairo con un visto turistico. Dalla capitale, gli intermediari organizzano viaggi nascosti nei camion verso Isma’iliyah, nel nord, da dove gli esuli vengono smistati verso el-Arish e Rafah. Grazie alla vicinanza con la striscia di Gaza, queste città vivono di contrabbando da anni. E sono molte le guide che offrono un passaggio sui fuoristrada verso la frontiera israeliana nel deserto del Sinai. I passeggeri spesso sono abbandonati a se stessi lungo la barriera di filo spinato al confine. Il pericolo maggiore è rappresentato dalla polizia di frontiera, che in questi casi ha l’ordine di sparare a vista. Nel 2008 Amnesty International ha denunciato l’uccisione di 25 profughi. Molte delle vittime erano cittadini eritrei. Come i due giovani feriti a morte il 17 settembre del 2007: Isequ Meles, di 24 anni e Yemane Eyasu, di 30. Entrambi avevano la carta blu dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Acnur), che aveva riconosciuto loro l’asilo politico. A un anno e mezzo di distanza dall’omicidio, incontro due dei loro amici. Si chiamano M. e I. e mi chiedono di parlare sotto anonimato. Ceniamo insieme in un ristorante libanese di Mohandesin, al Cairo. I. è stato arrestato nel maggio del 2008. Si trovava a Isma’iliyah, era diretto in Israele. Lo presero nel più stupido dei modi. Mentre stava passeggiando, da solo, per strada. Li tenevano in celle di otto metri per cinque, in 60 persone. Per terra. Pigiati uno sull’altro. Per tutti e 60 c’era a disposizione un solo bagno. Stavano rinchiusi tutto il giorno, senza poter vedere nemmeno la luce del sole. C’erano eritrei, sudanesi, ma anche ivoriani, nigeriani e camerunesi, perché la rotta ormai è praticata anche dai costieri. La maggior parte dei detenuti erano stati arrestati mentre attraversavano il Sinai. C’erano anche alcuni eritrei che venivano direttamente dalla Libia. Alla morte in mare e alle retate della polizia di Gheddafi avevano preferito lo Stato ebraico. Da mangiare gli davano pane, formaggio e tahina, una salsa di sesamo. I. ricorda l’odore pungente di quei giorni. Molti soffrivano di dissenteria. Altri avevano brutte dermatiti e scabbia. E poi ricorda le umiliazioni, gli insulti e le violenze gratuite della polizia, come quella volta quando furono picchiati dopo l’inutile sciopero della fame di due giorni. I. venne rilasciato dopo 24 giorni di carcere. Lo salvò la sua carta blu dell’Acnur. Gli altri invece furono tutti rimpatriati. Dall’11 al 20 giugno 2008 furono rimpatriati almeno 810 cittadini eritrei. Mentre dal Cairo Amnesty International lanciava grida d’allarme sulla loro sorte, a Asmara la televisione di stato Eri Tv mostrava le immagini dei rimpatriati salutandone calorosamente il ritorno. Il portavoce del governo annunciò che tutti sarebbero ritornati presto dalle loro famiglie, e che addirittura avrebbero ricevuto una compensazione di 500 nafa, circa 50 dollari. Ma non è andata così. Lo sanno bene i familiari dei rimpatriati che vivono qui al Cairo. Sono in contatto permanente con i parenti in patria. Soltanto le donne con bambini sono state rilasciate. Gli altri sono finiti dritti nei campi di addestramento militare, oppure in prigione, come nel caso di C.. C. era compagno di cella di I. nel carcere di Isma’iliyah. E faceva parte del gruppo di 800 eritrei rimpatriati nel giugno del 2008 dall’Egitto. È tornato a farsi sentire nel gennaio del 2009, sei mesi dopo. Aveva con sé il numero di cellulare di M., l’amico di I., al Cairo, e lo contattò. Chiamava da Khartoum, in Sudan, dove vive tuttora, e raccontava di essere riuscito ad evadere dal carcere di Weea, vicino Gelaelo, insieme a altri tre prigionieri politici. Il carcere di Weea ha una triste fame in Eritrea. Si trova in una depressione, una delle zone più calde del paese. Tra le varie torture, i prigionieri sono spesso esposti al sole durante le ore più calde del giorno, con temperature che raggiungono i 50 gradi centigradi. M. conosce bene il carcere di Weea. C’era anche lui tra le centinaia di studenti universitari arrestati nell’agosto del 2001 dopo le manifestazioni di protesta contro la svolta autoritaria del presidente Issaias, culminate con l’annullamento delle elezioni, l’arresto di 11 delle 15 personalità principali del governo e dei partiti, la cacciata dell’ambasciatore italiano e la messa al bando della stampa indipendente. Due degli studenti