domenica 31 maggio 2009
L'Africa ringrazia il Papa
Lo stato africano del Burkina Faso difende il papa per le sue dichiarazioni sulla lotta all'Aids, rilasciate lo scorso marzo in viaggio verso l'Africa e che gli hanno attirato critiche da alcuni parlamenti e politici europei, tra cui la Camera del Belgio a la cancelliera tedesca Angela Merkel.
GIACOMO GALEAZZI
Lo stato africano del Burkina Faso difende il papa per le sue dichiarazioni sulla lotta all'Aids, rilasciate lo scorso marzo in viaggio verso l'Africa e che gli hanno attirato critiche da alcuni parlamenti e politici europei, tra cui la Camera del Belgio a la cancelliera tedesca Angela Merkel. «Alcuni criticano la posizione della Chiesa» sulla lotta all'Aids «pretendendo di difendere gli africani», ma il Burkina Faso «rende omaggio» all'insegnamento del papa sulla lotta a questa pandemia. Lo ha detto il nuovo ambasciatore del Burkina Faso, Beyon Luc Adolphe Tiao, nel suo discorso al papa in occasione della presentazione delle lettere credenziali. «Qui da noi, - ha spiegato il diplomatico - l'imam, il sacerdote e il capo consuetudinario lavorano di concerto: tutti hanno l'obiettivo di combattere lo stesso male. Focalizzarsi sul preservativo, significa non occuparsi del problema dell'Aids». L'ambasciatore ha detto di aver «constatato di persona», nel corso del viaggio papale in Africa, «l'intolleranza religiosa che ha effetti tanto devastanti nel mondo».
«La scena internazionale è stata dominata qualche tempo fa da interpretazioni, riteniamo improprie - ha detto l'ambasciatore a Benedetto XVI - di alcune sue decisioni e dichiarazioni; la polarizzazione e l'attenzione sulla questione del preservativo ha completamente occultato l'essenza del suo pensiero su quella terribile pandemia del secolo che è l'Aids». «Sono lieto di assicurarla - ha aggiunto l'ambasciatore del Burkina Faso - che in Africa, dove questo male colpisce di più, l'essenza del suo pensiero è stata ben compresa da milioni di fedeli e anche dalle autorità politiche». «Al di là di ogni polemica - ha sottolineato il diplomatico africano rivolto al papa - rendiamo omaggio al coraggio con il quale lei interpella ogni uomo e ogni donna dinanzi a un male il cui sradicamento fa appello prima di tutto a una concezione responsabile e morale della sessualità».
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/giornalisti/grubrica.asp?ID_blog=242&ID_articolo=403&ID_sezione=524&sezione=
Italia minacciata in materia di diritti umani 30/05/2009
Italia bocciata in materia di diritti umani. Mica una materia qualunque se si pensa che si tratta di diritti sanciti più o meno due secoli fa, di diritti che più di tutto rendono un Paese democratico o meno. Ebbene, in Italia sembrano passati in secondo piano, a colpi di legge approvate senza troppe difficoltà. Nessuno reagisce o almeno così sembra, perché tanto è sempre ‘tutto inutile’, vano. Chi ci prova si sente dire esattamente questo, e allora sono sempre di più quelli che mollano la presa chinando la testa anche davanti a qualsiasi provvedimento. La notizia di ieri però, per quanto il più ‘altolocato’ mondo dei media l’abbia accuratamente snobbata, ha un certo peso soprattutto perché viene direttamente da Amnesty International, fonte eminente se si parla di diritti umani. Il rapporto, presentato a Londra, Roma e in altre capitali concentra la sua analisi su 157 Paesi mettendo in evidenza profonde lacune amministrative, imputabili a cause diverse a seconda del territorio che si prende in considerazione. Christine Weise, presidente della sezione italiana di Amnesty Iternational ha dichiarato che “dietro alla crisi economica si cela una esplosiva crisi dei diritti umani”. Come darle torto, specialmente se si fa riferimento alle politiche nazionali italiane, sotto gli occhi di tutti o forse solo di pochi. La Weise ha anche espresso il suo parere proprio a proposito degli ultimi provvedimenti di casa nostra, definendo il respingimento dei barconi di migranti verso le coste libiche come “un nuovo tipo di violazione dei diritti umani” e per questo “l’Italia è responsabile di ciò che accadrà ad ognuna delle persone riportate in Libia”. Secondo l’Ong infatti, “i richiedenti asilo, il cui dovere di protezione è sancito dalle convenzioni internazionali firmate anche dal nostro Paese, sono a rischio di persecuzioni, torture e altre gravi violazioni dei diritti umani, visto che la Libia non ha una procedura d'asilo e non offre protezione a migranti e rifugiati”. Insomma, il pacchetto sicurezza proposto dal governo italiano (in attesa di approvazione al Senato) non piace agli organi di tutela dei diritti umani, che lo condannano senza troppi giri di parole concludendo che le norme previste, produrranno conseguenze del tutto contrarie a quelle auspicate. Si tratta dunque di un pacchetto sicurezza destinato a generare maggiore insicurezza, e anche in Italia sembra che qualcuno l’abbia capito. Si tratta della Toscana, che facendo ricorso a tutti i mezzi in suo possesso, sta provando ad opporsi strenuamente a quel famoso ‘pacchetto sicurezza’ che proprio non condivide. L’idea è quella di varare una legge in totale contrasto dalla normativa nazionale che, dissociandosi completamente da essa garantisce, per gli immigrati regolari e non, l’assistenza medica (per la maggior parte dei servizi gratuita) senza provvedere alla segnalazione presso l’autorità giudiziaria, nel caso si tratti di un clandestino. Così il caso toscano diventa in un batter d’occhio un caso nazionale, che infiamma gli ultimi scorci di campagna elettorale. In un’intervista rilasciata all’emittente Italia 7, Berlusconi liquida subito il tentativo portato avanti dalla Regione Toscana, affermando: “Questa contro-legge è qualcosa di insensato che veramente risiede nel fatto che la sinistra ha effettuato un cambiamento del Titolo V della Costituzione, assegnando alle Regione dei poteri che ciascuna Regione esercita per conto proprio, molto spesso addirittura in totale distonia rispetto all’interesse del Paese”. Mentre il Pdl pensa già alla proposta di un referendum abrogativo nel caso la legge riuscisse ad essere approvata, D’Alema difende la linea Martini, in quanto solo “con il riconoscimento dei diritti delle persone” si riuscirà a favorire “la sicurezza e l’ordine pubblico”. In questo circo di battute e contro-battute, la questione è per ora rimandata al risultato insindacabile del voto. La maggioranza sembra coesa nel voler appoggiare il provvedimento e questo, quando tutto intorno tace, è già abbastanza rilevante. Perché si tratta di una reazione, di un segno, di un’opposizione a cui purtroppo ci stiamo disabituando. Perché si tratta del principio di uguaglianza tra tutti gli esseri umani.
http://www.055news.it/notizia.asp?idn=27570
Riccardo Cardellicchio. Una carneficina dimenticata
31 Maggio 2009
L’uomo – uno studioso attento, scrupoloso – dice che noi italiani ne abbiamo combinate in Etiopia, imperanti Mussolini e il fascismo. Una carneficina – precisa - che abbiamo rimosso.
Un sacerdote – monsignor Andrea Cristiani, arciprete della Collegiata di Fucecchio e fondatore del Movimento Shalom, presente in diciannove Paesi – ha immaginato una sorta d’atto riparatorio. Prima, con una delegazione ha raggiunto il monastero-città di Debrà Libanòs per consegnare all’abate qualche migliaio di euro per il mantenimento dei monaci. Poi, non lontano da Adis Abeba, in diocesi di Endbir, in una foresta, dove è alto l’analfabetismo, ha realizzato una scuola primaria. Quindi ha deciso di aggiungere un centro alimentazione, in corso di costruzione. Il tutto è reso possibile – precisa monsignor Cristiani – grazie all’attività degli aderenti a Shalom. A dirigere scuola e Centro, le suore della Santa Croce, congregazione siciliana, che hanno deciso di realizzare sul posto una loro casa. Primi passi – precisa – per impegni più consistenti. Un modo concreto di cominciare a chiedere perdono all’Etiopia per quanto avvenuto settant’anni fa. E per ricordare e far ricordare ai distratti.
L’attenzione di Shalom è sul massacro di Debrà Libanòs, il monastero-città, a 90 chilometri da Addis Abeba, fondato da San Takla Haimano’t, e abitato da migliaia di monaci copti.
C’è chi punta il dito accusatore sul maresciallo Rodolfo Graziani, nominato marchese di Neghelli e viceré d’Etiopia. Sulla sua ferocia. È una mezza verità. Difatti, Graziani agisce in base agli ordini ricevuti direttamente da Mussolini. Lo provano tre telegrammi. Il numero 6496: «Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi». Il numero 6595: «Per finirla con i ribelli, impieghi i gas». Siamo oltre la Convenzione di Ginevra. Il numero 8103: «Autorizzo ancora una volta Vostra Eccellenza a iniziare e condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici».
Non si salva nessuno, nonostante si sappia che si tratta, in gran parte, di innocenti.
Graziani subisce un attentato il 19 febbraio 1937 ad Addis Abeba, durante una cerimonia pubblica, affollatissima, al “Piccolo Ghibì”. Rimane ferito dall’esplosione di una delle bombe a mano, lanciate da Abraham Deboth, 25 anni, e Mogus Asghedom, 26 anni, tutti e due ex studenti del liceo “Tifari Maconnen” di Addis Abeba, e alle dipendenze – sotto Hailè Selassiè – del catasto. La moglie di quest’ultimo, Teddessiè Istefanos, chiede e ottiene rifugio a Debrà Libanòs.
Graziani viene ricoverato all’ospedale con 250 ferite da schegge. Non è grave. È andata peggio al generale Lotta, che ci ha rimesso una gamba e un occhio. Peggio ancora ad alcuni notabili etiopi e all’abuna Cirillo: formano l’elenco dei morti.
La reazione è immediata e crudele. Un medico ungherese, presente alla cerimonia, testimonia una verità terribile. Come la testimonia il documentario della Bbc “Fascist legacy”: nessun etiope esce vivo dal cortile della cerimonia. E ce n’erano oltre tremila. L’ambasciatore degli Stati Uniti in Etiopia annoterà: «Fatti del genere non si vedevano dal tempo del massacro degli armeni».
Ma Graziani non è soddisfatto. Non risparmia il clero copto, l’intellighentia locale, l’aristocrazia amhara, mendicanti, indovini, cantastorie e stregoni. Scrive al ministro Lessona: «Convinto della necessità di stroncare radicalmente questa mala pianta, ho ordinato che tutti i cantastorie, indovini e stregoni della città e dintorni fossero arrestati e passati per le armi. A tutt’oggi ne sono stati rastrellati ed eliminati settanta».
S’incendiano tucul, chiese e campi d’orzo. S’inquinano terreni con sostanze chimiche. S’abbatte il bestiame.
Ad Addis Abeba, settecento etiopi escono dall’ambasciata britannica, dove hanno trovato rifugio. Ritengono che il peggio sia passato. Non è così. Vengono fucilati a gruppi. Non pochi bruciati vivi, lapidati o squartati.
Il 22 febbraio, Graziani scrive a Mussolini: «In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con l’ordine di far passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state di conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanto tucul».
I numeri sono ben altri, stando a fonti inglesi, francesi e americane. Si parla di seimila vittime. In massima parte gente inerme.
Il 26 febbraio, è la volta di 45 persone. Sono in gran parte notabili. Qualche giorno dopo tocca a 26 intellettuali. E 400 notabili vengono deportati in Italia. Altri, in gran parte bambini e donne, sono portati al lager di Danane. Il viaggio è lungo e massacrante. E molti muoiono per vaiolo, dissenteria e stenti.
Il 21 marzo, Graziani informa Mussolini che le esecuzioni sommarie sono 324. Ovviamente – precisa – non sono comprese le esecuzioni avvenute subito dopo l’attentato.
Gli italiani non si fermano. Dal 14 marzo al 25 aprile vengono catturate e fucilate almeno cinquecento persone, occupati e incendiati Atzei ed Eso, ritenuti ostili, sequestrato centinaia e centinaia di capi di bestiame. Graziani rileverà, in ogni circostanza: «Li ho fatti passare per le armi».
A maggio l’escalation nei confronti del clero copto.
Il generale Pietro Maletti redigerà un documento in cui sosterrà che in due settimane le truppe italiane hanno incendiato 115.422 tucul, tre chiese, un convento e ucciso 2.523 ribelli.
Il 18 maggio, Maletti accerchia Debrà Libanòs con tre battaglioni di truppe coloniali. Graziani gli ha telegrafato: «Passi per le armi tutti i monaci, compreso il vicepriore». Aggiungendo: «Più Vostra Signoria distruggerà e più acquisterà benemerenze nei riguardi della pacificazione del territorio dell’Impero».
Graziani accusa il monastero di connivenza con gli autori dell’attentato. Hanno dato asilo alla moglie di uno dei due, se non agli stessi attentatori. Ma non ha le prove. Non gli importa che il monastero-città, dal 1881, goda «di una sorta di extraterritorialità giudiziaria, essendo stato autorizzato ad accogliere fuggitivi, inclusi ladri e assassini e a dare loro asilo».
Maletti costringe monaci e pellegrini dentro la chiesa. Fa sigillare le porte.
Il giorno dopo sono sottoposti a interrogatori-farsa, identificati, messi su camion e portati in una zona deserta a Chagel. Di qui a Laga Wolde, «una piana disabitata e ben protetta alla vista da colline».
Ian Campbell e Degife Gabre-Tsadik, negli anni Novanta, hanno potuto accertare che furono massacrate 1.600 persone. E Ciro Poggiali, nel suo diario, scrive: «Non si sono potute eseguire le fucilazioni coram populo perché i condannati dànno esempi superlativamente eroici, di coraggio e di dedizione alla causa abissina, e questa sarebbe stata una pericolosa propaganda contro di noi».
Sono stati risparmiati i diaconi, ma Graziani non ne vuol sapere. E telegrafa: «Ordino di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debrà Libanòs. Assicuri con le parole: liquidazione completata». E a Roma telegrafa di aver fatto giustiziare 129 diaconi a Dabfra Berhan. In realtà sono 400. Conclusione: sono rimasti in vita trenta seminaristi, «rinviati alle loro case di origine nei vari paesi dello Scioa».
«In tal modo» conclude «del convento di Debrà Libanòs non rimane più traccia».
I seminaristi non raggiungeranno mai le loro case: saranno portati nel lager di Danane, insieme con un centinaio di monaci dei conventi di Assabot e Zuquala.
Graziani scriverà in un suo memoriale: «È titolo di giusto orgoglio per me aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti».
Graziani vive asserragliato nel suo palazzo di Addis Abeba, «circondato da filo spinato, da un numero inusitato di mitragliatrici, perfino di carri armati». Ha come guardia un battaglione intero.
Lessona s’è accorto che qualcosa non va in lui. Ma rimanda il suo richiamo in Italia. Lo sostituirà il 20 novembre con il Duca d’Aosta.
Nel frattempo, la carneficina continua. Il 5 luglio i fucilati sono 1.686, che salgono a 1.878 il 25 luglio e a 1.918 il 3 agosto. Si continua a procedere senza prove.
Per Graziani il capo dei capi della rivolta è Hailù Chebbedè, che riesce a catturare nel settembre 1937. Lo fa fucilare e ordina, poi, di esporre la sua testa su un palo nella piazza del mercato di Socotà e Quorum.
Inutilmente il ras Sejum manda a dire a Mussolini, tramite il Ministro alle Colonie: «Qui viviamo nel dolore e senza giustizia».
A ragion veduta Angelo Del Boca, nel suo ultimo lavoro (Neri Pozza editore), mette in dubbio che gli italiani siano stati veramente brava gente sotto il fascismo, ovunque siano andati. A dare corpo al dubbio di Del Boca arriva – è notizia delle ultime ore – il diario di un soldato (Elvio Cardarelli di Vignarello, Viterbo), morto due settimane dopo il suo rientro dall’Etiopia. Un diario bloccato dal regime fascista perché raccontava una verità scomoda nel momento di maggior consenso: l’Italia usò i gas in Etiopia. Precisamente l’iprite, chiamato gas mostarda, vescicante potente, usato nelle guerre chimiche. I tedeschi lo usarono nella prima guerra mondiale a Ypres in Belgio (di qui iprite). Fu adoperato anche nella seconda guerra mondiale. È certo che nell’Adriatico «sono depositate sul fondo alcune centinaia di tonnellate di iprite, in bombole, fatte affondare subito dopo il 1945 dal Comando Alleato per nascondere all’opinione pubblica il loro impiego durante la guerra». Ogni tanto finiscono nelle reti dei pescatori.
Riccardo Cardellicchio
http://www.tellusfolio.it/index.php?prec=%2Findex.php&cmd=v&id=8827#
Venezia peggio di Lampedusa, 1600 migranti respinti
31 maggio 2009 - Diritto d`asilo e migrazioni
Laura Eduati Liberazione
Nel 2008 le autorità portuali hanno respinto 1600 migranti, la maggioranza senza l`opportunità di chiedere asilo nonostante provengano da paesi difficili come Afghanistan, Sudan ed Eritrea. Ora 35 migranti - tra cui numerosi minorenni - respinti hanno presentato ricorso alla Corte europea. I profughi sono anche il frutto delle guerre per portare la democrazia, e degli interventi neocoloniali.
Venezia peggio di Lampedusa, 1600 migranti respinti
Venezia come Lampedusa, ma nessuno se ne accorge. O quasi. Lo scorso anno le autorità portuali hanno respinto milleseicento migranti, la maggioranza senza l`opportunità di chiedere asilo nonostante provengano da paesi difficili come Afghanistan, Sudan ed Eritrea. Arrivano con le navi-cargo o nascosti sotto i tir come Zer, il ragazzino afghano morto a dicembre a soli otto chilometri da Venezia, viaggiava aggrappato alla pancia del camion e venne travolto. In tasca gli trovarono quattro animaletti di plastica e un taccuino con delle poesie.
Ora trentacinque migranti respinti senza uno straccio di documento hanno presentato un ricorso alla Corte europea per i diritti umani di Strasburgo, che ritiene ammissibile la loro richiesta di giustizia - poter chiedere asilo in Italia - e non solo: i giudici chiederanno spiegazioni al governo italiano e greco. Tra i ricorrenti figurano numerosi minorenni, che secondo la legge italiana non dovrebbere subire il respingimento alla frontiera. Eppure numerose violazioni sono state compiute anche nei confronti degli adulti che, scoperti dagli agenti, vengono rinchiusi nelle navi e costretti a tornare in Grecia, molto spesso senza una formale identificazione.
Perché il respingimento è legale nei confronti di coloro che non hanno titolo per ottenere una forma di protezione umanitaria, ma deve essere formalizzato. La normativa sull`asilo, infatti, impone di accogliere i migranti alla frontiera e spiegare quali sono i diritti dei richiedenti asilo. Nel dubbio, spiega una circolare di Amato ancora in vigore, il migrante non può venire cacciato.
Eppure succede, e chissà quante volte. Le autorità portuali di Venezia hanno smesso di sbandierare il numero dei respinti per timore di cattiva pubblicità. E il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), incaricato di informare i migranti direttamente al porto su richiesta diretta della polizia di frontiera, l`anno scorso ha incontrato soltanto 110 migranti sugli 850 respinti nei primi sei mesi del 2008. La questione è chiara: se nessuno avverte il Cir, il Cir non può sapere quando intervenire.
«I milleseicento respinti a Venezia devono essere sommati ai migranti respinti nei porti di Ancona, Bari e Brindisi. Che fine fanno? Perché devono nascondersi?» si chiede Alessandra Sciurba della veneziana Tuttidirittipertutti, la rete che raccoglie associazioni no-profit e anti-razziste. Sciurba ha viaggiato con una delegazione a Patrasso, lo scorso febbraio, per incontrare i migranti rimandati in Grecia. Un viaggio-inchiesta per ricostruire la storia degli stranieri-fantasma, che ufficialmente non hanno mai bussato alle porte dell`Italia poiché nei verbali della polizia non risultano e mai risulteranno.
La delegazione ha trovato l`inferno. Un campo profughi occupato da centinaia di stranieri, molti richiedenti asilo, picchiati quotidianamente dagli agenti greci, indesiderati, raminghi. La Grecia ha firmato la Convenzione di Ginevra ma accoglie uno sparuto 0,3% delle domande di protezione umanitaria, una percentuale davvero irrisoria per un paese di frontiera. E così gli stranieri sono costretti a tentare la fortuna, la via per l`Italia.
Proprio a Patrasso trentacinque migranti afghani, somali ed eritrei hanno consegnato la delega agli avvocati per il ricorso alla Corte europea, e la loro storia si ripete di bocca in bocca: un lungo viaggio nelle navi greche verso Venezia, gli agenti che li sequestrano e proibiscono di mettere piede nel porto, il ritorno tragico al porto di partenza. Alla catena si sono aggiunte le deportazioni verso la Turchia, e da qui verso l`Afghanistan. E` successo alla maggioranza dei ricorrenti seguiti dalla Tuttidirittipertutti e dall`avvocata Alessandra Ballerini di Genova: il governo greco ha ordinato che venissero portati ad Ankara, ed Ankara ha imbarcato gli afghani sul volo per Kabul. La Turchia ha firmato la Convenzione di Ginevra ma con una riserva che esclude gli stranieri provenienti da alcuni Paesi.
«Rischiano davvero la vita», avverte uno degli avvocati veneziani, Luca Mandro: «Tutti venivano perseguitati dai talebani e ora potrebbero morire». Il rischio è che se la Corte di Strasburgo dovesse dare loro ragione, potrebbero mancare i mezzi per riportarli in Italia. Per il momento occorre attendere il formale accoglimento del ricorso. E il 2 giugno la Tuttidirittipertutti organizzerà un battello dei diritti che navigherà da piazzale Roma a piazza San Marco, e poi fino alla stazione marittima dove verranno ricordati i migranti esclusi.
30-05-2009 - Loiero sulle legge accoglienza
L'accoglienza come opportunità per lo sviluppo locale. Un'integrazione possibile perché a misura d'uomo e calibrata sulle esigenze del territorio. E' questa la filosofia, secondo il presidente della Giunta regionale, Agazio Loiero, contenuta nella legge in materia di accoglienza dei richiedenti asilo, dei rifugiati e di sviluppo sociale, economico e culturale delle comunità locali, proposta dall'esecutivo e approvata all'unanimità dal Consiglio. Con questa legge la Calabria si è dotata, prima tra le Regioni italiane, di uno strumento che promuove l'accoglienza e l'inserimento dei rifugiati sul territorio coniugandolo allo sviluppo socio-economico delle comunità locali. "Il provvedimento - ha commentato il presidente Loiero - nasce dalla positiva esperienza di alcuni Comuni della Locride come Riace, Caulonia e Stignano, dove i rifugiati sono diventati una vera e propria risorsa". Arrivati a più riprese a partire dalla fine degli anni '90, gli immigrati sono da tempo impegnati in attivita' artigianali e produzioni locali e stanno così contribuendo, in armonia con la popolazione locale, a rivitalizzare l'economia di borghi segnati da un passato di emigrazione di massa e altrimenti destinati a un futuro di decadenza e spopolamento. Si tratta di un modello di integrazione balzato agli onori della cronaca nazionale la scorsa estate quando la Locride accolse l'appello disperato che arrivava da Lampedusa di farsi carico dei nuovi arrivi visto che il centro d'accoglienza dell'isola era perennemente stracolmo. L'obiettivo che adesso si propone la Calabria, mediante l'erogazione di fondi ai Comuni virtuosi, è quello di "mettere a sistema" il modello Locride, dare cioé impulso alla realizzazione su tutto il territorio regionale di interventi diretti all'accoglienza e all'integrazione per arrivare a definire un vero e proprio sistema regionale integrato di accoglienza. E infatti il provvedimento finanzia, con risorse regionali e comunitarie, i progetti presentati da Comuni, Province, Comunità Montane e altri enti finalizzati all'inserimento socio-lavorativo dei richiedenti asilo e dei rifugiati, soprattutto nei borghi interessati da fenomeni di spopolamento e da particolari sofferenze socio-economiche. Non solo: la legge sosterrà azioni che favoriscano la conoscenza reciproca tra i popoli, base fondamentale di una convivenza serena. L'esperienza insegna che tutto ciò è possibile se attuato gradualmente e attraverso la strategia dei piccoli numeri, tenendo conto cioé delle esigenze di ciascuna comunità locale.
http://www.telereggiocalabria.it/news/2-politica/18489-loiero-sulle-legge-accoglienza.html
Italia, Ordine dei Giornalisti: Carta di Roma
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, condividendo le preoccupazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) circa l’informazione concernente rifugiati, richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti, richiamandosi ai dettati deontologici presenti nella Carta dei Doveri del giornalista - con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità e di non discriminare nessuno per la razza, la religione, il sesso, le condizioni fisiche e mentali e le opinioni politiche - ed ai princìpi contenuti nelle norme nazionali ed internazionali sul tema; riconfermando la particolare tutela nei confronti dei minori così come stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dai dettati deontologici della Carta di Treviso e del Vademecum aggiuntivo, invitano, in base al criterio deontologico fondamentale ‘del rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati’ contenuto nell’articolo 2 della Legge istitutiva dell’Ordine, i giornalisti italiani a:
osservare la massima attenzione nel trattamento delle informazioni concernenti i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti nel territorio della Repubblica Italiana ed altrove e in particolare a:
a. Adottare termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore ed all’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri;
b. Evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. CNOG e FNSI richiamano l’attenzione di tutti i colleghi, e dei responsabili di redazione in particolare, sul danno che può essere arrecato da comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati, anche attraverso improprie associazioni di notizie, alle persone oggetto di notizia e servizio; e di riflesso alla credibilità della intera categoria dei giornalisti;
c. Tutelare i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti che scelgono di parlare con i giornalisti, adottando quelle accortezze in merito all’identità ed all’immagine che non consentano l’identificazione della persona, onde evitare di esporla a ritorsioni contro la stessa e i familiari, tanto da parte di autorità del paese di origine, che di entità non statali o di organizzazioni criminali. Inoltre, va tenuto presente che chi proviene da contesti socioculturali diversi, nei quali il ruolo dei mezzi di informazione è limitato e circoscritto, può non conoscere le dinamiche mediatiche e non essere quindi in grado di valutare tutte le conseguenze dell’esposizione attraverso i media;
d. Interpellare, quando ciò sia possibile, esperti ed organizzazioni specializzate in materia, per poter fornire al pubblico l’informazione in un contesto chiaro e completo, che guardi anche alle cause dei fenomeni.
IMPEGNI DEI TRE SOGGETTI PROMOTORI
i. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, in collaborazione con i Consigli regionali dell’Ordine, le Associazioni regionali di Stampa e tutti gli altri organismi promotori della Carta, si propongono di inserire le problematiche relative a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti tra gli argomenti trattati nelle attività di formazione dei giornalisti, dalle scuole di giornalismo ai seminari per i praticanti. Il CNOG e la FNSI si impegnano altresì a promuovere periodicamente seminari di studio sulla rappresentazione di richiedenti asilo, rifugiati, vittime di tratta e migranti nell’informazione, sia stampata che radiofonica e televisiva.
ii. Il CNOG e la FNSI, d’intesa con l’UNHCR, promuovono l’istituzione di un Osservatorio autonomo ed indipendente che, insieme con istituti universitari e di ricerca e con altri possibili soggetti titolari di responsabilità pubbliche e private in materia, monitorizzi periodicamente l’evoluzione del modo di fare informazione su richiedenti asilo, rifugiati, vittime di tratta, migranti e minoranze con lo scopo di:
a) fornire analisi qualitative e quantitative dell’immagine di richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti nei mezzi d’informazione italiani ad enti di ricerca ed istituti universitari italiani ed europei nonché alle agenzie dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa che si occupano di discriminazione, xenofobia ed intolleranza;
b) offrire materiale di riflessione e di confronto ai Consigli regionali dell’Ordine dei Giornalisti, ai responsabili ed agli operatori della comunicazione e dell’informazione ed agli esperti del settore sullo stato delle cose e sulle tendenze in atto.
iii. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana si adopereranno per l’istituzione di premi speciali dedicati all’informazione sui richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime di tratta ed i migranti, sulla scorta della positiva esperienza rappresentata da analoghe iniziative a livello europeo ed internazionale.
Il documento è stato elaborato recependo i suggerimenti dei membri del Comitato scientifico, composto da rappresentanti di: Ministero dell’Interno, Ministero della Solidarietà sociale, UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) / Presidenza del Consiglio – Dipartimento per le Pari Opportunità, Università La Sapienza e Roma III, giornalisti italiani e stranieri.
ALLEGATO: GLOSSARIO
- Un richiedente asilo è colui che è fuori dal proprio paese e presenta, in un altro stato, domanda di asilo per il riconoscimento dello status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, o per ottenere altre forme di protezione internazionale. Fino al momento della decisione finale da parte delle autorità competenti, egli è un richiedente asilo ed ha diritto di soggiorno regolare nel paese di destinazione. Il richiedente asilo non è quindi assimilabile al migrante irregolare, anche se può giungere nel paese d’asilo senza documenti d’identità o in maniera irregolare, attraverso i cosiddetti ‘flussi migratori misti’, composti, cioè, sia da migranti irregolari che da potenziali rifugiati.
- Un rifugiato è colui al quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, alla quale l’Italia ha aderito insieme ad altri 143 Paesi. Nell’articolo 1 della Convenzione il rifugiato viene definito come una persona che: ‘temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale od opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese’. Lo status di rifugiato viene riconosciuto a chi può dimostrare una persecuzione individuale.
- Un beneficiario di protezione umanitaria è colui che - pur non rientrando nella definizione di ‘rifugiato’ ai sensi della Convenzione del 1951 poiché non sussiste una persecuzione individuale - necessita comunque di una forma di protezione in quanto, in caso di rimpatrio nel paese di origine, sarebbe in serio pericolo a causa di conflitti armati, violenze generalizzate e/o massicce violazioni dei diritti umani. In base alle direttive europee questo tipo di protezione viene definita ‘sussidiaria’. La maggior parte delle persone che sono riconosciute bisognose di protezione in Italia (oltre l’80% nel 2007) riceve un permesso di soggiorno per motivi umanitari anziché lo status di rifugiato.
- Una vittima della tratta è una persona che, a differenza dei migranti irregolari che si affidano di propria volontà ai trafficanti, non ha mai acconsentito ad essere condotta in un altro paese o, se lo ha fatto, l’aver dato il proprio consenso è stato reso nullo dalle azioni coercitive e/o ingannevoli dei trafficanti o dai maltrattamenti praticati o minacciati ai danni della vittima. Scopo della tratta è ottenere il controllo su di un’altra persona ai fini dello sfruttamento. Per ‘sfruttamento’ s’intendono lo sfruttamento della prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato, la schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo degli organi.
- Un migrante/immigrato è colui che sceglie di lasciare volontariamente il proprio paese d’origine per cercare un lavoro e migliori condizioni economiche altrove. Contrariamente al rifugiato può far ritorno a casa in condizioni di sicurezza.
- Un migrante irregolare, comunemente definito come ‘clandestino’, è colui che a) ha fatto ingresso eludendo i controlli di frontiera; b) è entrato regolarmente nel paese di destinazione, ad esempio con un visto turistico, e vi è rimasto dopo la scadenza del visto d’ingresso (diventando un cosiddetto ‘overstayer’); o c) non ha lasciato il territorio del paese di destinazione a seguito di un provvedimento di allontanamento.
fonte OdG - Roma
http://www.reporterfreelance.info/2009/04/26/italia-ordine-dei-giornalisti-carta-di-roma/
IMMIGRATI: BINDI, EUROPA DEVE FARSI CARICO DEL PROBLEMA
(AGI) - Torino, 30 mag. - "L'Europa deve farsi carico del problema dell'immigrazione, perche' ormai interessa tutti i Paesi europei, inoltre deve farsi anche carico di quei Paesi che sono particolarmente sotto pressione come per esempio l'Italia". Lo ha detto Rosy Bindi, vicepresidente della Camera, oggi a Torino, a margine dell'incontro pubblico "I cristiani in politica: la sfida della laicita'" organizzato dal Partito Democratico del Piemonte. "L'Europa - ha aggiunto Bindi - deve ricordarsi sempre e ricordare ai singoli Paesi che noi siamo la terra del diritto e dell'accoglienza, siamo la terra del diritto d'asilo, della solidarieta', non dei respingimenti e delle segregazioni". Secondo Bindi "il grande valore della sicurezza che sta a cuore tutti noi si realizza attraverso il rispetto della legge, della legalita', dei diritti e dei doveri, ma la pedagogia per questo si impara nell'accoglienza e non nei respingimenti".
sabato 30 maggio 2009
Perché la Cina «invade» l'Africa
Che cosa ci fanno centinaia di operai edili cinesi ammassati in cantieri-dormitorio organizzati come piccole Chinatown nel bel mezzo del deserto della Dancalia in Etiopia? E perché diventa sempre più frequente incrociare lo sciamare ordinato di funzionari di Pechino e businessmen di Shanghai negli hotel di Lagos o sulle rotte per Luanda? Il governo di Pechino sta estendendo la sua influenza nei paesi in via di sviluppo, esportando un modello organizzativo, sociale ed economico alternativo a quello dei paesi occidentali proprio a partire dal Continente Nero.
Negli ultimi dieci anni l'Africa è diventata l'obiettivo strategico primario di Pechino e il vero banco di prova della capacità cinese di esportare, adattare e ripensare continuamente il proprio modello di sviluppo. Attraverso un percorso che si snoda sulle piste sabbiose del continente dal sottosuolo più ricco di materie prime, in «L'Africa cinese. Gli interessi asiatici nel Continente Nero» (Editore Università Bocconi pag. 146) Stefano Gardelli analizza in tutte le sue straordinarie contraddizioni l'impatto di un paradigma economico-sociale con il quale tutti sono chiamati a confrontarsi: il «Beijing Consensus».
http://iltempo.ilsole24ore.com/spettacoli/2009/05/30/1030265-perche_cina_invade_africa.shtml
Disastri ambientali, sei milioni in fuga
Sono gli ecoprofughi, hanno come meta i Paesi europei «Per loro lo status di rifugiato». L’iniziativa dell’Onu
La metà sarà costretta a raccogliere in fretta i pochi oggetti sottratti alla furia del cielo e del mare, tallonata nella sua fuga da inondazioni e tempeste, cicloni e uragani. L’altra metà avrà più tempo per arrendersi ai deserti che avanzano, divorando i campi e affamando le bestie, o agli oceani che si alzano, erodendo le coste e distruggendo gli atolli. Tutti, inesorabilmente, se ne dovranno andare.
Questione di settimane, mesi, forse qualche anno. Sono 6 milioni, secondo le stime elaborate da Legambiente. Un dossier, quello dedicato al riscaldamento globale come fattore scatenante delle migrazioni, che sarà presentato oggi a Terra Futura ( www.terrafutura.it), la mostra-convegno internazionale sulla sostenibilità ambientale, economica e sociale; la sesta edizione si chiuderà domani alla Fortezza da Basso di Firenze.
Li chiamano ecoprofughi, e sono l’ultimo tassello in ordine di tempo che si unisce al complicato mosaico dei mutamenti climatici. Secondo l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, il fenomeno è destinato a subire un aumento esponenziale: nel 2050, il mondo potrebbe ritrovarsi a gestire la migrazione forzata di 200-250 milioni di persone da terre inaridite o completamente sott’acqua, devastate dal surriscaldamento o dalla deforestazione. È per questo che Legambiente ha scelto di lanciare, proprio a Firenze, la proposta per il riconoscimento di uno status giuridico ai profughi ambientali. E non è un caso, forse, che questo avvenga in una Regione che si appresta a introdurre — secondo il presidente del Consiglio toscano Riccardo Nencini, «l’assemblea la varerà lunedì» — la «sua» legge sull’immigrazione, in aperta sfida al ddl sulla sicurezza e alla linea politica del governo. Così come non può essere una coincidenza che proprio nei prossimi giorni — come scriveva ieri il New York Times — l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si prepari ad adottare la prima risoluzione che colleghi ufficialmente il cambiamento del clima al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali.
Sono 18 milioni le persone che ogni anno, nel mondo, vengono colpite da disastri naturali; la quasi totalità (98%) si concentra nei Paesi in via di sviluppo. Basta un grande fiume che, gonfiato da un monsone anomalo, esca dal suo alveo per distruggere case, campi, fonti di sostentamento di intere nazioni. Le piogge torrenziali che hanno flagellato la Namibia dal gennaio di quest’anno sono le dirette responsabili dell’esodo forzato di 350.000 contadini e allevatori: il 50% delle strade sono danneggiate, a rischio il 63% dei raccolti. Tra il 1997 e il 2020, nella sola Africa subsahariana le stime parlano di 60 milioni di migranti per la desertificazione. «Ma il problema è anche l’Italia che, negli ultimi 20 anni, ha visto il 27% del territorio — Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia... — inaridirsi fino al punto limite, con il 10% della Sardegna già desertificato ». Maurizio Gubbiotti, coordinatore della segreteria nazionale di Legambiente, traccia un quadro italiano che è l’esatto rispecchiamento di un dramma mondiale. «Kyoto ci chiedeva di ridurre del 6,5% le emissioni; noi le abbiamo aumentate del 13, a livello globale sono cresciute del 37%. Gli scienziati dicono che siamo vicini al punto di non ritorno, quando il pianeta non avrà più capacità di adattamento». Nessuno, dunque, può ritirarsi dalla partita.
«Le crisi ambientali sono ovunque, quasi tutte provocate dall’uomo. E se fino a qualche anno fa il grosso dei rifugiati scappava dalle persecuzioni, dai conflitti, da due anni in qua il numero dei profughi ambientali ha superato quello dei profughi di guerra — fa il punto Gubbiotti —. All’inizio è un passaggio interno, o tra Paesi confinanti; poi diventa la fuga verso Paesi che possono dare più fortuna».
«Sappiamo benissimo che d’ora in poi ci saranno sempre più rifugiati — commenta l’economista americana Susan George, presidente del Transnational Institute di Amsterdam —. Per un semplice motivo: anche volendo, non saranno in grado di restare dove sono. Prendiamo l’Africa, dove l’agricoltura ha già subito un tracollo pari al 60%, dove tutto ciò che è asciutto diventerà ancora più secco e tutto ciò che è bagnato diventerà fradicio... Le condizioni di vita saranno insostenibili».
Gli eco-profughi bussano alle nostre frontiere, «ed è necessario — afferma Gubbiotti — che la politica generale non sia più soltanto il negoziato per ridurre le emissioni di gas inquinanti, ma anche, appunto, la ridefinizione dello status di rifugiati». La proposta può sembrare una provocazione, ma ha i piedi ben piantati sulla terra; già il 31 ottobre scorso, un documento di lavoro dell’Iasc, il comitato inter- agenzia per il coordinamento umanitario Onu, aveva sottolineato come «né la Convenzione sui cambi climatici né il Protocollo di Kyoto includano misure per l’assistenza o la protezione di coloro che saranno direttamente colpiti dagli effetti dei mutamenti nel clima»; e i criteri della Convenzione sullo status dei rifugiati, adottata nel 1951, non paiono abbastanza flessibili per gestire le nuove emergenze. Pochi giorni fa, l’Organizzazione mondiale per le migrazioni ha diffuso un rapporto in cui si riconosce che «i migranti per ragioni ambientali non cadono direttamente in nessuna delle categorie offerte dal quadro giuridico internazionale». E se è vero, ammette Gubbiotti, che «la proposta può sembrare improbabile dal punto di vista della praticabilità», lo è altrettanto che «sul fronte Onu sono già stati fatti passi avanti. E potremmo arrivare a dei risultati concreti».
Nel frattempo, in assenza di una griglia giuridica «aggiornata», è necessario agire. Per spezzare questo circolo perverso, che intreccia indissolubilmente crisi ambientale e crisi sociale. «E la mia proposta — interloquisce la George — è relativamente semplice: l’Europa cancelli subito il debito ai Paesi più poveri. Iniziando dall’Africa subsahariana, che continua a pagare una somma pari a 19 miliardi all’anno. A una condizione: che quel denaro venga investito in riforestazione, conservazione delle riserve idriche, sviluppo di programmi a tutela della biodiversità». Con un monitoraggio costante, «perché è inutile far finta che la corruzione non sia un problema »; ma anche in stretta collaborazione «con associazioni ed esperti locali, mettendo a disposizione un patrimonio di conoscenze tutto europeo — nella silvicoltura, nell’agricoltura sostenibile... ». E poi, dopo l’Africa, «gli altri Paesi più colpiti dall’emergenza ambientale: solo per le deforestazioni, Indonesia, Brasile, Paraguay... il modello, una volta perfezionato, potrebbe essere esportato ovunque».
Gabriela Jacomella
30 maggio 2009
http://www.corriere.it/cronache/09_maggio_30/disastri_ambientali_sei_milioni_in_fuga_gabriella_jacomella_e608d4a0-4cdd-11de-82fb-00144f02aabc.shtml
Rifugiati: non solo asilo
Nasce in Piemonte un coordinamento di associazioni per accompagnare nel mondo del lavoro i migranti con permesso umanitario
Nasce in Piemonte un Coordinamento di associazioni per porre in atto i diritti riconosciuti dei rifugiati politici e titolari di protezione umanitaria presenti a Torino e favorire un loro inserimento sociale.
Torino. Corso Peschiera. Una clinica privata in disuso da anni. Qui, dal 2008, hanno trovato rifugio alcune centinaia di immigrati di nazionalità somala, sudanese, eritrea ed etiope in possesso dello status di rifugiato politico e titolari di protezione internazionale. Stessa situazione in via Paganini, angolo via Bologna, dove ad essere occupata è, dal 2007, una vecchia caserma dei vigili urbani. Strutture in disuso e fatiscenti, senza acqua, riscaldamento, servizi o cucine, in cui vivono centinaia di persone in fuga da guerre, violenze e povertà. Chi ottiene lo status di rifugiato politico, assegnato da una delle dieci commissioni nazionali, in teoria ha accesso al permesso di soggiorno e a tutti quei diritti che vengono garantiti dalla Costituzione italiana e dalle leggi internazionali. Nella pratica, però, tutto questo si risolve in qualche corso di italiano e sei mesi di passaggi nei dormitori, alla fine dei quali si immagina che il migrante sia in grado di essere autonomo, capace di trovarsi una casa e un lavoro. E' evidente che questo percorso di legge non è in grado di rispondere ai diritti e ai bisgono dei rifugiati. Per questo sono nati dapprima un Comitato di solidarietà e da novembre 2008 in parallelo diverse associazioni torinesi hanno creato un Coordinamento per favorire l'inserimento abitativo e sociale dei rifugiati, che tenga conto delle loro capacità, esperienze, attitudini e desideri. L’idea del progetto non è solo quella di rispondere a un'emergenza attraverso la pura logica dell'asistenza, ma il tentativo di creare un percorso che favorisca l'autonomia dei rifugiati. Il primo passo è stato quello di conoscere il percorso di studi, le precedenti esperienze lavorative, le aspettative e i desideri di ogni Rifugiato/a. La seconda fase prevede, invece, l'ospitalità abitativa in strutture gestite dalle associazioni e dalle cooperative, a spese del progetto e l'accompagnamento attraverso un percorso formativo e lavorativo per favorire l'autonomia. Al progetto "Piemonte: non solo asilo" hanno aderito una trentina di associazioni, fra le quali San Vincenzo, Caritas, Migrantes, Amnesty Piemonte, Emergency Torino, Gruppo Abele, Chiesa Evangelica Valdese e molte altre realtà locali, in coprogettazione con il Comune, la Provincia di Torino e la Regione Piemonte. Fra gli obiettivi che sono stati prefissati, anche quello di ristrutturare un edificio in grado di ospitare un'ottantina di persone, da dedicare all'accoglienza degli aventi permesso umanitario. Il lavoro di raccolta e di condivisione delle informazione è partito a metà febbraio e da allora ha portato a metà maggio all'inserimento dei primi trenta rifugiati sul territorio piemontese: 2 ad Avigliana, 3 a Condove, 2 a San Mauro, 6 a Rivoli, 6 ad Ivrea, 6 a Biella e 3 a Torino. Un lavoro sicuramente lento e difficile ma che potrebbe rappresentare un valido modello di accoglienza, replicabile nelle tante città italiane che ospitano persone con permesso umanitario.
Per info: emergency. to@inrete.it
http://it.peacereporter.net/articolo/16023/Rifugiati:+non+solo+asilo
G8, "avanzamenti" su immigrazione.
di Valentina Consiglio e Antonella Cinelli
"DISPONIBILITA' BARROT"
Il ministro dell'Interno Maroni a fine giornata ha parlato di un "avanzamento significativo" sull'immigrazione, tema particolarmente sentito dall'Italia soprattutto dopo le polemiche sulla politica dei respingimenti in Libia recentemente adottata dal governo Berlusconi.
Parlando ai giornalisti, Maroni ha ribadito che l'accordo con la Libia funziona e gli sbarchi sulle coste italiane sono praticamente cessati, ma che questo sforzo bilaterale "che giova a tutta l'Unione Europea deve vedere l'intervento dei Paesi dell'Ue".
"Da parte di Barrot c'è stata la piena disponibilità a discutere di questi temi" al prossimo Consiglio europeo in Lussemburgo, ha detto Maroni.
Da parte sua il commissario europeo alla Giustizia e alla Sicurezza ha sottolineato la necessità di una maggiore solidarietà da parte dell'Ue nel suo complesso.
"Serve più solidarietà da parte di tutti i Paesi dell'Ue. E' molto importante che tutti i ministri dell'Interno siano convinti che la questione si può risolvere solo attraverso la cooperazione europea. Ci sono ministri che non ne sono ancora convinti", ha detto Barrot a margine del vertice.
"La questione più importante è che i richiedenti asilo vengono costretti nelle mani di trafficanti di essere umani. Sarebbe meglio se potessero ricevere un documento in Africa: dobbiamo trovare una soluzione", ha aggiunto Barrot, che a una domanda sulla politica italiana dei respingimenti si è limitato a rispondere che "è necessario distinguere tra richiedenti asilo e migranti irregolari".
Alfano ha spiegato che al vertice è stata individuata "l'idea di rafforzare la cooperazione giudiziaria e il mandato d'arresto internazionale come strumenti validi per arginare la tratta degli essere umani".
Il ministro dell'Interno ha poi sottolineato che "l'Italia ha sviluppato alcuni progetti in coordinamento con l'Interpol, soprattutto per la lotta alla contraffazione di documenti, con un numero altissimo di controlli nel mondo".
http://it.reuters.com/article/topNews/idITMIE54S0G320090529?pageNumber=1&virtualBrandChannel=0
Gli immigrati rendono più di quanto costano
GIOVANNA ZINCONE
L a relazione della Banca d’Italia per il 2008 presenta un quadro dell’immigrazione in Italia già noto. Si tratta di un’immagine variegata: molti studenti, ma troppi di loro in ritardo sul percorso scolastico; molti lavoratori, persino più occupati degli italiani, ma non abbastanza istruiti. Inoltre, sappiamo che gli stranieri stanno oggi perdendo il lavoro più in fretta degli italiani. Insomma, un’immigrazione importante, ma sulla quale bisognerebbe investire, soprattutto in formazione. Spicca tra gli altri un dato particolarmente positivo: gli immigrati rendono per ora più di quanto non costino. Versano il 4% del gettito fiscale e contributivo, mentre assorbono solo il 2,5% delle spese per scuola, pensioni, sanità e altri interventi sociali. Questo ottimistico bilancio si basa su dati 2006, quindi parla di uno ieri, sia pure recente. Proprio per questo la stessa relazione usa prudenza rispetto al domani. Un numero crescente di lavoratori immigrati arriverà a riscuotere la pensione, e potrebbe costituire una piccola onda d’urto sul sistema. Si spera che un numero crescente di figli di immigrati utilizzi e «consumi» istruzione pubblica, e anche questo comporterà costi aggiuntivi. Si deve poi osservare che nel bilancio Banca d’Italia non sono computate le spese che derivano da quella che possiamo definire la parte «scura» dell’immigrazione: ad esempio, i costi dei respingimenti e delle detenzioni nei Centri di identificazione, quelli degli immigrati processati e detenuti.
Ma fortunatamente la Relazione Draghi guarda soprattutto alla parte «chiara» dell’immigrazione. Meno male, una volta tanto è salutare che i riflettori siano puntati su un versante positivo e troppo spesso trascurato: quello degli immigrati che lavorano, studiano, contribuiscono al benessere nazionale. Nel 2008 gli immigrati erano l’8,9% dei lavoratori dipendenti e il 4,5% degli autonomi. Insomma Banca d’Italia ci ha confermato ieri quello che Istat ci aveva detto qualche giorno fa: gli immigrati regolari costituiscono una componente stabile della nostra società, utile, anzi necessaria al suo funzionamento quotidiano: basti ricordare che al 1 gennaio 2009 gli immigrati regolari in Italia erano quasi 4 milioni.
Purtroppo l’azione pubblica italiana appare oggi prevalentemente, se non esclusivamente, interessata a governare la parte «scura» dell’immigrazione. E lo fa a volte con misure e stili che ci valgono richiami a livello internazionale. Questo comportamento non costituisce soltanto un grave errore strategico sui tempi lunghi, perché non cura gli italiani di domani, ma è un abbaglio anche sui tempi brevi. Questa maggioranza così attenta agli umori della opinione pubblica, così pronta a cogliere le paure e gli spaesamenti degli italiani di fronte all’immigrazione, non si è accorta che nel Paese ci sono anche disponibilità e aperture. Un recente sondaggio svolto in vari Paesi europei e negli Stati Uniti rileva in Italia un persistente favore a concedere il voto locale agli immigrati, una larga maggioranza (79%) propensa a rendere più facili gli ingressi per studio e per lavoro, una schiacciante maggioranza (90%) contro la discriminazione, e (86%) che appoggia l'idea di combattere l’immigrazione clandestina destinando maggiori aiuti ai paesi svantaggiati. Peccato che l'Italia dia solo un misero 0,11% del suo Pil, e si trovi così in fondo alla lista dei donatori. Insomma una politica che si occupasse non solo di punire i comportamenti illegali, ma anche di valorizzare e premiare i molti immigrati onesti e produttivi, non solo gioverebbe all’Italia di domani, ma non dispiacerebbe neppure ai suoi elettori di oggi.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6012&ID_sezione=&sezione=
venerdì 29 maggio 2009
Primo incontro degli "Appuntamenti con la storia di Messina"
Ha destato molto interesse il primo incontro degli “Appuntamenti con la Storia di Messina” organizzato dall’Associazione Amici del Museo di Messina, nell’ambito delle proprie attività culturali, con lo scopo di divulgare la storia della Città dello Stretto attraverso argomenti inediti e poco conosciuti. L’appuntamento svoltosi ieri pomeriggio, presso l’Aula Magna dell’Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Maria Jaci” ha visto la relazione dello storico locale Alessandro Fumia che ha parlato brillantemente di un grande messinese totalmente sconosciuto ai suoi concittadini: il navigatore e diplomatico Pietro Rombulo.
L’intervento è stato introdotto dal saluto del Prof. Carlo Davoli, Preside dell’Istituto Tecnico che ha ospitato l’iniziativa, e del Dott. Franz Riccobono, Presidente dell’Associazione Amici del Museo. Pietro Rombulo nacque a Messina nel 1385. Fin da giovane incominciò a viaggiare per l'Italia ma anche per la Provenza e la Spagna. In seguito si spinse fin sulla costa Egiziana presso Alessandria, dove vi dimorerà tre anni. Entrato a far parte nella cerchia dei mercanti genovesi, si spinse fino al Cairo dove fu costretto a fuggire dopo essere venuto in possesso dell'eredità di un valente mercante genovese.
Imbarcatosi su una galea etiope sfuggì alla mano della giustizia fatimida recandosi presso il regno di re David I, Negus di Etiopia. Dimorò in quel regno per circa mezzo secolo sotto la protezione diretta del sovrano. Nei regni prima di Hizba Nan (1430-33) e poi di Zara Yaqub (1434-50) svolse come ambasciatore e come primo ministro importanti incarichi. Navigò l'Oceano Indiano toccando le rotte del Bangladesh, dell'India fino a spingersi verso il regno del Chatai. Viaggiò inoltre sopra i mari della costa del centro Africa e fino in Madagascar dove intensificò i rapporti fra l'Imperatore di Etiopia.
Uno dei più grandi diplomatici di tutti i tempi che ebbe rapporti con re ed imperatori di mezzo mondo. Divenne pure il perno di un grande progetto strategico militare di valenza continentale voluto da papa Eugenio IV, in combutta con il re aragonese Alfonso il Magnanimo e l'imperatore di Bisanzio Giovanni VIII Paleologo, per sconfiggere i Saraceni aprendo di fatto trattative con l'imperatore Etiope Hizba Nan e la Chiesa Cristiano-Nestoriana. Si ricorda a tale scopo un suo viaggio ufficiale a Costantinopoli nel 1432 e successivamente a Napoli nel 1450 dove incontrò il frate domenicano Pietro Ranzano che scrisse in un codice della vita e delle sue opere.
Questo scritto è l’unico che mantenne così la memoria in Italia, del più grande navigatore messinese e siciliano di tutti i tempi. Numerosi sono gli studi su Pietro Rombulo effettuati dalle più importanti università europee e americane ma purtroppo Messina, la sua città di origine, lo sconosce totalmente. Recentemente Palermo gli ha dedicato un'importante strada mentre a Messina nulla ricorda il suo nome. L’incontro di Giugno degli “Appuntamenti con la Storia di Messina” tratterà su Ferdinando II di Borbone e la Città di Messina nel 150° anniversario della morte del sovrano duosiciliano.
Donatella Donato
http://www.omniapress.net/news.asp?id=4519
Siracusa - Rifugiati dal futuro negato
Attualità - Siracusa
giovedì 28 maggio 2009
I fondi per la loro assistenza sono pochi ed oggi è difficile trovare un lavoro nelle terre che li ospitano in strutture improvvisate. Un futuro nero che gli nega ogni speranza , sembra profilarsi per i rifugiati politici. Ieri per strada un giovane nigeriano ci ha pregato di raccogliere il suo appello per la ricerca di un ‘occupazione, una richiesta d’aiuto diventata emblematica della nuova classe sociale emergente :quella dei disperati.
http://www.mediterraneonews.it/Attualita/Siracusa/Siracusa-Rifugiati-dal-futuro-negato/menu-id-183.html
giovedì 28 maggio 2009
IMMIGRAZIONE: NAPOLITANO, LA CRISI NON CANCELLI ACCOGLIENZA
ROMA - Dal Quirinale, Giorgio Napolitano ha detto che la crisi economica non può "mettere in discussione i valori di solidarietà e accoglienza, nel rispetto della legge, cui si ispirano le nostre democrazie".
Giorgio Napolitano, celebrando la giornata dell'Africa al Quirinale, ha chiesto di trasformare la crisi economica in una "occasione preziosa" per rilanciare il processo di sviluppo dell'Africa "su nuove basi innanzitutto superando il concetto di aiuto allo sviluppo basato su una logica asfittica che conduce ad identificarlo nella mera assistenza dei paesi ricchi a quelli più sfortunati". In questa visione, ha aggiunto il presidente della Repubblica, "si deve considerare il continente africano come l'esempio paradigmatico della povertà bisognosa di sostegno". L'Italia, secondo Napolitano, de deve fare la sua parte considerando l'Africa "sempre più come l'area con la quale concentrare gli interventi dell'Unione europea, che è già il primo donatore. L'obiettivo deve essere favorire l'integrazione del sistema economico africano con quello europeo e tendere a garantire sbocchi adeguati alle produzioni locali". A questo proposito, Napolitano ha citato un documento approvato lo scorso marzo dal Parlamento europeo che sottolinea la particolarità della questione africana e in particolare, il fatto che l'inclusione del continente nella strategia della globalizzazione economica non produca per la sua popolazione sufficienti benefici. "E pertanto è essenziale - ha commentato il capo dello Stato - adottare una strategia per l'Africa che tenga conto della complessità dei problemi ancora da risolvere e consenta di affrontare le nuove sfide globali come quelle imposte dall'approvvigionamento di fonti energetiche, dai cambiamenti climatici, dalla salvaguardia dell'ambiente". Per inserire questi temi nell'agenda della comunità internazionale, ha concluso Napolitano, la presidenza italiana del G8 ha previsto "un importante momento di incontro con i paesi fondatori della NEPAD per un confronto costruttivo e franco sul mantenimento degli impegni del G8 per combattere la povertà e su altri temi di prioritario interesse: sicurezza alimentare, salute, risorse idriche, nonché misure di sostegno per le economie più deboli".
FRATTINI, PIU' SPAZIO ALLA VOCE DELL'AFRICA NEL MONDO
Le potenzialità dell'Africa vanno "sfruttate a pieno" per darle un "profilo più marcato sul piano globale". A chiedere che la "voce" del Continente africano possa trovare più spazio ed essere ascoltata a livello internazionale è il ministro degli Esteri Franco Frattini che, questa mattina ha partecipato insieme al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla "Giornata dell'Africa". Il titolare della Farnesina ha indicato tre esercizi attraverso i quali l'Africa potrà diventare più rappresentativa: il vertice G8 dell'Aquila, la riforma delle Nazioni Unite e il partenariato Ue-Africa. Il messaggio politico di fondo che emergerà dal vertice dell'Aquila, ha spiegato in particolare Frattini, sarà quello di una "collaborazione rafforzata e paritaria tra gli Otto Grandi e l'Africa per affrontare insieme le comuni sfide della globalizzazione". E' guardando a questo obiettivo che l'Italia porterà al vertice due elementi innovativi: la partecipazione al dialogo con i Paesi emergenti G8-G5 di un grande paese africano come l'Egitto e la scelta di associare al tradizionale incontro tra i capi di Stato e di governo del G8 e i leader africani, una seconda sessione che coinvolga oltre all'Egitto e alla rappresentanza africana anche i G5.
Immigrazione: Amnesty, l'Italia disprezza i diritti umani
di Federica Di Carlo
ROMA - E' un bocciatura su tutti i fronti quella di Amnesty Italia del pacchetto sicurezza del governo italiano "che - denuncia l'organizzazione nel Rapporto 2009 - non fa altro che aumentare l'insicurezza delle persone che già sono in grandissime difficoltà ". Nel mirino dell'associazione leader nella difesa dei diritti umani e del neopresidente della sezione italiana Christine Weise sono finite soprattutto le ultime misure in materia di immigrazione varate dal governo che, una volta applicate, hanno dato prova di un "disprezzo dei diritti umani" a danno di chi, "fuggendo da situazioni molto critiche cerca riparo nel nostro Paese".
Ma Weise non si limita ad attaccare i respingimenti, ma parla più apertamente di "un clima di razzismo crescente" in Italia verso le minoranze, come "dimostrano gli sgomberi dei campi rom - ha detto - popolazioni in molte occasioni al centro del disprezzo e di una spirale di violazioni dei diritti umani". In occasione della presentazione dell'ultimo rapporto sulla situazione dei diritti umani nel mondo, l'attacco di Amnesty al governo è frontale: "La politica dell'immigrazione italiana e i respingimenti dei rifugiati che arrivano con le barche in alto mare - ha detto Weise - è espressione di un disprezzo dei diritti umani e delle persone veramente disperate che qui cercano solo aiuto". "L'Italia sarà inoltre ritenuta responsabile di quanto accadrà ai migranti e richiedenti asilo riportati in Libia", si legge poi in una scheda allegata al dossier, dedicata al paese africano. Dove, ricorda Amnesty, non esiste "una procedura d'asilo" e non viene offerta "protezione a migranti e rifugiati". Pertanto "considerato l'effettivo controllo che l'Italia ha potuto esercitare, seppur in zona extraterritoriale sulle persone soccorse l'Italia sarà ritenuta responsabile di quanto accadrà ai migranti e ai richiedenti asilo riportati in Libia".
Le preoccupazioni di Amnesty sono del resto supportate dai dati che arrivano dal paese guidato dal colonnello Gheddafi, peraltro atteso a giorni a Roma per una visita che già in molti contestano. Secondo lo stesso rapporto, in Libia si praticano "tortura e altri maltrattamenti nei confronti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in stato di detenzione", mentre "a questi ultimi non è stata data protezione, come richiesto dal diritto internazionale sui migranti". Sempre nella sezione dedicata al Paese 'amico dell'Italià si legge che "il 15 gennaio le autorità hanno annunciato l'intenzione di espellere tutti i migranti illegali e hanno conseguentemente condotto espulsioni di massa di ghanesi, maliani, nigeriani e cittadini di altri Paesi". Inoltre "700 eritrei, uomini, donne e bambini che sono stati detenuti, sono ora a rischio di rimpatrio forzato malgrado i timori che li avrebbero visti esposti a gravi violazioni dei diritti umani in Eritrea". Netta infine la condanna di Weise anche della norma che "fa distinzione fra i reati commessi da italiani o da immigrati irregolari" e che s'inserisce in un trend di "criminalizzazione dei gruppi minoritari, elemento tipico di ogni campagna elettorale". Weise non tralascia di contestare il governo per la vicenda della nave cargo Pinar dell'aprile scorso quando "sia le istituzioni italiane che maltesi hanno disatteso - ha denunciato - una delle regole nota a tutta la gente di mare: salvare vite umane è un imperativo assoluto e deve avere priorità su tutto".
Immigrati, la Ue: «In Libia l'esame per le domande d'asilo»
L'Unione europea continua a insistere sulla necessità di tutelare il diritto d’asilo dei migranti. Proprio «il diritto d’asilo» è al primo posto dei 3 punti contenuti nella lettera inviata ieri dal vicepresidente della Commissione Ue Jacques Barrot alla Presidenza di turno (Repubblica Ceca). Gli altri due punti riguardano «il rafforzamento delle operazioni condotte dall’agenzia Frontex alle frontiere esterne dell’Ue» e «la cooperazione con i Paesi di origine e di transito per la gestione dei flussi migratori». Bruxelles riconosce alla Libia un ruolo centrale e la possibilità di esaminare sul suo territorio, tramite l’Alto commissariato Onu per i diritti dei rifugiati (Acnur), le domande di asilo. Questa soluzione è caldeggiata anche dal governo italiano. Ma in prospettiva, secondo quanto riferiscono fonti della commissione europea, si penserebbe alla concessione di un contributo europeo di 20 milioni di euro per organizzare la cooperazione tra l’Unione e i partner nordafricani nel settore dell’immigrazione.
Più a lungo termine, invece, si dovrebbe tentare la strada della condivisione, tra i 27, dell’accoglienza dei rifugiati politici. Si tratta di un’altra questione più volte sollevata dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. Il «progetto pilota» dell’Ue sarebbe riservato a coloro che hanno già lo status di rifugiato politico e possono essere trasferiti in un altro paese membro. Tutto dovrebbe svolgersi su base volontaria, sia per il rifugiato, sia per il paese che lo accoglie. Non si esclude, in futuro, di allargare il sistema a nazioni extraeuropee, in particolare dell’Africa del Nord, ma con accordi scritti e con l’intervento dell’Acnur.
In realtà, a Bruxelles non ignorano la difficoltà di attuazione di tali propositi e «la diffidenza» che si potrebbe registrare in alcune capitali dell’Unione. «La realizzazione a livello comunitario è molto difficile, ma intanto proponiamo di cominciare con un progetto pilota a cui può aderire chi vuole – hanno spiegato fonti della Commissione –. È chiaro tuttavia che per dare vita a questo nuovo meccanismo sono necessari ulteriori finanziamenti da parte degli Stati membri».
Le proposte di Barrot saranno sul tavolo del Consiglio dei ministri della Giustizia e degli Interni che si terrà il 4 e 5 giugno a Lussemburgo. È l’avvio di quella «risposta europea» chiesta con urgenza non soltanto dall’Italia, ma anche dagli altri "soci" (Spagna, Grecia, Malta, Cipro) investiti direttamente dal problema dell’immigrazione clandestina.
Ieri, durante il question time alla Camera, Maroni è tornato ad affermare l’importanza di un sostegno concreto da parte dell’Ue, ma ha ribadito che la politica adottata da Roma funziona. Il centro di prima accoglienza di Lampedusa è vuoto – ha sottolineato – dopo che gli ultimi 20 immigrati sono stati trasferiti in una struttura per richiedenti asilo. E il flusso degli sbarchi «si è praticamente azzerato». Obiettivi raggiunti in 20 giorni, «grazie all’efficace politica di contrasto all’immigrazione clandestina attuata dal governo, che ha messo in atto riaccompagnamenti e respingimenti».
Alla base della nuova strategia c’è l’intesa sottoscritta con la Libia, dalle cui coste partono i barconi carichi di migranti, che dopo un lungo periodo di "distrazione" sta ora collaborando con le autorità italiane. I buoni rapporti tra i due Paesi sono ulteriormente testimoniati dalla visita ufficiale del colonnello Gheddafi, atteso a Roma il 10 giugno. «Una visita storica – ha commentato il ministro degli Esteri Franco Frattini – è la prima occasione d’incontro in Italia con il leader libico».
Danilo Paolini
IMMIGRAZIONE: BARROT AI 27, TRAFERIRE RIFUGIATI IN SENO UE
(ANSAmed) - BRUXELLES - Agire in fretta, vista la drammaticita' della situazione con il possibile aumento di sbarchi di immigrati nel Mediterraneo nella stagione estiva e far leva sulla solidarieta' tra gli Stati: il commissario Ue alla Giustizia, liberta' e sicurezza, Jacques Barrot, in vista della riunione del Consiglio del 4-5 giugno, ha preparato una lettera ai ministri degli Interni dei 27 in cui mette nero su bianco le azioni che Bruxelles intende portare avanti nei prossimi mesi per far fronte alla pressione migratoria e su cui chiede il contributo di tutti gli Stati membri. PROGETTO PILOTA PER RIFUGIATI - Sul tavolo dei ministri, Barrot, mette la proposta di un progetto pilota destinato a venire incontro ai problemi dell'accoglienza dei richiedenti asilo che beneficiano dello status di rifugiato. Per coloro che hanno bisogno di una protezione internazionale la Commissione ipotizza, una volta accolti in uno degli Stati Ue piu' esposti dalla pressione migratoria o anche in quelli di transito come la Libia, un trasferimento all'interno dell'Unione. Un immigrato accolto a Malta o in Italia potrebbe quindi essere poi trasferito, ad esempio, in Svezia o Finlandia. Per far questo la Commissione e' disposta a incrementare i fondi a disposizione. Gia' oggi vengono attribuiti finanziamenti Ue per 4.000 euro a rifugiato per il Paese che si accolla l'onere di ospitalita'. A Bruxelles, tuttavia, non si nasconde la diffidenza che una simile proposta potra' incontrare in alcuni Paesi, da qui la scelta di chiedere una libera adesione. PARTENARIATO CON PAESI AFRICA - La Commissione punta ad una maggiore cooperazione con gli Stati del Nord Africa, in particolare con la Libia, ma - spiegano fonti comunitarie - Tunisia, Egitto e Marocco hanno gia' dato segnali di voler lavorare insieme. L'idea e' quella di rilanciare un processo di partenariato regionale con una conferenza, una sorta di Tripoli II, affermano fonti comunitarie che fanno capire che Bruxelles potrebbe mettere a disposizione dei Paesi disposti a collaborare fino a una ventina di milioni di euro. POTENZIARE FRONTEX - L'agenzia europea nata per gestire la cooperazione alle frontiere esterne, secondo la Commissione, dovrebbe essere rafforzata per migliorare cosi' la definizione delle operazioni, con accordi chiari e modalita' che consentano di intervenire per evitare perdite di vite umane e far attraccare i barconi degli immigrati la' dove stabilito congiuntamente.(ANSAmed).
mercoledì 27 maggio 2009
Il “Sogno di Tsige” diventa realtà in Valchiusella di Francesca Dighera
Valchiusella - 27/05/2009
Anche la Comunità montana Valchiusella ha deciso di sostenere “Il sogno di Tsige”, l’ambizioso progetto che in Etiopia porta aiuto agli anziani. Il progetto “The Gobezie Goshu Home - Una casa in Adwa Ethiopia” è nato da Tsige Roman Gobezie Goshu, donna etiope nativa di Adwa che con molto coraggio vuole ridare dignità al suo paese.
Tsige ha lasciato la sua città natale all’età di 7 anni ed è stata la prima donna laureata di tutta l’Etiopia ai tempi di Haille Selassie con una laurea in farmacia conseguita alla Università Internazionale di Beirut. Sposata con il responsabile delle telecomunicazioni dell’Etiopia ha visto la sua vita frantumarsi quando all’arrivo di Menghistu le venne confiscata la farmacia e il marito fu condannato a 7 anni di prigione. Malata fu costretta a lasciare l’Etiopia e si trasferì in California dove conseguì un’altra laurea e diresse una catena di farmacie per 23 anni.
Nel 1997 decise di ritornare in Etiopia e rimase sconvolta dalla povertà del suo paese; decise così di andare in pensione anticipata e di fondare una Associazione negli Stati Uniti riconosciuta poi anche in Etiopia. Dal governo etiope si fa dare una grande estensione di terreno e fa costruire la prima casa per anziani.
Perché proprio gli anziani? Perché sono gli ultimi, i pochi aiuti che arrivano sono di solito rivolti ai bambini e ai malati; nulla di solito arriva ai vecchi che giacciono numerosissimi davanti alle chiese.
La struttura in questione ha come obiettivo quello di affrontare il problema della perdita di dignità umana durante la vecchiaia che si manifesta nell’emarginazione degli anziani dalla vita familiare. Quindi offre un sostegno concreto agli anziani costretti a mendicare e a vivere lungo le strade o in prossimità delle chiese e di offrire un luogo dove vivere alle persone con più di 60 anni, sole e senza casa.
Questa struttura si occupa di provvedere al miglioramento delle loro condizioni di vita tramite la fornitura di un alimentazione corretta e sufficiente, la presenza nella struttura di servizi igienici, l’assistenza medica e soprattutto il rispetto della loro cultura. Il progetto prevede quindi azioni mirate a mettere la struttura in grado di organizzare una produzione di uova, ortaggi, frutta, latte e miele, al fine di autosostenere, almeno in parte, le spese di gestione della struttura. tramite l’utilizzo di manodopera locale esterna agli anziani ospiti.
Assistenza a domicilio viene fornita a 64 anziani non trasportabili perchè costretti a letto.Si tratta di un progetto laico ed autoctono diretto, non ha intermediari; sta generando iniziative collaterali come ad esempio asili per l’infanzia e scuole elementari frequentate attualmente da 460 bambini inseriti in 10 scuole condotte da insegnanti etiopi.
Sono tante le azioni necessarie per il raggiungimento dell’autosufficienza di Tsige: la costruzione di strutture per l’allevamento dei polli, delle capre e delle mucche, promuovere la produzione del miele, acquistare capi di allevamento, consolidamento delle sponde e costruzione di una chiusa nel fiume, costruzione di un pozzo per l’acqua potabile e per irrigare il giardino, costruzione di un forno per il pane, di un magazzino di stoccaggio, di un negozio per la vendita dei prodotti e di una farmacia.
Approfittando della presenza in Italia della fondatrice Tsige Roman Gobezie Goshu la settimana scorsa è stata densa di eventi. Lunedì 18 maggio è stata lanciata l’idea di un gemellaggio virtuoso con la “Residenza Furno” di Piverone.
Mercoledì scorso il Progetto è stato presentato al Coordinamento Donne dello SPI/CGIL della Provincia di Torino dove si è ribadita la volontà nell’ambito della Cooperazione Internazionale di continuare il sostegno a questo progetto e di lanciare anche la proposta che le varie Leghe della Provincia adottino un anziano e un bambino come simbolo di rapporto intergenerazionale che va sostenuto.
L’indomani, serata di sensibilizzazione sui problemi dell’Etiopia presso la sala Santa Marta del Comune di Ivrea. Presente l’Assessore alle Politiche Sociali, Paolo Dallan che ha presentato i saluti della città e il sostegno della stessa alla prosecuzione del Progetto. La serata è proseguita con “il Territorio Canavesano per un progetto in Etiopia” con la partecipazione di Adriano Oberto Tarena, Presidente della Comunità Montana Valchiusella, che ha dichiarato di aver aderito con entusiasmo a questo progetto, ricordando che le nostre valli sono sempre state soggette ad emigrazione. http://www.localport.it/eventi/notizie/notizie_espansa.asp?N=46519
Immigrati/ Unione forense: Respingimenti? Denunciamo violazione di: In lotta a tratta violate convenzioni internazionali diritti
Roma, 27 mag. (Apcom) - "Abbiamo inoltrato ufficialmente oggi la lettera di denuncia di violazione della Convenzione europea dei diritti umani alla Corte di Strasburgo, in merito ai 24 migranti che sono stati respinti il 7 maggio scorso in Libia": lo dichiara Anton Giulio Lana, membro del direttivo dell'Unione forense per la tutela dei diritti dell'uomo, che collabora con il Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR). "Tredici di loro - sottolinea - provenivano dall'Eritrea e undici dalla Somalia, quindi avevano tutti diritto a chiedere l'asilo politico. L'Eritrea, infatti, è in una condizione di guerra continua con i paesi confinanti e i civili sono chiamati in massa a una leva forzata e illimitata. In Somalia, invece, i miliziani fondamentalisti di al-Shabab hanno lanciato una violenta offensiva contro le forze governative, che nel solo mese di maggio ha causato centinaia di morti e circa 50.000 profughi". "L'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo - continua Lana - impedisce il respingimento di persone verso paesi di transito dove possono essere soggetti a trattamenti disumani, come la Libia, o verso i paesi d'origine da cui i profughi sono fuggiti. L'articolo 4 del IV protocollo della stessa Carta, inoltre, vieta i respingimenti collettivi senza preventivo accertamento dell'identità. Siamo fiduciosi - conclude - che la Corte possa accogliere il ricorso dei migranti".
Accoglienza per gli immigrati ma senza sconti sui loro doveri
di Andrea Tornielli
Roma Bisogna evitare che in Italia si formino «enclave etniche» e scongiurare «i micro-conflitti diffusi sul territorio» che fatalmente modificano «la percezione che non di rado i connazionali hanno circa la presenza di stranieri», proponendo invece veri e propri «patti di cittadinanza» per gli immigrati che favoriscano la convivenza e l’integrazione, mettendo in chiaro «diritti e doveri», senza «prevedere sconti in nome di un malinteso multiculturalismo». L’ha detto ieri il cardinale Angelo Bagnasco ai vescovi italiani, aprendo in Vaticano i lavori dell’assemblea generale della Cei. Con parole soppesate, il porporato ha lanciato qualche critica al governo, offrendo però sul tema immigrazione una proposta meditata e approfondita, al di là degli slogan e dei fronti contrapposti.
Bagnasco ha spiegato che le «significative correzioni» al disegno di legge sulla sicurezza «non hanno superato tutti i punti di ambiguità». Ha messo in diretta correlazione la prassi dei respingimenti - facendo notare come essa sia «già stata sperimentata in altre stagioni come pure in altri Paesi» - con il clima della campagna elettorale che «non ha sempre assicurato l’obiettività necessaria ad un utile confronto». Ha ricordato che questi episodi vanno giudicati avendo come criterio fondamentale «il valore incomprimibile di ogni vita umana, la sua dignità, i suoi diritti inalienabili». Ma ha pure aggiunto che accanto a questo «valore dirimente» che ne sono altri da tener presenti, «come la legalità, l’affrancamento dai trafficanti, la salvaguardia del diritto di asilo, la sicurezza dei cittadini, la libertà per tutti di vivere dignitosamente nel proprio Paese, ma anche la libertà di emigrare per migliorare le proprie condizioni». Il singolo provvedimento, spiega il presidente della Cei, finisce per essere «fatalmente inadeguato» in assenza di una «strategia più ampia e articolata». L’immigrazione, infatti, va governata, altrimenti «si finisce per subirla».
Bagnasco segnala due vie da seguire: quella della cooperazione internazionale, che «deve diventare un caposaldo trasversale della politica italiana e anche europea», e quella dei processi di integrazione. Va infatti evitato il formarsi di enclave etniche, scongiurando i micro-conflitti diffusi nel nostro territorio: «Guai a sottovalutare - avverte il cardinale - i segnali di allarme che qua e là si sono registrati nel Paese». Integrazione non significa «giustapposizione di etnie che non dialogano», bisogna invece «che scattino i meccanismi di una convivenza, che a partire dall’identità secolare del nostro popolo, si costruisce non in base a moduli autoreferenziali e oppositivi», ma diventa capace di «incontrare altre identità». Ecco dunque la proposta dei «patti di cittadinanza», iniziativa che venne a suo tempo messa in pratica a Bologna dalla giunta Guazzaloca.
L’altro grande tema della prolusione di Bagnasco è stata la crisi economica. Il cardinale ha fatto cenno alla «comprensibile ansia volta a scrutare, e dunque quasi anticipare, i segni di uscita dal tunnel in cui ci troviamo», riferendosi implicitamente all’ottimismo del governo. Ma non se l’è sentita di confermare «voci che si arrischiano in previsioni quasi rasserenanti, che tutti naturalmente vorrebbero vedere confermate». La Chiesa italiana, grazie alla rete delle parrocchie, si rende infatti conto che proprio in questo periodo «la crisi tocca in modo più diretto, quasi cruento, la realtà ordinaria delle famiglie per le quali torniamo ad auspicare un fisco più equo». A ventiquattr’ore dal discorso di Benedetto XVI a Cassino, il presidente della Cei ha parlato diffusamente dell’emergenza disoccupazione, e ha criticato «tempi e modi sbrigativi» con cui le imprese reagiscono alla crisi azionando la leva dei licenziamenti, «come si trattasse di alleggerire la nave di futile zavorra». Il cardinale ha ricordato che a pagare per primi sono «i lavoratori non garantiti», per i quali «gli ammortizzatori previsti sono davvero modesti». La crisi «sta ora producendo i suoi effetti più deleteri sull’anello più debole della nostra popolazione». E la stessa dinamica si ripercuote «sull’economia già precaria dei Sud del mondo, in cui è previsto un aumento di quasi cento milioni di nuovi poveri». Di fronte a questa situazione, ha aggiunto Bagnasco, la Chiesa è mobilitata per rispondere come può alle necessità emergenti: domenica prossima in tutte le parrocchie italiane si terrà una colletta a sostegno del fondo di garanzia per le famiglie in difficoltà.
Infine, il cardinale ha parlato del terremoto in Abruzzo chiedendo che la ricostruzione sia «sollecita, senza intoppi e senza sprechi».
martedì 26 maggio 2009
Africa in vendita in cambio di cibo
La Fao denuncia: rischio catastrofe. Milioni di ettari ad arabi e cinesi
per coltivazioni intensive di riso
DOMENICO QUIRICO
Vendono: non più le materie prime, stavolta vendono la terra, grassa, ricca, che una agricoltura da secoli gratta appena in superficie, o che è rimasta incolta per mancanza di mezzi, di braccia, di capitali. Milioni di ettari d’Africa ingoiati in un sol boccone, 2,41 in cinque anni, in Etiopia Ghana Mali Sudan e Madagascar con la semplice firma in fondo a un contratto, ceduti per venti, trenta, novanta anni, per sempre, come colonie agricole; e gli uomini che vi sopravvivono sono venduti con loro, senza aver diritto di dire no, come ai tempi della servitù della gleba. E del colonialismo. Che oggi ha i colori (e i dollari) delle autocrazie petrolifere, della Cina e dell’India, della Corea. Seul possiede già 2,3 milioni di ettari, Pechino ne ha comprati 2,1 milioni, l’Arabia Saudita 1,6, gli Emirati 1,3. Eccoli i nuovi imperi in nome dell’agrobusiness. Tecnici, amministratori, capi arrivano dall’estero; i locali sono usati solo come forza lavoro sottopagata e addomesticata. Vendono: le infami, fradice élites, i presidenti coronati da elezioni-plebiscito al novantanove per cento. Quelli che non possono arricchire i loro conti nelle banche europee con il petrolio il rame l’oro i diamanti, vendono l’Africa con la sua anima, i suoi orizzonti. Sono contratti mai resi pubblici, opachi come segreti di stato. Si compra bene l’Africa: nel Nord del Sudan il «feddan» (0,42 ettari) è affittato a due, tre dollari l’anno. In Etiopia l’ettaro è valutato tra 3 e 10 dollari. C’è chi dice, anche la Fao, con molte cautele e molti dubbi che potrebbe essere una occasione per lo sviluppo: ovvero che nel continente troppe terre sono abbandonate o mal sfruttate. Forse: ma la realtà è che con la terra si svende anche la speranza degli africani al cambiamento, che nascono camuffate dietro il diritto della efficienza e della produttività nuove schiavitù.
Tra qualche anno in Sudan plebi in perenne bilico sulla carestia, sfiancate dalla guerra civile vedranno passare davanti ai loro campi sterili e arroventati camion stracarichi di ottimo grano: ma non ne toccheranno un chicco, è destinato agli abitanti degli Emirati Arabi Uniti, dell’Arabia Saudita, di un consorzio giordano che hanno comprato 400 mila ettari per trasformarli nel proprio privatissimo granaio. Comincia a preoccuparsi anche l’Onu, dopo un allarmato studio condotto in otto paesi dall’Istituto internazionale per l’ambiente e lo sviluppo. Entro il prossimo anno ci saranno in Africa un milione di operosi contadini cinesi, addetti a 14 gigantesche fattorie che Pechino ha comprato in Zambia Uganda Tanzania e Zimbabwe. Metteranno a cultura le nuove varietà ibride di riso create dai cinesi che permettono di aumentare la produzione del 60 per cento: serviranno a sfamare i sudditi del capital-comunismo la cui agricoltura è in pericoloso ritardo sullo sviluppo. Affiorano i problemi di questa grande razzia e sono politici. Daewoo Logistics, filiale agricola del grande gruppo industriale sudcoreano ha affittato in Madagascar un territorio grande come la metà del Belgio, 1,3 milioni di ettari. Per la durata del contratto, 99 anni, saranno seminati a mais e coperti di palme da olio. Daewoo vuole sfamare il mercato coreano con 4 milioni di tonnellate di mais e 500 mila tonnellate di olio ogni anno: in cambio investirà 4,8 miliardi di euro su 25 anni per bonificare le terre, installare le infrastrutture e comprare le sementi negli Usa e in Indonesia. Ebbene è la prima vendita di terre che ha innescato una rivoluzione vittoriosa: il presidente venditore è stato cacciato da un sussulto di orgoglio nazionalistico. Una volta erano United Fruits, Dole o Michelin a comprare stati interi per trasformarli in monocolture, di gomma o di banane. E facevano e disfacevano i governi e i presidenti.
Ora sono gli stati petroliferi del Golfo e le Tigri asiatiche che affittano gli stati e i loro dirigenti. Si agisce con accordi espliciti, da stato a stato. Dove, come in Mozambico, la costituzione vieta di vendere la terra a stranieri, la Cina ha messo in piedi un consorzio «locale». Rarissimi i casi in cui una parte della produzione servirà a sfamare i mercati locali. Il consorzio Bin Laden, i parenti non terroristi del capo di Al Qaeda, ha comprato 500 mila ettari in Indonesia per produrre riso. Ha annunciato che una parte sarà venduta ai locali. Motivo: «Per evitare che diano seccature».
Eritrea, dove l’acqua costa 30mila euro di Monica Genovese
Il Reporter: Racontare oltre il confine
Oltre centodiciassettemila chilometri quadrati di estensione territoriale. Più di quattro milioni e trecento mila abitanti e soli dieci litri di acqua al giorno pro capite, rispetto ai cinquanta stabiliti, come essenziale alla sopravvivenza, dall’Oms, Organizzazione Mondiale della Sanità.
E’ l’Eritrea. Paese del Corno d’Africa. Terra che si affaccia sul Mar Rosso. Ex colonia italiana nei primi anni del Novecento.
L’Eritrea vive, insieme al resto dell’Africa, un incubo di nome acqua, ovvero mancanza di acqua.
Non è certo una novità, ma quello che, invece rappresenta un fatto del tutto nuovo fonda le sue radici in Piemonte e in uno dei suoi prodotti più apprezzati ed esportati. Il vino.
Attraverso il vino, per dissetare uno o più villaggi africani, bastano sessanta giorni e trentamila euro.
L’associazione “Acqua per la Vita onlus”, nata nel settembre del 2004 nella zona cuneese di Alba, si interessa della realizzazione di pozzi in Eritrea.
Oggi, l’associazione, grazie al ricavato della vendita di pregiati vini piemontesi, mette in moto un progetto per lo sfruttamento delle falde acquifere eritree a fini agricoli ed alimentari.
Non si tratta di consegnare denaro all’Eritrea, ma di insegnare la coltivazione dei terreni e una professione agli africani. Il programma di lavoro è collaudato ed efficace.
L’obiettivo è la facilitazione dell’approvvigionamento dell’acqua che, attraverso la trivellazione di un pozzo, il posizionamento di una pompa sommersa, di un generatore e di un sistema di distribuzione, consenta di attingere acqua direttamente da fontane al centro dei villaggi.
La prima fase della costruzione di un pozzo, una volta disponibili i fondi e ottenuti i permessi dalle locali autorità, coinvolge attivamente gli abitanti della zona in cui si realizza l’opera.
La partecipazione è, sia in termini di forza lavoro, ovvero risorse umane, sia di materiale per la costruzione, dalle pietre alla sabbia. E, a proposito di risorse umane, serve un piccolo team di professionisti.
Un geologo per l’individuazione della falda acquifera. Un muratore e due operai. Un elettricista e un aiutante, un idraulico, cinque manovali e un operatore per l’escavatore.
In merito al materiale: una trivella, una pompa sommersa per il drenaggio delle acque, una cisterna in lamiera, un escavatore, un tubo di polietilene lungo circa due chilometri, un generatore elettrico, un equipaggiamento per il test di pompaggio con generatore su ruote.
E ancora, un quadro elettrico per valutare la quantità di acqua trovata, il materiale per la struttura e la distribuzione di questa, come una cassetta di protezione del pozzo, una casa del generatore e del quadro elettrico, alcuni gruppi di fontane, un basamento della cisterna e un abbeveratoio per gli animali.
Alla fine, la manutenzione ordinaria del pozzo è sempre affidata ad un meccanico del villaggio e ogni tre anni si effettua quella straordinaria.
Viene poi istituito un Comitato del Pozzo che, insieme agli abitanti del villaggio, ne sovrintende la gestione quotidiana, coinvolgendo anche la locale Don Bosco Technical School di Dekemhare, sull’altopiano centrale eritreo.
Una volta soddisfatto il fabbisogno giornaliero per il villaggio, l’acqua può anche essere venduta, ad un prezzo equo, ai villaggi vicini, in modo tale da coprire le spese per la gestione del pozzo, come il gasolio, l’olio-motore, la batteria, i vari filtri, il salario del meccanico.
E’ il Comitato che se ne occupa. Già dai primi rilievi sul territorio è stata determinata la profondità degli scavi per individuare acqua pulita. Quarantacinque, sessanta metri al massimo.
Numeri che insieme agli altri, vale a dire ai trentamila per il costo del pozzo, ai sessanta per i giorni di attività, si riassumono in una parola. Acqua.
I lavori, ormai sono avviati e in una fase avanzata, pertanto, fra non molto, uno dei numerosi villaggi eritrei potrà finalmente bere, senza dover percorrere chilometri da mattina a sera, in mezzo alla boscaglia, per cercare un po’ di acqua in qualche pozzanghera impura.
E uno dei maggiori rischi derivanti dall’uso dell’acqua delle pozzanghere è rappresentato dalla bilarzia e dalla giardia, gravi malattie provocate da parassiti intestinali.
Libri 26.05.2009 Dancalia, la Terra del Diavolo di Monica Genovese
Il Reporter: Racontare oltre il confine
“Quante volte ho guardato sulla carta geografica quella terra impenetrabile e misteriosa che si affaccia sulla costa del Mar Rosso. Quanto ho vagato con la fantasia dentro quel triangolo che va dalla penisola di Buri, in Eritrea, fino a Gibuti e, nell’entroterra, dalle propaggini dell’altopiano etiopico, a ovest, a quello somalo a est. Circa 150 mila km quadrati di superficie, all’interno della quale si estende la Depressione Dancala: un’immensa bassura che sprofonda… fino a 120 metri sotto il livello del mare”. Parole di Antonio Biral, detto il Cobra, scrittore di “Dancalia, la Terra del Diavolo”.
Parole che imprime nella memoria e nel cuore di ogni lettore. Questo libro, infatti, raccontato con semplicità e dovizia di particolari, è un diario di viaggio e, al tempo stesso, un tributo al desiderio umano di esplorare, di scoprire, di avventurarsi nei remoti anfratti del pianeta per carpirne i segreti, per dissetarsi alla fonte dei suoi misteri. La Terra è ancora inesplorata e i suoi abitanti hanno voglia di conoscerla.
Solo alcuni uomini e donne ardono dentro quando aprono una mappa geografica e solo alcuni riescono a trasferirsi da un pomeriggio in città, seduti alla loro scrivania a sognare terre lontane, a calpestare realmente il suolo di tali terre. E il Cobra è un viaggiatore. Uno di quelli che viaggia consapevolmente, affrontando situazioni estreme e pericolose, non per mostra di se, ma per quel fuoco che avvampa l’anima e che spinge al movimento.
Il viaggio è il moto dell’anima e l’anima non può restare ferma. La sua descrizione della Dancalia è viva. Passo dopo passo, frase dopo frase, il lettore è lì, insieme al Cobra e alla sua spedizione e percorre la terra del diavolo dove il caldo è torrido, dove scarsi sono i popoli nomadi, dove l’acqua è un lusso e dove pochissime persone si addentrano nella pancia del pianeta. Inaccessibile Dancalia.
Sulla scia di Ludovico Nesbitt, esploratore inglese di madre italiana, che nel 1928 si reca in Dancalia, Biral conduce tutti in un luogo lontano dal mondo. Paesaggi, tribù locali, nomi di città sconosciute, ansie, dubbi, timori. In queste sue pagine la geografia si tramuta in quotidianità. Sembra di toccare l’arida terra dancala. Le emozioni trasmesse sono forti, onnipresenti dalla prima pagina all’ultima, soprattutto quando Biral narra del rapimento che, nel 1995, lui e i suoi amici subiscono per mano di popolazioni del posto.
E’ una lettura in cui il fiato si sospende per riprendere in maniera spontanea solo a pericolo cessato. A corredo del libro, numerose foto mostrano una parte del mistero. Attento conoscitore dell’Africa, il Cobra risponde a quanti gli suggeriscono di recarsi in località vacanziere “comuni”, piuttosto che in capo al mondo dove il rischio della morte non è poi così impensabile.
Gli esseri umani hanno necessità varie e disparate, ma ciò che accomuna molti, nonostante vivano in periodi storici e luoghi diversi, è il bisogno di esplorare e di raccontare. Un bisogno atavico, inarrestabile a cui si cede sempre e comunque perché è un richiamo dell’anima al corpo. Il viaggiatore è solo il mezzo. Il viaggio è l’unico e vero protagonista.
Africa Day 2009 – Una giornata con l’Africa
Domenica 31 maggio 2009, ore 15.00- 23.00 LA CASA DELLE CULTURE DEL MONDO (via Giulio Natta 11 – Milano. M 1 fermata Lampugnano)
AFRICA DAY 2009 – Una giornata con l’Africa
Il 25 maggio di ogni anno si celebra in tutto il mondo l’Africa Day, una giornata istituita per commemorare la fondazione dell’Organisation of African Unity (OAU), avvenuta nel 1963. L’ OAU è diventata nel 2002 l’attuale Unione Africana. L’Africa Day rappresenta un’ occasione ufficiale per celebrare l’Africa e la sua diversità, sottolineando la varietà le storie, tradizioni, arti, culture che rendono ricco questo continente.
La Casa delle culture del mondo ospita quest'anno la seconda edizione milanese dell'iniziativa voluta e coordinata dall'Associazione culturale Shikamana che ne ha curato l'organizzazione coinvolgendo molte tra le realtà associative e non presenti nel territorio milanese: “Associazione di solidarietà per la giustizia e la democrazia in Eritrea”, “Un Sorriso per il Togo”, “Centro Culturale della Tunisia”, “AIUEF Associazione Italia Uganda Onlus”, “Sinafrica”, “Compagnia Africana”, Arci Darfour, “Sfera Africa Associazione Euro-Panafricana”.
Ogni anno viene scelto simbolicamente un paese africano che faccia da ospite della giornata e guidi le comunità Africane presenti a Milano e nell'hinterland. Dopo la Tanzania nel 2008, quest’anno è il turno dell’Eritrea, rappresentata dall’ “Associazione di solidarietà per la giustizia e la democrazia in Eritrea” che aprirà la giornata alle 15.00 con i saluti iniziali di Michael Kidane, suo presidente, che spiegherà il significato dell'Africa Day e leggerà il messaggio 2009 di augurio e solidarietà.
IL PROGRAMMA
ore 15.00:
Saluti.
Interverranno i rappresentanti dei Paesi di Benin, Costa d'Avorio, Eritrea, Etiopia, Ghana, Rwanda, Senegal, Sudan, Tanzania, Togo, Tunisia, Uganda.
ore 16.00:
“l’Africa ci insegna”:
Laboratori africani di vari paesi: Materiali da sogno: un laboratorio di pittura per bambini diretto dal pittore togolese Kouevi-Akoe Ekoe Kokovi in arte Kikoko. Il laboratorio sarà scandito in due momenti con un primo appuntamento sabato 30 maggio ore 18.00 e prosegue nel pomeriggio del 31. Un divertente viaggio attraverso le immagini, i colori, e l'uso dei materiali dalle carte alle stoffe, dal legni ai filamenti capaci di interagire con il colore e di dar vita alla composizione. Danze tradizionali africane un breve laboratorio di danza africana con la sua varietà di ritmi e di suoni e la sua particolarità di essere fenomeno collettivo. A cura dell’Associazione “Un Sorriso per il Togo”, il laboratorio è diretto da Adotey Akueson in arte Dotcha, artista danzatore riconosciuto dal Ministero della Cultura del Togo Il tesoro di Zanzibar: alla scoperta delle Spezie dell’Africa Orientale. L'Associazione Shikamana mostrerà tutti i principali tipi di spezie di Zanzibar, spiegherà l’origine, l’uso in cucina e nella medicina tradizionale tanzaniana e suggerirà alcune ricette da poter realizzare. Verrà illustrato il procedimento per preparare il the allo zenzero poi preparato dal bar de La Casa delle culture del mondo, da degustare durante la pausa merenda. Laboratorio di pittura su vetro a cura del “Centro Culturale della Tunisia”. Verrà illustrata l'arte della pittura su vetro con il coinvolgimento dei partecipanti Le acconciature tradizionali Africane ed il loro significato simbolico, “AIUEF Associazione Italia Uganda Onlus” ci aiuterà a scoprire il rito delle acconciature, la storia e i significati dei diversi tipi di acconciature, verranno poi realizzate su richiesta treccine e acconciature africane (Ghana e Kenya)
ore 17.30:
Merenda Africana con tè alle spezie e torta di cocco dalla Tanzania, the Somalo, caffè Senegalese
ore 18.30:
Animazione per bambini: La magia dell'Africa musiche e danze a cura di Associazione “Sinafrica”; Racconti di un Griot a cura di Michel Koffi, dell'Associazione “Compagnia Africana”
ore 19.30:
"Io e Cristo extracomunitari" - spettacolo teatrale di Fitzum Brhan, proposto dall' “Associazione di solidarietà per la giustizia e la democrazia in Eritrea”. Scrittore, poeta e drammaturgo Tesfai Fuzum Brhan Abraham, è nato in Eritrea ed è in Italia dal 1983. Ha pubblicato due raccolte di poesie "L’ombra del poeta" (ed Mauro Baroni) e "Macchie della pietra", (Morgana Edizione, 2002) e i romanzi "La signora Monologa" (Morgana Edizione, 1998) e "Alida" (ed. Dell’Arco, 2006).
ore 20.30:
Cena etnica con specialità eritree (si consiglia la prenotazione)
ore 22.00:
"Le Scimmie Verdi" - Spettacolo teatrale di Hamid Barole e Daniele Barbieri. Lo spettacolo del giornalista Daniele Barbieri e dello scrittore Hamid Barole Abdu più che uno spettacolo teatrale è un dialogo che affronta con sana e costruttiva ironia il tema dell'identità, della conoscenza e del razzismo. Un dialogo basato sullo scambio di identità che vuole spingerci a considerare “l'altro” valutandolo anche da un altro punto di vista...
Ingresso libero fino ad esaurimento posti
Per informazioni tel 0233496854/30
culturedelmondo@provincia.milano.it
Per prenotare la cena:
Arci Milano: mail longo@arci.it;
tel. 0254178225
Commissione Usa: in Myanmar e Cina violata la libertà religiosa
Washington, Stati Uniti, 24-05-2009
L'elenco della Commissione, in vigore presso il Dipartimento di Stato, contiene otto paesi a rischio per la libertà religiosa: Myanmar, Cina, Eritrea, Iran, Corea del Nord, Arabia Saudita, Sudan e Uzbekistan.
La liberta' religiosa continua ad essere minacciata in molte parti del mondo, anche se qualche miglioramento e' stato registrato. Lo afferma la Commissione USA sulla liberta' religiosa internazionale (USCIRF) nel suo rapporto annuale, pubblicato dal sito Zenit.org insieme alle raccomandazioni concernenti i Paesi cosiddetti 'di particolare preoccupazione' (Paesi CPC, dall'inglese 'countries of particular concern').
In Cina, secondo la Commissione, "non vi e' stato alcun miglioramento in materia di liberta' religiosa e, anzi, si e' registrato un deciso deterioramento, nello scorso anno, soprattutto nella zona buddista del Tibet e in quella musulmana dell'Uighur".
I Paesi che la Commissione indica potenzialmente tra i CPC sono: Myanmar, Cina, Corea del Nord, Eritrea, Iran, Iraq, Nigeria, Pakistan, Arabia Saudita, Sudan, Turkmenistan, Uzbekistan e Vietnam. Le raccomandazioni dell'USCIRF sono indirizzate al Dipartimento di Stato, il quale poi decidera' in via definitiva quali dichiarare "di particolare preoccupazione".
L'elenco dei CPC attualmente in vigore presso il Dipartimento di Stato contiene otto dei Paesi raccomandati dall'USCIRF: Myanmar, Cina, Eritrea, Iran, Corea del Nord, Arabia Saudita, Sudan e Uzbekistan. La Commissione ha anche stilato una "Watch List" (lista di attenzione) di quei Paesi il cui comportamento raccomanda un attento monitoraggio sull'entita' delle violazioni alla liberta' religiosa. Questo elenco, per il 2009, e' composto da: Afghanistan, Bielorussia, Cuba, Egitto, Indonesia, Laos, Russia, Somalia, Tajikistan, Turchia e Venezuela. Il rapporto contiene informazioni dettagliate su tutti i Paesi CPC e della Watch List.
Il Myanmar - secondo il rapporto - presenta, per il 2008, una situazione tra le peggiori al mondo quanto al rispetto dei diritti umani ed in particolare della liberta' di religione. Il regime militare ha imposto pesanti restrizioni alla pratica religiosa e tiene sotto controllo ogni attivita' delle organizzazioni religiose, osserva la Commissione. Si stima che 136 monaci buddisti si trovino ancora in reclusione, in attesa di giudizio, e che molti monasteri siano ancora chiusi o in funzionalita' ridotte. Inoltre, le minoranze etniche cristiane e musulmane continuano ad incontrare difficolta'.
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