morirono sotto il sole. Non tutti i rimpatriati però sono stati portati a Weea. I disertori sono stati riportati nelle unità dell’esercito, e stanno probabilmente scontando una pena nelle carceri militari. Chi invece non ha mai iniziato il servizio di leva, è stato portato a Klima, vicino Aseb, in un campo di addestramento militare. Altri semplicemente sono scomparsi: le famiglie non hanno più nessuna notizia del loro destino. Nonostante i rimpatri però, le partenze verso Israele continuano. Al punto che il parlamento israeliano ha votato in prima lettura un disegno di legge che prevede fino a sette anni di carcere per l’ingresso illegale nel suo territorio. Ma quando si è aperta questa rotta? E come mai Israele anziché l’Europa? Per capirlo bisogna fare un salto indietro nel tempo di 26 anni. Al 1983, data di inizio della terza guerra del Sud Sudan, che mieterà due milioni di vittime in 20 anni di combattimenti. All’inizio degli anni Ottanta furono scoperti bacini petroliferi nel sud. Il conflitto armato tra l’esercito e i ribelli del Spla (Sudan People’s Liberation Army) causò centinaia di migliaia di sfollati dentro e fuori il paese. L’Egitto, a nord, fu una naturale via di fuga. I primi profughi al Cairo arrivarono nel 1985. Ad accoglierli furono i padri comboniani della Chiesa del Sacro cuore di Abbasiyah. “All’inizio li ospitavamo in chiesa – ricorda oggi padre Simon -. C’erano 100 persone e una ventina di bambini per cui avevamo organizzato una piccola scuola”. Oggi i bambini sono 1.200 distribuiti in quattro scuole a Santa Bakita, Kilo Arba-u-nus, Maadi e Zeytun. E altrettanti frequentano i corsi di altre 12 scuole messe in piedi dalle altre chiese del Cairo. Sì perché dal 1985 i flussi non si sono mai fermati. La guerra nel sud Sudan è finita con il trattato del gennaio 2005. Dal 1994 al 2005 la missione dell’Acnur al Cairo ha ricevuto 58.535 richieste d’asilo politico di profughi sudanesi. 31.990 hanno ottenuto lo status, 16.675 dei quali sono stati reinsediati all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, in Canada, Svezia e Australia. Nel 2005, dopo la fine della guerra nel sud Sudan, l’Acnur sospese i progetti di resettlement e cessò di riconoscere l’asilo politico ai profughi del sud Sudan. Nel frattempo però, nel 2003 scoppiò un secondo conflitto, nel Darfur, che opponeva le milizie arabe dei Janjaweed, supportati dal governo di Khartoum, ai gruppi ribelli locali, il Sla (Sudan Liberation Army) e il Jem (Justice and Equality Movement). Parte di quei profughi, a partire dal 2004 arrivò al Cairo per chiedere inutilmente asilo politico e un resettlement. Ma l’Acnur non rilasciava sempre più difficilmente la carta blu. Per protesta, da ottobre a dicembre del 2005, un gruppo di 2.000 profughi darfuriani presidiò il parco della moschea Mustafa Mahmud, a Mohandesin, non lontano dalla sede dell’Acnur, chiedendo il rispetto dei propri diritti. A metà novembre l’Acnur decise di chiudere temporaneamente i propri uffici, senza dare maggiori spiegazioni. Nelle prime ore di venerdì 30 dicembre 2005, la polizia egiziana intervenne caricando pesantemente il sit in. Almeno 28 rifugiati vennero uccisi durante i pestaggi. E altri 2.174 furono arrestati. Una parte venne rilasciata due giorni dopo. Li vennero a depositare alla chiesa di Abbasiyah, dai comboniani. C’erano persone con ferite aperte, e arti fratturati, che non avevano ricevuto nessuna assistenza medica. C’erano uomini, donne e bambini. È allora, sostiene padre Simon, che i profughi iniziarono a pensare a Israele. Le date coincidono. Gli emigrati africani intercettati dalle forze di sicurezza israeliane al confine con l’Egitto passarono da 200 nel 2005 a 1.200 nel 2006. I primi arrivati crearono il sogno. Nel giro di pochi mesi, il passaparola arrivò ai 30.000 rifugiati sudanesi residenti al Cairo e alle famiglie in Sudan. E da Khartoum la voce si sparse anche tra la diaspora eritrea. Nel 2007 gli ingressi in Israele dal Sinai sono stati 5.500 ed erano 2.000 soltanto nel primo trimestre del 2008. Non tutti però sognano Tel Aviv. Baptiste è uno di loro. Vive al Cairo dal 2003, e insegna musica in una scuola dei comboniani. Di andare in Israele non se ne parla. Troppo costoso e troppo pericoloso. “Quelli che vogliono partire hanno perso la speranza”. fortresseurope.blogspot.com [ lunedì 11 maggio 2009 ]

Nessun commento: